Tu che additasti alle pupille spente… – Prima
parte
Un profeta tra due secoli. Il Beato Don
Pietro Bonilli (1841-1935) e lo sviluppo della sua Opera
Avvertenza: per ragioni di lunghezza, e in accordo con l'Autore, questo articolo è stato pubblicato privo delle note presenti nel testo originale.
Alla memoria del carissimo Amico
Monsignor Agostino Rossi
(1918-2014)
La terra umbra vide in più occasioni fermenti di rivolta contro lo Stato della Chiesa. Ciò ebbe un retroterra ideologico legato all’Illuminismo e alla Rivoluzione Francese del 1789. In due occasioni si registrarono dei mutamenti. Tra il 1798 e il 1799 le truppe di Napoleone Bonaparte (1769-1821) invasero la Regione annettendola alla Repubblica Romana. Tra il 1809 e il 1814 l’Umbria divenne un Dipartimento dell’Impero Napoleonico con capitale prima a Foligno e poi a Spoleto. Alla caduta di Napoleone (1815), lo Stato della Chiesa riuscì a rientrare in possesso del territorio umbro. È il periodo della Restaurazione, del ritorno dei Sovrani assoluti in Europa. Viene ristabilito l’Ancien Régime. La Restaurazione non fu, comunque, solo un processo politico di ritorno «all’indietro». Fu anche, sul piano operativo, un movimento reazionario teso a contrastare le idee della Rivoluzione Francese, diffuse in Europa dagli eserciti napoleonici. Da questo punto di vista, essa si presenta come un fenomeno che supera il livello diplomatico e che si estende anche a quello culturale. L’età della Restaurazione viene fatta coincidere, infatti, con il Romanticismo (in letteratura) e con l’Idealismo (in filosofia). Tale periodo può considerarsi concluso con i moti rivoluzionari del 1830-1831.
1838. Spoleto. L’Arcivescovo Sabbioni
Il 15 settembre del 1821, Spoleto fu elevata al rango di Arcidiocesi da Pio VII con la Bolla Pervetustam episcopalium. All’Ordinario pro-tempore, si aggiunse pure il titolo di Abate commendatario di Santa Croce di Sassovivo. Spoleto, senza Diocesi suffraganee, fu soggetta direttamente alla Santa Sede. Nel suo territorio, oltre a vari eremi, erano presenti comunità religiose, associazioni, Terzi Ordini, confraternite. Nel 1838 fu nominato un nuovo Presule nella persona di Monsignor Giovanni Sabbioni (1779-1852). Quest’ultimo era nato a Fermo. Fu Arcivescovo di Spoleto dal 12 febbraio del 1838 al 26 settembre 1852. Nominò suo Vicario Monsignor Adriano Luparini (13 febbraio 1838).
1841. Nasce il Bonilli
Proprio in terra umbra, nacque (15 marzo 1841) Pietro Bonilli. In quello stesso anno nascevano pure Bartolo Longo (Beato; morto nel 1926), Benedetto Menni (Santo; morto nel 1914), e Giuseppe Tovini (Beato; morto nel 1897), veniva ordinato sacerdote Giovanni Bosco (Santo; 1815-1888), mentre pochi anni prima era morto Padre Gaspare del Bufalo (Santo; 1786-1837). I genitori del piccolo Pietro vivevano a San Lorenzo di Trevi (Perugia), una località dell’Arcidiocesi di Spoleto. La famiglia risiedeva in una modesta casa, non lontana dall’abitato. Il padre si chiamava Sabatino (coltivatore diretto), la madre era Maria Allegretti. Il neonato, primo di quattro fratelli, venne battezzato, nello stesso giorno della nascita, a Castel San Giovanni (nel Comune di Castel Ritaldi, Provincia di Perugia). Nel suo paese non c’era il battistero. Furono scelti i nomi di Pietro, Stefano e Giuseppe. Il piccolo Pietro ricevette la sua prima educazione in famiglia. Il 17 novembre del 1844 gli venne amministrato il sacramento della Confermazione dall’Arcivescovo Sabbioni. La cerimonia fu celebrata presso la parrocchia di Cannaiola, in valle spoletina.
La situazione politica italiana
Quando venne alla luce Pietro Bonilli, la situazione socio-politica italiana, pur in presenza di talune iniziative innovative, non si allontanava in genere da una linea di conservatorismo.
Il Regno di Sardegna era formato dalla Savoia, dal Piemonte, da Nizza, dalla Sardegna, e accresciuto con il territorio della ex Repubblica di Genova. Nel 1841 entrò in vigore il nuovo Codice penale militare (1° gennaio). Fu uno dei provvedimenti che caratterizzò gli anni di Carlo Alberto di Savoia (1798-1849).
A tutt’oggi, la figura di questo Re rimane discussa per il suo comportamento ambivalente («italo Amleto»). In alcuni casi represse i moti liberali, in altre situazioni non si mostrò avverso a (tenui) riforme. Fu vicino a Roma e a Vienna (in chiave anti rivoluzione), ma in altre ore sembrò voler assumere l’iniziativa per l’unificazione italiana (o per un ampliamento del proprio Regno?). Accettò, in determinati momenti, le direttive austriache ma poi criticò il modo di agire di Vienna.
Nel Regno Lombardo-Veneto (amministrato da un Vicerè) continuavano a essere applicate in modo rigido le direttive di Vienna. Il Trentino, Trieste e parte dell’Istria erano diventati territori imperiali. Tutte le più alte cariche provenivano da una nomina regia. I posti-chiave erano stati sottratti ai nobili e agli intellettuali lombardi e veneti, e occupati dai «Tedeschi».
L’amministrazione finanziaria e di polizia era attribuita direttamente al Governo Imperiale, che agiva attraverso un Magistrato Camerale (Monte di Lombardia, zecca, lotto, intendenza di finanza, cassa centrale, fabbricazione di tabacchi ed esplosivi, uffici delle tasse e dei bolli, stamperia reale, ispettorato dei boschi e agenzia dei sali), un Ufficio della Contabilità, una Direzione generale della Polizia. Tutto ciò produsse un’instabilità politica, non compensata da un assetto amministrativo efficiente.
La situazione nel Ducato di Parma e Piacenza presentava taluni aspetti di tolleranza politica. Maria Luigia d’Austria (1791-1847) s’interessò alla prevenzione e alla lotta contro le epidemie. Firmò una serie di regolamenti (4 marzo 1817) che dovevano servire a contrastare un’epidemia di tifo. Intervenne di persona al fabbisogno di poveri, indigenti e malati. Dedicò interesse alla condizione femminile. Nel settembre del 1817 inaugurò l’Istituto di Maternità e la Clinica Ostetrica Universitaria. Pensò anche ai malati di mente. Li fece trasferire in un ambiente più ampio e confortevole, chiamato l’Ospizio dei Pazzerelli (ubicato in un convento cittadino). Nel 1820 venne pubblicato il nuovo Codice Civile per gli Stati Parmensi.
Nel Ducato di Modena e Reggio operava Francesco IV d’Asburgo-Este (1815-1846). Quest’ultimo, avversò in modo molto duro il movimento della Carboneria.
Nel Ducato di Massa e Carrara la figura-chiave fu Maria Beatrice d’Este (1750-1829), madre di Francesco IV d’Asburgo-Este. Nel 1831, il Ducato passò al figlio. In ambito sociale e culturale vennero promosse alcune iniziative significative. Tra queste, il ripristino del servizio scolastico.
