Nuovi studi Risorgimentali
E se una frase pronunciata dal patriota
emiliano Antonio Panizzi riaprisse il «caso Italia»?
Gli storici accreditati che si sono occupati di storia risorgimentale spesso descrivono il Risorgimento ponendo l’accento sul fallimento cattolico liberale; sulla volontà inglese di assecondare Giuseppe Garibaldi nella sua celebre spedizione; sull’antagonismo tra Inghilterra vittoriana e la Francia di Napoleone III. Eppure i miei studi risorgimentali smentiscono ampiamente queste posizioni.
Una frase fra tutte porta a riflettere. Il patriota emiliano Antonio Panizzi nato a fine Settecento a Reggio Emilia, laureatosi a Modena in Legge negli anni Venti e, una volta coinvolto nei moti rivoluzionari di quegli anni, condannato in contumacia alla pena capitale; presente in Londra dopo un breve soggiorno in Svizzera a partire dal 1823 come rifugiato politico, smentisce categoricamente tanti, troppi luoghi comuni.
Vediamo l’ufficialità e l’ufficiosità dei ruoli attributi a tali patrioti, primo tra tutti in questo caso proprio Antonio Panizzi. Egli, una volta a Londra, continuerà in contumacia a gestire dall’esterno le vicende rivoluzionarie italiane, prendendo contatti anche con Giuseppe Mazzini, con cui talvolta si scontrò, ma forse non troppo.
Si occupò di biblioteconomia e divenne in breve tempo l’ufficiale costruttore del British Museum, curando personalmente la celebre biblioteca londinese. Dagli anni Quaranta in poi direttore della stessa struttura, e nel 1870 nominato Sir dalla Regina Vittoria per i meriti raggiunti nel migliorare e ingrandire il British con una generalizzata politica internazionale sul piano culturale che fece del British stesso una punta di diamante in tutta Europa.
Il padre di Giuseppe Mazzini lo adorava mentre era molto più critico nei confronti di suo figlio perché quest’ultimo non scese mai a compromessi con la nomenclatura inglese che, viceversa, adorava Antonio Panizzi.
Il patriota emiliano fu indubitabilmente un Cavour «ante litteram». Credeva nell’unità nazionale al pari di Mazzini ma da uomo molto pragmatico la realizzò di fatto mettendola su un piatto d’argento allo stesso Cavour.
È necessario, per comprendere i fatti, analizzare il Primo Risorgimento e quello che davvero promise Panizzi non solo ai patrioti italiani ma anche alla Corona Inglese.
Qualcuno sostenne, e tra questi sicuramente Maria Mazzini, madre del patriota e donna chiave nella vita dello stesso, anche sul piano politico, che Panizzi fosse un arrivista. Con tutto l’amore e i meriti che attribuisco a Giuseppe Mazzini, soprattutto riferibili al XX secolo prima ancora che al XIX, non condivido la posizione di Maria Mazzini. Definire Antonio Panizzi piuttosto che altri patrioti (penso a Gabriele Rossetti) degli opportunisti che vollero abbandonare la pregiudiziale unitaria e repubblicana in cambio di accordi precisi con la stessa Corona Inglese mi sembra una forzatura. Panini fu un patriota che amò moltissimo il suo Paese, pur vivendo tutta la sua vita in Inghilterra.
Gli storici hanno sempre affermato che Antonio Panizzi, da contumace qual era, non avesse mai lasciato l’Inghilterra dopo quel 1823 per ritornare in Italia. I documenti dicono il contrario.
Antonio Panizzi era un temerario, questo gli storici non l’hanno scritto.
Nel 1839, di nascosto, tornò in Italia, rischiando la pena capitale.
Lo fece incaricato da Carlo Ludovico di Borbone, in quel momento duca di Lucca, di concerto con la Corona Inglese, che il duca frequentava, e che conosceva tutti i movimenti di Panizzi, e con Carlo Alberto di Savoia. Ricevette infatti da quest’ultimo un lasciapassare inglese che gli permise di girare nel 1839 indisturbato proprio a Torino sotto mentite spoglie. Chi doveva incontrare a Torino? E chi incontrò? Questo le carte non lo dicono.
