Peppa ’a Cannunera
Un’eroina catanese del Risorgimento
Una valorosa donna siciliana, nota ai pochi, fu Giuseppa Bolognara Calcagno, che entrò nella storia risorgimentale italiana con l’appellativo di «Peppa ’a Cannunera» («Giuseppa la Cannoniera»), per il suo comportamento nell’uso di armi pesanti nell’insurrezione dei Catanesi contro i Borbonici Napoletani nel 1860.
Era nata il 19 marzo 1826 (qualcuno dice 1841 e qualcun altro 1846) a Barcellona Pozzo di Gotto nel Messinese, a una decina di chilometri a Sud di Milazzo. I genitori, che la abbandonarono, rimasero sconosciuti e, perciò, le fu dato il nome della balia cui era stata affidata. Trascorse una triste infanzia, vivendo nell’anonimato di un orfanotrofio di Catania. Fu colpita da diverse malattie di cui la peggiore fu il vaiolo, stando ai racconti di chi dichiarò di averne visti i segni sul suo volto. Si racconta ancora che, quando era ragazzina, facesse la servetta presso un oste.
Comunque, divenuta più grande, fece coppia con un ragazzo più giovane di lei di qualche anno, e pertanto era malvista dalla gente per bene e definita «donnaccia», «donna di malaffare» o giù di lì. Il giovane era Vanni di nome e faceva il mestiere dello stalliere. Sempre stando ai «si dice», fu lui a introdurla nell’ambiente dei moti rivoluzionari, puntati all’unità d’Italia, che misero a ferro e fuoco la Penisola nel 1860. Quello fu l’anno della spedizione dei Mille, cioè del migliaio di volontari che, al comando di Giuseppe Garibaldi, imbarcatosi nella notte fra il 5 e il 6 maggio dalla località Quarto nei pressi di Genova, che allora faceva parte del Regno di Sardegna, l’11 maggio sbarcò a Marsala in Sicilia in nome del Re Vittorio Emanuele II di Savoia. L’intento era quello di aiutare i rivoltosi siciliani a ribaltare il Governo del Regno delle Due Sicilie, e molti di loro si aggregarono, formando un esercito di notevole peso.
Nel tardo pomeriggio dell’ultimo giorno di maggio di quell’anno, mentre i Mille avanzavano vittoriosamente verso Palermo, a Catania un migliaio di patrioti, comandati dal colonnello Giuseppe Poletti, insorse contro circa 2.000 Borbonici il cui comandante era il Generale Clary, che era concentrato nella Piazza dell’Università; e per circa sette ore i combattimenti durarono senza che una delle parti fosse vincente.
Peppa partecipò coraggiosamente ai sanguinosi scontri, che si susseguivano lungo le vie di Catania, unendosi ai rivoltosi, e il suo coraggio e il suo disprezzo per il pericolo si dimostrarono fondamentali nelle azioni contro le truppe borboniche.
A questo punto, il suo operato si svolse seguendo due copioni diversi, stando a quanto riportato dalle cronache.
Secondo il primo, trovato un cannone abbandonato, Peppa non ci pensò sopra due volte per prenderlo, facendosi aiutare dagli insorti, e sistemarlo nell’atrio del Palazzo Tornabene. Cosparse la canna di polvere da sparo e gli diede fuoco. Quella fu una manovra molto intelligente e astuta, perché la cavalleria borbonica, convinta che il cannone avesse fatto cilecca, non ci pensò due volte ad avviare la carica; ma mal gliene incolse, perché Peppa sparò, questa volta sul serio, facendovi grosse falle e dandosi il tempo per mettersi in salvo con i suoi compagni, non dimenticandosi di portare con sé il cannone a Mascalucia, dove era la sede dei rivoluzionari.
L’altro racconto, vede Peppa che fece aprire il portone del palazzo, mentre lungo le vie si combatteva furiosamente, e sparare un colpo dietro l’altro in mezzo alla truppa napoletana, facendo un pauroso vuoto, e costringendola a correre ai ripari. Poi tutti scapparono sotto il fuoco nemico, ma, aiutandosi con una fune, trascinarono con sé un altro cannone trovato abbandonato.
Che lo scontro si sia svolto nell’una o nell’altra maniera, non cambia nulla, perché Peppa dimostrò grande coraggio, disprezzo del pericolo e la sua azione fu riconosciuta altamente positiva per i risultati della rivolta. Unico fatto negativo, per Peppa, fu il dispiacere per la perdita del suo compagno Vanni.
Alla fine, il 3 giugno, le truppe napoletane si ritirarono con le pive nel sacco e Peppa rimase con gli insorti, dando loro una mano come vivandiera. E, quando questi decisero di tentare di liberare Siracusa dal dominio del Re Borbonico Francesco II, Peppa li seguì, decisa a combattere al loro fianco, però questa volta indossando abiti maschili, che continuò a portare anche successivamente, sia perché erano meno ingombranti di quelli femminili, sia perché, come si può dire, divenne un «maschiaccio», tanto che trascorreva parecchio tempo nei presidi dei rivoluzionari a fumare e a bere in loro compagnia.
Quando, alla fine, l’unità nazionale giunse al termine, Peppa ebbe la soddisfazione di essere decorata con la medaglia d’argento al valor militare, mentre le fu riconosciuta una pensione statale. Un paio di anni dopo, però – che gratitudine! – il Comune di Catania trasformò il vitalizio in un compenso di 216 ducati.
Dopodiché, fu amaramente dimenticata e praticamente si sono perse le sue tracce: forse tornò al suo paese natale, ridotta in povertà e stenti, una volta scomparsa la rendita, ma si tratta semplicemente di un’ipotesi.
Di lei, a Catania, il ricordo sopravvive nel nome attribuito a una strada, cioè Via Peppa ’a Cannunera, mentre il suo cannone fa buona guardia nel Museo Civico di quella città.