Nel Ducato di Lucca erano presenti i Borbone di Parma. Il Ducato fu poi incorporato nel Granducato di Toscana alla morte di Maria Luisa (1847), con il passaggio dei Borbone di Parma al Ducato di Parma e Piacenza.
Nel Granducato di Toscana, aveva assunto il potere Leopoldo II d’Asburgo-Lorena (1797-1870), dopo la morte del padre Ferdinando III d’Asburgo-Lorena (1814-1824), fratello dell’Imperatore d’Austria Francesco I d’Asburgo (1806-1832).
Dimostrò di voler essere un Sovrano non condizionato da interferenze esterne. Confermò i precedenti Ministri. Ridusse la tassa sulla carne. Approvò un piano di opere pubbliche che prevedeva la continuazione della bonifica della Maremma, l’ampliamento del porto di Livorno, la costruzione di nuove strade, un primo sviluppo dell’«industria del forestiero» (turismo), lo sfruttamento delle miniere.
Da un punto di vista politico, il Governo di Leopoldo II fu in quegli anni il più tollerante negli Stati Italiani. La censura non ebbe molte occasioni di operare. Diversi esponenti della cultura italiana del tempo, perseguitati o che non trovavano l’ambiente ideale in patria, trovarono asilo in Toscana.
Alcuni scrittori e intellettuali toscani (per esempio Francesco Domenico Guerrazzi, Giovan Pietro Vieusseux e Giuseppe Giusti), che in altri Stati Italiani avrebbero subito azioni repressive, poterono operare in tranquillità. Unica «ombra» fu la soppressione della rivista «L’Antologia» (1833) per pressione austriaca (e comunque senza ulteriori esiti civili o penali per il fondatore).
Il Governo non duro di Leopoldo II spiega l’assenza in quegli anni di moti o sedizioni. Le attività cospirative furono limitate alla città di Livorno e rimasero di scarsa rilevanza. Gli unici atti repressivi si verificarono nel 1830: soppressione del giornale «L’Indicatore Livornese», e condanna del Guerrazzi a sei mesi di confino a Montepulciano (aveva pronunciato un’orazione in memoria di Cosimo Del Fante).
I moti del 1831, che sconvolsero Modena e Lucca, e le Legazioni dello Stato Pontificio (Bologna, Ferrara, Forlì e Ravenna), non ebbero ripercussioni in Toscana.
Nel 1839 e nel 1841, Leopoldo II permise lo svolgimento dei «Congressi degli scienziati italiani» (Pisa e Firenze), malgrado le minacce del Governo Austriaco.
Nel 1841 si realizzò un censimento della popolazione. Nei registri, per ogni comunità e per ogni parrocchia, si riportarono i dati inerenti le case, le famiglie che vi abitavano e gli individui che componevano ogni nucleo familiare, inclusi i domestici.
Venne, inoltre, pianificato uno sviluppo della rete ferroviaria, mentre la normativa riguardante le tariffe doganali subì riforme in senso liberale. Particolarmente significativo fu l’aiuto offerto da Leopoldo II in occasione dell’alluvione del 3 novembre 1844.
Nello Stato Pontificio, dal 1831, regnava Gregorio XVI (al secolo Bartolomeo Cappellari; 1765-1846). Apparteneva alla Congregazione Camaldolese dell’Ordine di San Benedetto. In tale periodo emersero criticità politiche. Nello stesso 1831, venne proclamata a Bologna la nascita delle Province Unite Italiane. Gli insorti dichiararono la secessione delle Legazioni di Bologna, Ferrara, Forlì e Ravenna. Per sedare le rivolte e riportare l’ordine sociale, la Santa Sede dovette chiedere l’intervento dell’esercito austriaco.
Nel Regno delle Due Sicilie (sorto nel 1816), rimanevano tensioni politiche e repressioni. La cronaca del 1841 registra nuove condanne a morte (settembre). Nello stesso anno entrò in funzione il primo Osservatorio vulcanico e sismologico del mondo, quello «Vesuviano». Nel 1843, il 76% degli abitanti del Regno svolgeva attività legate a vario titolo alla campagna e all’agricoltura. Il Paese, tuttavia, era profondamente diviso in due aree: mentre le zone dell’interno, spesso (e soprattutto se montagnose), erano più arretrate e condizionate dall’ambiente, le regioni costiere si erano maggiormente inserite nel grande circuito del commercio internazionale.
Alcuni aspetti della vita italiana del tempo
Nella Penisola Italiana, divisa in più Stati, la vita quotidiana delle popolazioni si svolgeva sotto gli occhi della censura e nel rispetto di regole molto precise in materia di ordine pubblico. L’uso di alcune parole rimaneva severamente proibito («Italia», «liberale», «Costituzione», «rivoluzione», «rivoluzionario»). In ambito economico, tra gli avvenimenti rilevanti, si possono ricordare l’apertura di un grande cantiere navale a Castellammare di Stabia (15 agosto 1841), e l’utilizzo del treno. I primi collegamenti ferroviari riguardarono: Napoli-Portici (1839), Milano-Monza (1840), Lucca-Pisa (l’ultimo tratto fu inaugurato nel 1946).
Nel maggio del 1841 Carlo Alberto visitò la Sardegna. Con la sua presenza voleva sostenere un moto riformatore in senso statale. In precedenza, nel 1838, i Savoia avevano abolito il feudalesimo in Sardegna (i feudi erano 40). Una specifica legge, emanata da Carlo Alberto l’11 dicembre del 1838, stabiliva le modalità del riscatto da parte dei Comuni. Il tentativo innovatore del Monarca riuscì parzialmente. Seguitarono a resistere le giurisdizioni baronali e le servitù personali.
Dal 21 al 26 gennaio 1841 il Meridione fu colpito da un accentuato peggioramento climatico. Si verificarono piene e inondazioni in vari paesi e città. Le vittime furono numerose. L’episodio più grave si verificò a Gragnano (Napoli). Il fango e la frana di una collina distrussero il paese. Persero la vita 113 persone.
Nel territorio umbro, e spoletino in particolare, le condizioni dell’agricoltura presentavano notevoli criticità. Ciò che proveniva dal lavoro dei campi costituiva la fonte quasi esclusiva dell’attività economica.
Nelle campagne, esisteva un elevato grado di concentrazione della proprietà terriera, un’arretratezza dei metodi di coltivazione, e una non razionale distribuzione delle colture. Permaneva anche un’assenza di proprietari capaci di modificare situazioni esigenti riforme. La forma di conduzione più diffusa era la mezzadria, di modesto rilievo la conduzione diretta.
Al mezzadro era in genere concessa la divisione a metà dei prodotti quali il grano, il granoturco, i legumi, ma solo un terzo dell’uva e due quinti dell’olio.
Era un obbligo, invece, del colono la fornitura del seme, il pagamento della collaja per l’uso del bestiame, la partecipazione al pagamento per un terzo o per un quarto delle tasse fondiarie, la fornitura e la manutenzione degli attrezzi di lavoro, il trasporto delle derrate di parte padronale nei magazzini e depositi padronali dietro un esiguo compenso.
Sul colono gravavano inoltre obblighi legati a pesanti regalie in polli, uova e capponi a Natale, Pasqua, Carnevale e Ferragosto. La famiglia colonica doveva provvedere a spaccare la legna e a fare il bucato per il padrone.
Questa situazione non cambiò molto dopo l’Unità d’Italia. Tra i problemi del tempo sono da segnalare anche le frequenti carestie (1854, 1856, 1858, 1859), e i terremoti (1877, 1878, 1881).