Sappiamo viceversa chi avrebbe dovuto incontrare immediatamente dopo a Genova: la madre di Giuseppe Mazzini, Maria, alla quale doveva consegnare delle lettere che suo figlio Giuseppe aveva affidato proprio a lui. Evidentemente, al di là di qualunque diatriba, Panizzi si prestò a questo e Maria Mazzini non si sentì affatto imbarazzata per questo.
Panizzi non riuscì in quest’ultima operazione perché il Governatore della città di Genova, intercettatolo, lo minacciò pesantemente e gli «suggerì» di fatto di ritornare a Londra. Giuseppe Mazzini rimase male della fuga precipitosa di Antonio Panizzi a Londra senza che avesse consegnato le sue carte alla madre.
È del tutto ovvio che Panizzi, per quanto coraggioso, ma al contempo pragmatico, comprese che la sua vita era davvero in pericolo, se fosse rimasto in Italia. Mazzini si fece una domanda in quella circostanza, o meglio, la fece in modo ironico a sua madre. Affermò cioè che probabilmente in Piemonte non c’era un solo Re, ma due (il secondo era il Governatore Genovese).
Si trattò di una battuta per «giustificare» i timori di Carlo Alberto di Savoia che faceva avere lasciapassare «sospetti» a patrioti ricercati in ambito internazionale, salvo poi dover ritrattare perché qualche suo accolito (in questo caso il Governatore Genovese) lo rimetteva in riga.
Panizzi non riuscì a raggiungere nemmeno Lucca, dove era diretto per riordinare la biblioteca del duca, e neppure Reggio Emilia, dove avrebbe dovuto salutare i suoi congiunti che, stando a quanto gli storici propongono, non vedeva dal 1823.
Dico così perché non possiamo escludere che sia stato solo quello l’unico viaggio di Antonio Panizzi da latitante in Italia durante il Primo Risorgimento. Quel viaggio certamene ci fu.
Carlo Ludovico di Borbone lo prese in giro al pari di Mazzini nelle lettere che gli inviò subito dopo (erano in rapporto di stretta amicizia) circa la «paura» che lo stesso Panizzi aveva avuto in quell’occasione. Naturalmente il patriota emiliano aveva fatto la scelta giusta, quella più equilibrata, come fece del resto in tutta la sua vita.
Poteva la Corona Inglese non essere informata della dipartita di Antonio Panizzi dal British Museum, lui che ne era il direttore?
Perché Panizzi voleva raggiungere Lucca al di là delle motivazioni ufficiali? Solo per l’«amicizia» con Carlo Ludovico di Borbone? Panizzi aveva contatti serrati con i patrioti lucchesi, come risulta dai documenti, presenti all’epoca nel Ducato.
Sicuramente con Pier Angelo Sarti, nativo di Vetriano di Pescaglia, collaboratore di Antonio Panizzi per molti anni al British Museum che aveva sposato in Londra un’Inglese convertitasi al Cattolicesimo (Panizzi viceversa divenne protestante e tale rimase fino alla sua morte).
Pier Angelo Sarti in quel 1839 era ormai rientrato in Lucca con la moglie inglese al seguito e ciò a partire dall’anno precedente.
In Lucca Antonio Panizzi aveva certamente amicizia con Antonio Raffaelli, suo ex compagno di studi presso la facoltà di Legge dell’Università di Modena dove entrambi intorno al 1820 si erano laureati. Antonio Raffaelli divenne negli anni Quaranta del XIX secolo il Ministro delle Finanze del duca borbonico e fu il responsabile del traghettamento politico ed economico del ducato di Lucca nel 1847 al Granducato di Toscana quando Carlo Ludovico di Borbone si spostò a Parma.
Antonio Raffaelli, che viveva a Fosciandora, nella Garfagnana Modenese, non distante da Castelnuovo Garfagnana, con i membri della sua famiglia, era con tutti loro un noto cattolico liberale.