La vita ecclesiale
Durante il Pontificato di Gregorio XVI fu condannato il liberalismo religioso e politico (Enciclica Mirari Vos, 15 agosto 1832), mentre presero vigore quelle idee ultramontane che trovarono poi un’espressione compiuta durante i lavori del Concilio Vaticano I. Il 7 aprile 1843 il Papa approvò il culto di Camilla Battista da Varano (Santa; 1458-1524). Unitamente a ciò, la Santa Sede affrontò il tema della schiavitù (realtà presente specie nelle Americhe). Il 3 dicembre 1839, con la Lettera Apostolica In Supremo Apostolatus, fu condannata la schiavitù come «delitto». Nel frattempo, in Europa, la cronaca ecclesiale del tempo registrava varie luci e diversi aspetti nodali. Ci si limita a qualche indicazione esemplificativa.
Nel 1833, il sacerdote Antonio Rosmini-Serbati (Beato; 1797-1855), un prete impegnato nell’azione caritativa e nel rinnovamento della cultura cattolica, scrisse Le cinque piaghe della Santa Chiesa. Si trattava di una critica del Cattolicesimo italiano e austriaco del suo tempo. Le cinque piaghe erano: la divisione del popolo dal clero nel culto pubblico; l’insufficiente educazione del clero; la disunione tra i Vescovi; la nomina dei Vescovi lasciata al potere temporale; la servitù dei beni ecclesiastici.
Nello stesso anno, il laico cattolico Federico Ozanam (Beato; 1813-1853) fondava a Parigi la prima delle Conferenze di San Vincenzo de’ Paoli. Si voleva organizzare una rete di solidarietà per gli emarginati del tempo. La carità, per questo autore, doveva evolvere nel senso della giustizia. Ultramontanismo, liberalismo e Cattolicesimo sociale troveranno in lui un singolare momento di raccordo, prima della loro definitiva divaricazione.
Nell’aprile del 1834 il sacerdote Félicité Robert de Lamennais (1782-1854) pubblicò Parole d’un credente. Con tono apocalittico annunciò l’avvento di una nuova era dell’umanità, nella quale Cristo avrebbe liberato i popoli dalla tirannia dei despoti e dei potenti. Il Lamennais uscì poi dalla Chiesa Cattolica e morì senza essersi riconciliato con quest’ultima.
Nel 1835 il prete romano Vincenzo Pallotti (Santo; 1795-1850) fondò l’Unione dell’Apostolato Cattolico, composta da sacerdoti, suore e laici. Fu definito da Pio XI un precursore dell’Azione Cattolica.
Nel 1841, anno di nascita di Pietro Bonilli, il filosofo tedesco Ludwig Feuerbach (1804-1872) pubblicò L’essenza del Cristianesimo. In questo lavoro, l’autore affermò che non è Dio che ha creato l’uomo, ma è l’uomo che ha creato Dio. La religione, scrisse, è l’insieme dei rapporti dell’uomo con se stesso. Questo studioso fu il fondatore dell’ateismo ottocentesco.
Nel 1843, uscì un’opera del prete piemontese Vincenzo Gioberti (1801-1852) dal titolo: Del primato morale e civile degli Italiani. Con questo testo vennero diffuse le posizioni del movimento neoguelfo (si pensava a una Confederazione di Stati presieduta dal Papa).
Nel 1845, John Henry Newman (Beato; 1801-1890), prete anglicano del «Movimento di Oxford» (impegnato nel rinnovamento della Chiesa anglicana) e studioso dei Padri della Chiesa, si convertì al Cattolicesimo, convinto che la Chiesa Romana rimaneva l’autentica continuatrice di quella apostolica.
Sul versante pastorale (Italia)
In ambito pastorale, specie dopo la Restaurazione, la Chiesa Italiana s’impegnò ad affrontare una diffusa ignoranza religiosa attraverso tre strumenti-chiave: la predicazione ordinaria, le missioni al popolo, e i catechismi.
1) Predicazione: le caratteristiche generali ricalcarono, per un non breve periodo, gli orientamenti già delineatisi nella prima metà del XIX secolo.
Quando s’intensificò la riunione di sinodi diocesani in Italia (Pontificato di Pio IX), nelle delibere di questi organismi collegiali fu incluso un richiamo ai parroci a spiegare il Vangelo della liturgia del giorno durante la Messa domenicale, all’interno di una prospettiva di attuazione delle indicazioni pastorali fornite dal Decretum de reformatione del Concilio di Trento, e – più di recente – dall’Enciclica Qui pluribus del 9 settembre 1846: con l’invito a svolgere peraltro una predicazione di carattere catechistico.
Negli ultimi anni dell’Ottocento e agli inizi del Novecento, prevalse comunque una predicazione a carattere devozionale, collegata con la celebrazione di Quarantore, tridui, ottavari, novene, e dei mesi dedicati a San Giuseppe (marzo), alla Madonna (maggio) e al Sacro Cuore (giugno). Tale pratica si protrasse anche nei decenni successivi.
2) Missioni: le missioni popolari ripresero vigore dopo il Congresso di Vienna (1815) con vicende alterne, dovute alle soppressioni, dispersioni, secolarizzazioni in cui furono soggetti in modo ricorrente gli Istituti religiosi nel secolo XIX e all’inizio del secolo XX in varie Nazioni.
La riorganizzazione delle istituzioni ecclesiastiche, la ricostituzione della Compagnia di Gesù (1814), la crescita numerica del clero secolare e dei membri degli antichi Istituti religiosi preesistenti e la nascita di nuovi furono all’origine di questo rilancio in tutti i Paesi dell’Europa.
Le missioni furono basate su programmi d’intensa predicazione itinerante a un uditorio di campagna, da coinvolgere soprattutto con le emozioni dei sentimenti.
La predica doveva essere semplice e diretta. L’obiettivo delle missioni era quello di rinnovare la vita cristiana del popolo di Dio mediante l’esposizione e l’approfondimento delle principali verità della fede (con un’attenzione speciale rivolta al senso del peccato, all’importanza della grazia e ai «novissimi»), e la celebrazione di liturgie e di pratiche devozionali.
La predicazione e le celebrazioni erano finalizzate alla conversione del cuore, all’osservanza dei comandamenti e alla perseveranza nella frequenza ai Sacramenti (soprattutto quelli della Riconciliazione e dell’Eucaristia), e nell’esercizio della carità cristiana.
3) Catechismo: costituì un sussidio che raccoglieva e sintetizzava la «dottrina» sotto forma di domande e risposte. L’Ottocento continuò a essere l’epoca dei catechismi diocesani che solo con fatica verranno superati a fine secolo, in favore di formulari almeno interdiocesani o regionali. Il momento centrale dell’incontro catechistico era costituito dallo sforzo del catechista di far imparare a memoria le risposte del formulario, limitando la spiegazione all’essenziale.
1846. Muore Gregorio XVI. Pio IX nuovo Papa
Il 1° giugno del 1846 morì Gregorio XVI. Il 6 giugno venne eletto il successore. Si trattò di Giovanni Maria Mastai Ferretti (Beato; nato nel 1792). In precedenza era stato Arcivescovo di Spoleto, Vescovo di Imola, Cardinale nel 1840. Scelse il nome di Pio IX. Il suo Pontificato durò dal 1846 al 1878. Il nuovo Papa era noto per la pietà religiosa e per l’impegno socio-pastorale. Non era insensibile alle aspirazioni nazionali italiane, ma considerava il programma neoguelfo non realizzabile, e non accettava la soppressione dell’autorità temporale pontificia. All’opinione pubblica apparve comunque un riformatore, malgrado la condanna dei fondamenti del liberalismo nell’Enciclica Qui Pluribus (9 novembre 1846).
1848. Avvenimenti politici
Il 1848 fu un anno segnato da diverse insurrezioni (Milano, Sicilia, Parigi, Piemonte, Vienna, Budapest, Berlino, Venezia) e da nuovi programmi politici. A Londra, Karl Marx (1818-1883) e Friedrich Engels (1820-1895) pubblicarono il Manifesto del Partito Comunista (21 febbraio 1948).
Gli autori analizzarono la storia come lotta di classe, sempre esistita e combattuta tra oppressi e oppressori. Secondo il loro pensiero, la base su cui la borghesia aveva costruito la propria forza era lo sfruttamento del proletariato, tutelato dai Governi, definiti un comitato che amministrava gli affari comuni della classe borghese.
Dopo la rivoluzione, attraverso la quale il proletariato avrebbe assunto il controllo del potere politico, doveva svilupparsi – come necessaria conseguenza – una fase di transizione: la «dittatura del proletariato».
In tale periodo, le associazioni operaie avrebbero potuto utilizzare i mezzi di produzione borghese, messi a disposizione dallo Stato, per trasformare radicalmente la società. A questo punto, si sarebbe passati da uno Stato borghese a uno proletario.
In tale contesto, Marx ed Engels considerarono la religione una «sovrastruttura», determinata dal tipo storico di società. Per questi autori, un’umanità sofferente per le ingiustizie sociali non poteva che cercare nell’aldilà ciò che le veniva negato su questa terra.
La religione diventava per Marx ed Engels, l’«oppio dei popoli», il «sospiro della creatura oppressa».
A Roma Pio IX, come altri Sovrani Italiani che avevano accettato di firmare Carte costituzionali, aveva concesso uno Statuto fondamentale pel governo temporale degli Stati di Santa Chiesa (14 marzo 1848). In seguito, decise di inviare soldati a sostegno del Regno di Sardegna, entrato in guerra contro l’Austria.
Poche settimane dopo, la direttiva venne modificata. Le truppe dovevano limitarsi a difendere i confini dello Stato Pontificio. Da questo momento in poi, Pio IX venne considerato «un traditore» dai liberali del tempo. Per cercare un equilibrio politico interno, il Papa affidò il Governo a Pellegrino Rossi (1787-1848). Ma quest’ultimo fu assassinato (15 novembre).
Aumentavano i rischi per il Pontefice. Da qui, la decisione di riparare a Gaeta. Nell’Urbe venne proclamata la (seconda) Repubblica Romana.
Anche nell’Umbria Pontificia esplosero moti rivoluzionari. Da Perugia ebbe inizio una sollevazione popolare contro lo Stato della Chiesa.
1849. Vicende politiche
Il 9 febbraio del 1849, l’Assemblea Costituente della Repubblica Romana approvò l’ordine del giorno elaborato da Giuseppe Barilli (1812-1894). Con quest’atto si dichiarava il Papato decaduto di fatto e di diritto dal Governo temporale dello Stato Romano. I circoli anti pontifici dell’Umbria aderirono alla Repubblica Romana. Emersero le figure di Francesco Guardabassi (1793-1871, nato e morto a Perugia), Ariodante Fabretti (nato a Perugia nel 1816 e morto a Torino nel 1894), Cesare Agostini (nato a Foligno nel 1803 e morto a Londra nel 1854). Visto l’appoggio dato da diversi Umbri alla causa della Repubblica, nel 1849 l’Umbria venne occupata dagli Austriaci.
In tale contesto, Pio IX si appellò alle potenze cattoliche. Il 28 luglio del 1849, le truppe francesi, dopo sanguinosi scontri, riuscirono a entrare a Roma. Terminato il breve periodo della Repubblica Romana, fu ristabilita l’autorità pontificia. Anche in Umbria, con l’intervento di truppe austriache, l’amministrazione del tempo tornò a essere diretta dallo Stato della Chiesa. Monsignor Girolamo D’Andrea (1812-1868) ripristinò in qualità di commissario pontificio straordinario la sovranità del Papa, fungendo da pro-delegato apostolico il marchese Giovanni Parenzi. Dopo la Restaurazione, una guarnigione spagnola occupò Spoleto, riuscendo così il Gonfaloniere Gaetano Sandri Poli ad allontanare il presidio austriaco che stanziava a Foligno.
1849. Bonilli studia a Trevi
Nel 1849 il Bonilli (aveva 9 anni) lasciò la casa paterna per andare a studiare a Trevi. Le scuole, in quel tempo, erano allocate nel Collegio che Monsignor Virgilio Lucarini (morto nel 1671) aveva fondato (1644) nel proprio palazzo. L’alunno dimostrò un serio impegno nello studio. Lo attesta un fatto. Nell’archivio del Comune di Trevi, con riferimento all’anno scolastico 1858-1859, si trova questa annotazione: «Bonilli, prefetto del collegio, ha meritato il primo premio di diligenza e profitto nella filosofia razionale, morale e matematiche».
Don Ludovico Pieri
Risale probabilmente a questo periodo il primo incontro a Trevi tra il piccolo Pietro e Don Ludovico Pieri (1829-1891). Quest’ultimo, proveniva da una povera famiglia trevana. Prestando la sua opera manuale per ogni servizio, poté giungere al sacerdozio nel maggio del 1853. Lasciando Spoleto, non ricevette incarichi pastorali. Viveva con una tenue rendita che gli proveniva dalla cappellania in Sant’Emiliano. Il 7 novembre del 1853 furono aperte a Trevi le scuole serali (funzionarono fino all’agosto del 1861). Il Pieri seguì la loro attività con notevole impegno. Affrontò problemi interni. Sopportò la critica di chi era avverso all’istruzione impartita a giovani poveri, costretti a lavorare nelle ore diurne.
Nella piccola cappella dell’ex monastero di San Bartolomeo (adiacente ai locali delle scuole serali) cominciò a radunare (1854) un gruppo di giovani. Da qui, si arrivò alla promozione di una Compagnia dedicata a San Giuseppe. L’Arcivescovo Arnaldi approvò l’iniziativa (rescritto del 6 marzo 1855), e dispose in seguito l’erezione canonica del nuovo organismo religioso (decreto del 6 aprile 1857).
Aumentando il numero degli aderenti, si rese urgente (1859) spostare la sede della Compagnia nella chiesa di San Francesco. Qui, il Pieri rimase particolarmente colpito da un affresco del ’500 (scoperto nel 1834), posto nella nicchia di fondo. Ritrae uniti i personaggi della Sacra Famiglia di Nazareth. In questo luogo sacro esercitò, di preferenza, il ministero di confessore e di direttore spirituale di laici e sacerdoti; pregò a lungo; collocò il centro propulsivo delle opere da lui fondate.
Don Ludovico ebbe pure il compito di cappellano dell’ospedale di zona. Fu una figura carismatica. Un buon pedagogo. Il Bonilli lo seguì con entusiasmo. Lo definì: «la Radice». Sarà il Pieri ad accompagnarlo verso decisive scelte di vita, a trasmettergli la devozione alla Sacra Famiglia di Nazareth. La loro interazione proseguirà fino alla morte di Don Ludovico, avvenuta all’età di 52 anni, nella casa di Via Setaioli. Carlino Santacroce, un giovane studente d’arte, ne trasse la maschera sul letto di morte, e da questa venne scolpito il busto che si trova nel museo bonilliano. L’orazione funebre, nella chiesa di San Francesco, fu tenuta dal Bonilli.
Una caratteristica della vita spirituale di Don Pieri fu quella di poter contemplare in modo improvviso realtà soprannaturali («visioni») legate alla stessa Sacra Famiglia, di percepire delle locuzioni divine interiori («rivelazioni»), di predire avvenimenti futuri.
Il 1° agosto del 1863 fu eretto in San Francesco un altare dedicato alla Sacra Famiglia. L’iniziativa ebbe origine da un’ispirazione che il Pieri aveva avuto nello stesso anno (15 maggio). Tra il 1870 e il 1871 questo sacerdote, su direttiva del direttore spirituale (Monsignor Eugenio Luzzi) annotò alcune esperienze mistiche.
Sulla sua persona i giudizi furono diversi. L’Arcivescovo Arnaldi lo stimò e lo sostenne. Volle pure essere iscritto alla Compagnia di San Giuseppe. E non furono pochi i fedeli che lo considerarono un Santo. Per altre persone (incluso l’Arcivescovo Pagliari), rimase un semplicione, un esaltato.
Dopo la sua morte i suoi scritti furono ritirati di autorità, e si cercò di farlo dimenticare (malgrado la difesa dei suoi figli spirituali).
A distanza di tempo rimane, però, un fatto: grazie a Don Ludovico Pieri diverse vocazioni trovarono accoglienza, sostegno e guida. Alcuni di questi consacrati furono poi proclamati Beati dalla Chiesa, incluso il Benedettino Placido Riccardi e lo stesso Don Pietro Bonilli.
Le visioni del Pieri e il misticismo del XIX secolo
Il precedente riferimento alla figura di Don Ludovico Pieri, alle sue «visioni», alle «locuzioni divine» che riceveva, al suo guardare «oltre» gli orizzonti dell’oggi, spinge lo storico ad avvicinarsi a tale realtà tenendo conto di tutta una serie di fatti straordinari che segnarono il XIX secolo. Al riguardo, occorre partire da un dato: il Pieri, per il contenuto delle sue comunicazioni, venne profondamente contestato in più ambienti. Gli stessi suoi figli spirituali (incluso il Bonilli) subirono una serie di pesanti penalizzazioni proprio a motivo della loro vicinanza all’umile e semplice prete di Trevi. In realtà, a ben vedere, i «messaggi» del Pieri devono essere tenuti in considerazione rivolgendo attenzione a due elementi-chiave. Da una parte, esisteva senza dubbio un elemento soggettivo. Questo, era costituito:
– dalla formazione ricevuta dal Pieri e dagli insegnamenti che continuavano a provenire dalla Chiesa gerarchica: escatologia e apocalittica, promesse di Cristo all’Apostolo Pietro (Vangelo secondo Matteo 16,13-20), meditazione sulle pagine evangeliche riguardanti la nascita di Gesù e la Sua infanzia, culto al Sacro Cuore, culto mariano (Immacolata, in particolare), devozione alle Anime Sante del Purgatorio…;
– dalla struttura della sua personalità: immediatezza nell’interazione con i suoi interlocutori; entusiasmo, che lo conduceva ad accentuare il valore del messaggio con ulteriori sottolineature; esigenza di concretizzare in tempi ravvicinati quanto aveva «udito» o «percepito» nel suo animo;
– dal linguaggio con il quale comunicava i fatti prodigiosi che gli accadevano all’improvviso: semplicità terminologica; tendenza all’uso di un’impostazione di tipo apocalittico.
Dall’altra, permaneva un elemento oggettivo. Quanto il Pieri comunicava, colpiva gli astanti perché le informazioni su fatti straordinari non erano trasmesse con la volontà di impressionare l’interlocutore, di attirare attenzioni su di sé, di acquisire benefici, attenzioni, riconoscimenti.
Tenendo conto di questi due elementi, assume rilevanza il contesto ecclesiale del XIX secolo con riferimento a veggenti e a messaggi che congiungono Cielo e Terra. Si pensi, a esempio:
– a quanto riferito da Anna Maria Taigi (Beata; 1769-1837), da Anna Katharina Emmerick (Beata; 1774-1824), da Catherine Labouré (Santa; 1806-1876), da Maria del Divin Cuore, al secolo Maria Droste zu Vischering (Beata; 1863-1899), da Teresa Neumann (Serva di Dio; 1898-1962);
– alle testimonianze dei bambini di La Salette (1846), di Bernadette Soubirous (1858), dei pastorelli di Fatima (1917);
– ai fatti mariani di Beauraing (1932-1933), e di Banneaux (1933);
– ai messaggi di Catherine Labouré (Santa; 1806-1876), di Gemma Galgani (Santa, 1878-1903) e di Giovanni Bosco.
Tutto ciò induce a riflettere con prudenza, cercando di non rimanere condizionati dalle «espressioni dell’umano», dai «modi» – cioè – con i quali una persona tenta di far conoscere ai suoi contemporanei dei fatti di cui ella stessa non comprende l’intera realtà mistica.
1) Il Pieri certamente comunicò il proprio vissuto interiore trasmettendo emozioni, tensioni, interrogativi, stati d’animo diversi, tentativi di descrivere dei fatti, convinzioni personali, speranze. Lo si deduce sia dalle lettere che trasmise al proprio direttore spirituale (Monsignor Leuzzi), sia dalle missive che il Bonilli inviò al Bonaccia.
2) Ciò premesso, è difficile – però – pensare a delle «commedie», a delle messinscene legate all’estro del momento o a fini reconditi. Per più motivi: perché il Pieri raccomandò ai suoi figli spirituali di non far trapelare quanto lui raccontava (e qualcuno non lo ascoltò); perché accolse giudizi negativi senza manifestare reazioni incontrollate verso i suoi critici; perché nel suo agire il fine ultimo fu il bene della Chiesa. Lo attestano una vita segnata da ristrettezze economiche e un decesso avvenuto nel più totale nascondimento.
1852 (settembre). Muore Monsignor Sabbioni
Il 26 settembre del 1852 morì l’Arcivescovo di Spoleto Monsignor Sabbioni. Nel corso dei suoi 15 anni di cura pastorale si era distinto per l’impegno religioso, per una spiritualità segnata anche da una spiccata devozione mariana, per un’amministrazione equilibrata, per un’attenzione concreta verso i poveri. Aveva migliorato i fondi della «mensa arcivescovile», attuato bonifiche agricole non marginali, fatto applicare nuove colture, promosso la costruzione di caseggiati rurali per i coloni.
1853. Arnaldi nuovo Arcivescovo di Spoleto
Nel 1853, per volontà di Pio IX, divenne nuovo Arcivescovo di Spoleto Monsignor Giovanni Battista Arnaldi (1806-1867). Era originario della Liguria. Proveniva dalla Diocesi di Terni, ove era stato Amministratore Apostolico (1852). Nella nuova sede pastorale, l’Arnaldi dedicò una particolare cura al Seminario (restaurandolo e costruendo nuove aule e stanze), alle predicazioni al popolo (con particolare rilievo nel mese di maggio, in onore della Vergine Maria), alle attività di catechismo. Promosse le missioni popolari e gli esercizi spirituali (specie in Quaresima). Nel 1854 tentò di fondare una Pia Società per l’evangelizzazione dei popoli. Intendeva chiamarla: «Missionari Diocesani e Pii Operai della Vergine Immacolata».
L’Arcivescovo sostenne pure la diffusione della «buona stampa»: il «Giardinetto di Maria» (Giovanni Acquaderni; 1839-1922), le «Piccole Letture» (San Giovanni Bosco; 1815-1888), «Annales de Lourdes», il settimanale «Rosier de Marie», «Le Messager du Sacré-Coeur» (mensile di Vals; Alta Loira), «Les Annales de Saint Joseph» (quindicinale di Arras), «Le Propagateur» (mensile di Parigi per la devozione a San Giuseppe). Nel 1863, il Presule propose a Pio IX di istituire la festa liturgica della Sacra Famiglia.
1854. Dogma Immacolata Concezione
L’8 dicembre del 1854, Pio IX proclamò in San Pietro il dogma dell’Immacolata Concezione della Vergine Maria:
«Dichiariamo, affermiamo e definiamo la dottrina che sostiene che la beatissima Vergine Maria nel primo istante della sua concezione, per una grazia e un privilegio singolare di Dio onnipotente, in previsione dei meriti di Gesù Cristo Salvatore del genere umano, è stata preservata intatta da ogni macchia del peccato originale, e ciò deve pertanto essere oggetto di fede certo e immutabile per tutti i fedeli».
A seguito della proclamazione del dogma, diverse Congregazioni religiose vollero sottolineare fin dal loro nome una particolare devozione a Maria onorata con il titolo di «Immacolata». Inoltre, gli stessi nomi propri «Immacolata» e «Concetta» intesero sottolineare la profonda devozione a Maria Immacolata.
1855 (luglio-agosto). Epidemia di colera in Umbria
Nel 1855 l’Umbria venne colpita da un’epidemia di colera (13 luglio-19 agosto). Circa la metà della popolazione delle provincie di Perugia, Spoleto e Orvieto (quasi 400.000 abitanti) fu coinvolta dal morbo. Essendo una malattia prevalentemente urbana, e che per sua natura trae origine dalla sporcizia, dalle acque inquinate, ma in generale dalle carenze sanitarie, il colera mise in luce da una parte le debolezze dell’organizzazione sanitaria, dall’altra la povertà, la disuguaglianza di fronte alla morte, la drammatica arretratezza in fatto di igiene privata e pubblica, portando alla ribalta il problema della città come veicolo, come territorio privilegiato del contagio e del disordine. Furono soprattutto i ceti economicamente più poveri a venire colpiti. Ciò dimostrò come le condizioni economico-sociali contribuiscano in modo accentuato a determinare il quadro della morbilità di una data società. Allo stesso tempo emerse un altro dato: il quadro della morbilità di una data società influenza direttamente e indirettamente l’economia della società stessa. Da aggiungere, inoltre, che il colera condizionò almeno in parte l’andamento demografico e le decisioni politiche, ponendo il problema del controllo, nella gran parte dei casi autoritario, delle masse confluite nei grandi centri urbani.
1857 (maggio). Pio IX a Spoleto
Nel 1857 l’Arcidiocesi di Spoleto ricevette la visita di Pio IX (5-7 maggio) proveniente da Terni. L’avvenimento coinvolse profondamente la Chiesa spoletina. Fu preparato un programma denso di manifestazioni e d’incontri. Il Pontefice proseguì poi per Foligno e Assisi (7-8 maggio). Il 10 era a Perugia (ove celebrò nella chiesa metropolitana). L’intero viaggio-visita politico-pastorale del Papa nei suoi territori durò dal 4 maggio al 5 settembre 1857.
1857 (gennaio). Vocazione sacerdotale del Bonilli
Seguendo il Bonilli, Don Ludovico Pieri vi individuò un mondo interiore profondamente ricco. Vi emergeva, a piccoli passi, una vocazione allo stato sacerdotale. Così, quando l’adolescente arrivò all’età di 16 anni, con il permesso dell’Arcivescovo di Spoleto, lo rivesti dell’abito talare (28 gennaio 1857), e gli propose di proseguire gli studi nel Collegio Lucarini perché Pietro non disponeva del denaro necessario per entrare in Seminario.
1858 (febbraio). Il Bonilli nel Collegio Lucarini
In quel periodo, il Collegio Lucarini faceva parte delle Istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza del Comune di Trevi. L’intera rete era formata da: Ospedale degli Infermi, Ospizio degli Invalidi «Carlo Amici», Orfanotrofio «San Bartolomeo», Opera Pia Eredità Palura, Monte di Pietà, Opera Pia Prelegato Costa, Opera Pia Maritaggio Valenti, Opera Pia Maritaggio Fedeli, Opera Pia Maritaggio Monticelli, Opera Pia Collegio Lucarini, Monti Frumentari. Il 7 febbraio del 1858, il Bonilli fu inserito tra gli studenti del Collegio Lucarini. Gli vennero affidati i convittori (ruolo di prefetto).
1858 (febbraio). Lourdes
L’11 febbraio del 1858 la Vergine Maria apparve per la prima volta a una 14enne di Lourdes, Marie-Bernarde Soubirous (Santa; 1844-1879). «Bernadette» vide la Madonna 18 volte. In particolare, giovedì 25 marzo 1858 (festa dell’Annunciazione), «la Signora vestita di bianco» si mostrò alla veggente e disse in occitano bigordino (la lingua che parlava la ragazza), alzando gli occhi al cielo e giungendo le mani: «Que soy era Immaculada Concepciou». Bernadette ripeté questa frase, che non comprendeva, e si affrettò a informare il parroco. Quest’ultimo, ne rimase turbato: quattro anni prima Pio IX aveva proclamato il dogma dell’Immacolata Concezione di Maria. Nel 1862 le apparizioni furono riconosciute ufficialmente dal Vescovo di Tarbes. Ancor prima della fine dell’anno iniziarono i lavori di costruzione di una cappella, incorporata alcuni anni più tardi nella basilica dell’Immacolata Concezione, edificata (1866-1871) sopra la grotta delle apparizioni.
1859. Scontri a Perugia
Nel 1859 riesplose a Perugia un moto rivoluzionario. Il 14 giugno, un comitato locale, chiese al rappresentante locale del Governo Pontificio (Monsignor Luigi Giordani; 1822-1893) di abbandonare la linea di neutralità adottata in occasione delle guerre d’indipendenza italiane. Monsignor Giordani rifiutò. Venne espulso dalla città (si rifugiò a Foligno). Il potere fu preso da un Governo provvisorio che offrì la dittatura a Vittorio Emanuele II. Il Governo Pontificio ordinò di riprendere Perugia. Le truppe del Papa, al comando del colonnello Anton Schmid d’Altorf (1792-1880), si scontrarono il 20 giugno del 1859 con gli insorti, e riuscirono ad avere il controllo della città. La vicenda costò vite umane e acuì le tensioni interne.
1860. Aspetti politici. Il ruolo del Pepoli
Il 12 settembre del 1860, il Governo Piemontese nominò un commissario generale straordinario nelle province dell’Umbria. Per ricoprire questo incarico fu scelto il marchese Gioacchino Napoleone Pepoli (1825-1881). Con tale provvedimento, si pose termine alle varie «giunte provvisorie» istituite nei giorni precedenti in varie ex delegazioni pontificie. Il commissario straordinario, pur dipendendo dal Ministro dell’Interno, possedeva ampi poteri legislativi e di governo. La forte decisionalità con la quale egli amministrò le province a lui sottoposte (incominciando dall’istruzione elementare e dagli asili d’infanzia) si rivelò soprattutto con il decreto di soppressione delle corporazioni religiose e di altri istituti ecclesiastici ritenuti inutili (numero 168 dell’11 dicembre 1860). Nel medesimo mese di settembre, a seguito dell’entrata delle truppe piemontesi a Perugia (il giorno 14), a Spoleto (il 17; assedio di 24 ore) e nelle altre zone umbre, l’intera regione venne incorporata nel nascente Regno d’Italia. Tale riunificazione fu poi sancita da un plebiscito (4 novembre 1860).
Esaminando la situazione politica del tempo, si riscontra – comunque – tra gli abitanti di Spoleto una linea non avversa a Pio IX (che era stato in precedenza un loro Arcivescovo). I gruppi politici presenti in città non costituivano delle forti entità. Era limitato il numero dei mazziniani, guidato dal conte Luigi Pianciani (1810-1890). Rimaneva ristretto anche il nucleo degli unionisti (fautori dell’unificazione italiana). Tra questi si può ricordare Pompeo di Campello (1803-1884). Pure i giovani organizzati dalle truppe di occupazione costituivano un piccolo gruppo. In tale contesto, la lotta politica in Umbria dopo l’Unità appare sfocata, incerta e, nelle forme esteriori, spesso contraddittoria. Negli anni che seguirono immediatamente l’annessione, la vita politica regionale non presentò elementi di notevole interesse, né fu turbata da profondi contrasti politici. Le stesse consultazioni politiche e amministrative si svolsero, tra il 1860 e il 1870, in una atmosfera priva di tensioni.
1860. Aspetti assistenziali
In ogni Comune della provincia dell’Umbria fu istituita una «congregazione di carità». Ciò avvenne in base al decreto numero 100 del 29 ottobre 1860, emanato dal regio commissario Pepoli. Lo scopo fu quello di amministrare le opere pie esistenti nel territorio, fino a quel momento dirette da autorità o funzionari ecclesiastici. Erano considerate opere pie «gli istituti di carità e beneficenza e qualsiasi ente morale avente in tutto o in parte per fine di soccorrere alle classi bisognose tanto in istato di sanità che di malattia, di prestare ad esse assistenza, educarle, istruirle od avviarle a qualche professione arte o mestiere» (articolo 2).
In base a tale decreto le congregazioni dovevano essere composte da quattro o sei membri, in relazione al numero degli abitanti (4 se inferiore a 10.000, 6 se superiore), più alcuni membri di diritto; erano presiedute dal rappresentante dell’autorità governativa o, in sua mancanza, di quella municipale (articolo 7). La nomina dei membri spettava esclusivamente al regio commissario generale, che decideva su una rosa di candidati proposti dalle commissioni municipali (articolo 8). Quest’ultime furono incaricate di prendere possesso, non più tardi di 15 giorni dalla data del decreto, anche attraverso dei mandatari, di tutti i beni appartenenti alle opere pie e di assumere l’ordinaria amministrazione in nome dell’istituenda congregazione, alla quale – in seguito – dovevano essere assegnate le relative amministrazioni.
1860. Garibaldi. Castelfidardo. La posizione dei Vescovi dell’Umbria
Il 5 maggio del 1860 ebbe inizio la «spedizione dei Mille», al comando di Giuseppe Garibaldi (1807-1882). Con tale impresa vennero sconfitte le truppe borboniche e conquistato il Meridione. Il 16 settembre, nella battaglia di Castelfidardo (nelle Marche), l’esercito piemontese sconfisse quello pontificio. I vinti ripiegarono su Ancona, che venne assediata anche dal mare e conquistata. Conseguenza della vittoria fu l’annessione delle Marche e dell’Umbria al Regno di Sardegna. La situazione, in Italia, stava cambiando radicalmente. Tale realtà dovette essere affrontata anche dall’episcopato umbro. Si trattava di individuare la linea da seguire. Da una parte, era necessario sostenere la posizione di Pio IX (il Papa era sempre più isolato), dall’altra era urgente cercare delle soluzioni a problemi locali legati alla vita delle Chiese locali. L’episcopato si mantenne su una linea difensiva cercando di salvare il salvabile. Tale comportamento si intensificò negli anni successivi quando venne decretata in tutta l’Umbria la sospensione delle attività religiose esterne, e delle processioni in particolare, considerate pericolose per il mantenimento dell’ordine pubblico nella provincia. I Presuli dovettero pure affrontare le conseguenze derivanti dai provvedimenti pubblici in materia di incameramento dei beni ecclesiastici, soppressione dei conventi, asse, matrimonio civile, regio «exequatur» e «placet». Essi rivendicarono, inoltre, il diritto di trasmettere ai fedeli la parola di Pio IX.
1860. La linea dell’Arcivescovo di Spoleto Arnaldi
Al momento dell’annessione dell’Umbria al Regno Sardo e delle soppressioni legate a nuove normative non favorevoli alla Chiesa, l’Arcivescovo di Spoleto era Monsignor Arnaldi. Questo presule, un Ligure inserito in Umbria, dovette assumere delle decisioni non facili. Sul piano umano dimostrò di possedere un’accentuata energia. A livello ecclesiale espresse una fedeltà senza incertezze a Pio IX. Tale linea gli fece preferire una posizione di intransigenza nei confronti del regime liberale. La stampa cattolica lo sostenne, il clero lo seguì, i fedeli lo stimarono. In tale contesto, per svolgere la propria missione, l’Arnaldi prese posizione su diverse questioni. Già il 22 novembre del 1856, Monsignor Arnaldi aveva divulgato una notificazione dal titolo La guerra contro la Chiesa. Nel testo volle rimarcare l’indifferentismo e la tiepidezza di tanti Cattolici e la guerra, appunto, che si muoveva alla Chiesa e alla religione. Nel 1860 furono diverse le sue iniziative.
27 settembre 1860: protestò per il trattamento riservato ai Gesuiti, e per la propria esclusione dall’amministrazione e dalla tutela del collegio di Spoleto.
16 ottobre 1860: proibì ai parroci di consegnare alle autorità governative i registri parrocchiali e qualsiasi elenco di famiglie o persone estratto dai medesimi. Si verificò allora che non pochi parroci «smarrirono» i registri, determinando non poche difficoltà per l’organizzazione dei servizi di leva. A tale linea si associarono i Vescovi di Terni, Foligno, Rieti, Norcia, Amelia e Narni.
18 ottobre 1860: denunziò la violenta asportazione degli atti civili del tribunale ecclesiastico dalla cancelleria arcivescovile.
10 novembre 1860: scrisse al Commissario Pepoli. Ricapitolando i decreti firmati da quest’ultimo, espresse la sua profonda amarezza per i provvedimenti lesivi dei diritti della Chiesa. Lamentò l’abolizione delle immunità ecclesiastiche, l’esclusione dell’Arcivescovo dall’ispezione alle scuole e dal controllo degli Istituti Pii.
14 novembre 1860: redasse una protesta al Comune per la propria esclusione dalla gestione di due ospedali e di un orfanotrofio.
19 dicembre 1860: in seguito al decreto che sopprimeva le corporazioni religiose e altri enti dipendenti dall’autorità ecclesiastica, preparò una protesta indirizzata al Pepoli. L’Arnaldi si appellò agli stessi principi dei liberali: al diritto di proprietà calpestato, al rispetto della libertà personale. Nel testo si denunciava la violazione di alcuni monasteri della sua Arcidiocesi.
Dal febbraio 1861 in poi: si fece promotore, attraverso la stampa cattolica, di una colletta per alleviare la miseria delle religiose dell’Umbria e delle Marche.
Inoltre indirizzò una forte requisitoria a Camillo Benso Conte di Cavour (1810-1861). Nel testo, legittimava i suoi ripetuti interventi, appellandosi al fatto di essere cittadino piemontese. La lettera non ebbe risposta ufficiale.
Tentò le vie legali per far dichiarare nullo il decreto Pepoli (sostenuto dai Vescovi di Terni, Rieti, Foligno, Norcia, Poggio Mirteto e Narni). Scrisse poi (inutilmente) al Re Vittorio Emanuele II di Savoia (1820-1878).
Avversò le posizioni di Don Carlo Passaglia (1812-1887; Gesuita, lasciò poi l’Ordine). Questo presbitero fu uno dei più noti esponenti del clero che si schierò a favore dell’Unità d’Italia.
Proibì al clero e al popolo di partecipare alle feste nazionali e di celebrare Messe per i soldati piemontesi morti a Spoleto.
1860 (novembre). Don Bonilli in Seminario
Nel 1860 Monsignor Arnaldi dette il consenso per far accogliere il Bonilli in Seminario (12 novembre). Al posto della retta (che non era in grado di pagare), il giovane Pietro svolse le funzioni di «prefetto degli ordinandi». Quando fu ammesso al suddiaconato, solo il nonno lo aiutò a costituire il patrimonio necessario all’ordinazione, non i genitori e neppure lo zio. Non si conosce il motivo.
1860. Apparizione mariana vicino a Spoleto
In un periodo ancora discusso dagli storici (1860?), un bambino, Federico Cionchi (detto Righetto; 1857-1923), nato nel villaggio di San Luca, Comune di Montefalco (Perugia), stava girando con la sorella tra i ruderi di una chiesetta dedicata a San Bartolomeo (in frazione Fratta). Tale edificio diroccato, aveva un’abside ove era dipinta un’immagine di Madonna con Bimbo in grembo. Il piccolo, tornato a casa, riferì alla madre di aver visto una bella signora di rosso vestita. Questa, gli aveva parlato. Lo aveva preso per mano. La gente del circondario intuì che Righetto aveva visto la Madonna. Ebbe inizio, allora, un movimento devozionale verso la Madre di Dio (emersero segnalazioni di miracoli), onorata con il titolo di «Ausilio dei Cristiani» (dall’Arcivescovo), o con quello di «Madonna della Stella» (dal popolo). L’Ordinario di Spoleto, Monsignor Arnaldi, fornì alla Santa Sede diverse relazioni in merito. La nuova chiesa, sorta sulle rovine della cappella succitata, fu costruita tra il 1862 e il 1881. I primi documenti rinvenuti in archivio risalgono al 1862.
All’inizio, la cura pastorale nel Santuario fu affidata agli stessi parroci dei dintorni e a qualche cappellano che abitava negli ambienti posizionati dietro l’edificio sacro. Il Bonilli, che guidò più di un pellegrinaggio alla «Madonna della Stella», fece parte della commissione per il santuario, presieduta dal canonico teologo Giacomo Bucchi, e divenne l’incaricato per la raccolta delle elemosine, per l’organizzazione del culto, e per la vigilanza sulla fabbrica. Si pensò anche di utilizzare i locali del santuario per i periodici esercizi spirituali del clero dell’Arcidiocesi.
In seguito, la custodia di questo luogo di culto, per tramite della principessa di Piombino, donna Agnese Patrizi, fu affidata ai Padri Passionisti, e approvata dalla Sacra Congregazione dei Vescovi e Regolari il 29 luglio 1884. Il terreno posseduto non era comunque sufficiente per lo sviluppo del Santuario e per le necessità della comunità religiosa. Furono così acquistati altri lotti dove venne costruita la sede riservata alla comunità dei Passionisti e il ritiro.
Il Cionchi decise poi di entrare nell’Ordine dei Somaschi ove operò come fratello laico fino alla conclusione della sua vita terrena. Morì in concetto di santità a Treviso.
1861 (marzo). Regno d’Italia
A seguito dei plebisciti del 1859 e 1860, la nascita del Regno d’Italia fu dichiarata in modo ufficiale il 17 marzo 1861. Vittorio Emanuele II, già Re di Sardegna, assunse per sé e per i suoi discendenti il titolo di «Re d’Italia». Il nuovo Stato, dal punto di vista istituzionale e giuridico, acquisì la struttura e le norme del Regno di Sardegna. Fu, infatti, «de jure» una Monarchia Costituzionale (riferimento allo Statuto Albertino, 1848).
Il Monarca nominava il Governo (che era responsabile di fronte al Sovrano e non al Parlamento), manteneva inoltre prerogative in politica estera e, per consuetudine, sceglieva i Ministri Militari (Guerra e Marina). Il diritto di voto era attribuito (legge elettorale piemontese del 1848) in base al censo. In questo modo, gli aventi diritto al voto costituivano appena il 2% della popolazione.
Il Regno d’Italia si configurava come una delle maggiori Nazioni d’Europa, almeno a livello di popolazione e di superficie, ma rimaneva debole sul piano economico e politico. Accanto ad aree industrializzate, permanevano situazioni statiche e arcaiche riguardanti soprattutto il mondo agricolo e rurale italiano (molto esteso).
L’estraneità delle masse popolari al Regno Unitario si palesò in una serie di sommosse, fino a una diffusa guerriglia contro il Governo Unitario. Quest’ultimo avvenimento in particolare, fu uno dei primi e più tragici aspetti della cosiddetta «questione meridionale».
1862. Francia. L’iniziativa del Gesuita Padre Francoz
Mentre in Italia veniva proclamato il nuovo Regno, si sviluppò in Francia un movimento cattolico legato al culto della Sacra Famiglia. Ne fu fondatore un Gesuita, il Padre François Philippe Francoz (1817-1898). Questo religioso era nato a Saint-Michel-de-Maurienne (nella regione della Savoia). Entrò nella Compagnia di Gesù il 24 marzo del 1841. Affrontò gli studi filosofici e teologici. In seguito ricevette dai superiori vari incarichi. Tra questi, quello di insegnare grammatica, di ricoprire il ruolo di prefetto, e di assolvere i compiti di procuratore.
Nel 1862 volle diffondere il culto alla Sacra Famiglia. Per tale motivo fondò l’«Association des Familles consacrées à la Sainte Famille par la prière du soir en commun devant son image». Si trattò di un’Opera che egli definiva «de simple bon sens et de foi».
Tale organismo, sorto a Clermont-Ferrand, ricevette la benedizione di Pio IX. L’Associazione riuscì a diffondersi in più diocesi, anche non francesi. Il Padre Francoz concluse la sua vita terrena a Lione.
Giugno 1863. Arresto dell’Arcivescovo
Con la «Lettera Pastorale» scritta per la Quaresima del 1863, l’Arcivescovo Arnaldi, non intese ritornare sui temi consueti della difesa della società cristiana, della Chiesa e del Papa. Preferì attaccare le nuove autorità. Parlò di congiura contro la religione. Minacciò la scomunica contro coloro che favorivano «l’usurpazione dello Stato Pontificio». I toni aspri dello scritto procurarono ad Arnaldi il secondo ordine di comparizione davanti al giudice istruttore del Tribunale del circondario di Spoleto. Un primo ordine gli era stato inviato nell’ottobre del 1862, in seguito a una lettera che aveva inviato al sindaco di Spoleto con la quale si rifiutava e proibiva a qualsiasi sacerdote di celebrare le cerimonie religiose predisposte nell’ambito dei festeggiamenti del secondo anniversario della presa di Spoleto. Il secondo ordine di comparizione si concluse con l’arresto, eseguito l’11 giugno del 1863. Monsignor Arnaldi venne recluso per più di 10 mesi nella Rocca della città (fino al 22 aprile 1864).