Perché Panizzi avrebbe dovuto restare tanto in amicizia con questi patrioti? Pier Angelo Sarti era un suo ex collaboratore e per di più mazziniano. Ma l’ex compagno di studi Raffaelli era cattolico liberale. La risposta è semplice: perché i cattolici liberali all’epoca guidavano i patrioti di ogni colore politico nelle scelte rivoluzionarie. Gli stessi fratelli Fabrizi, mazziniani e certamente non cattolico liberali, erano cugini dei Pierotti che, anche loro patrioti della prima ora, risultarono noti cattolico liberali ed in sintonia con lo stesso Raffaelli e col conte Carli di Castelnuovo Garfagnana, collaborarono con gli stessi Fabrizi in Lucca e nel Mediterraneo proprio nel 1840.
C’è una lettera ad Antonio Raffaelli, all’Archivio di Stato Lucchese che Antonio Panizzi spedì a Lucca, allo stesso Raffaelli nel 1874, da Londra. Lettera dove egli espresse queste precise parole: «Amico mio, i Savoia sono gli intrusi del Quirinale». Quando ho letto questa frase in principio pensavo non potesse trattarsi del patriota Antonio Panizzi ma di un suo omonimo. La lettera è del tutto informale (familiare), brevissima, quasi una nota, e quindi assolutamente scarna. Secondo quanto conoscevo dalla storiografia nazionale ed internazionale su Antonio Panizzi questa frase pronunciata dall’allora Sir Panizzi mi sembrava improponibile. Ma a Reggio Emilia, alla fondazione Panizzi dove mi sono rivolta, mi hanno confermato, documenti alla mano, che Panizzi ebbe rapporti molto amichevoli con Napoleone III e seguì da vicino la sua linea politica. A Reggio Emilia non erano a conoscenza della lettera lucchese ma non potevano affatto escludere che quell’affermazione potesse essere plausibile.
A ben vedere Londra non poteva non sostenere la stessa linea politica di Napoleone III e dei cattolico liberali, che era poi la stessa del laico Panizzi. Perché, non dimentichiamolo, Antonio Panizzi fu davvero uomo di fiducia della Corona ed un pragmatico di ferro.
Se in privato egli nel 1874, cioè a cose fatte, pronunciava questa frase, quasi scusandosi con l’amico cattolico liberale, teneva a precisare che non era lui l’artefice delle ultime vicende italiane. Anzi, che in qualche modo provava imbarazzo verso la Corona poiché, in tutta evidenza, aveva assistito a cose fatte a situazioni politiche non preventivate e non preventivatili ma in qualche modo «improvvisate». Mi riferisco agli esiti della spedizione dei Mille e della successiva presa di Roma.
Questa frase di Antonio Panizzi rivela di fatto il ruolo attivo e propositivo che in tutta evidenza i cattolico liberali ebbero ben dopo il 1848. I Savoia erano Re Cristianissimi, che fecero dei cattolici liberali sempre un cavallo di battaglia. Ed anche in questo caso ci sono i documenti. Se ad un certo di punto un liberalismo più intransigente e laico prese il sopravvento sui cattolico liberali, evidentemente la Corona Inglese ancora nel 1870 sperava che il Papa Re potesse mantenere un ruolo più propositivo ed attivo rispetto ai fatti che si verificarono. Il Papa era un collante per l’Italia, senza ombra di dubbio, ed i Savoia da soli un salto nel buio. Di questo la Corona Inglese non poteva non tener conto e Panizzi con questa frase al Raffaelli esprime questo pensiero. Faceva proprio comodo in Europa un’Italia unita e non federale? Tutti pensarono all’istante che quell’improvvisazione statuale avrebbe avuto le gambe corte, e che la durata del neonato Stato Unitario non sarebbe stata affatto scontata. Anche per questo i cattolici liberali rimasero a lungo una carta da giocare.
La differenza nei fatti italiani la fecero, ritengo, i coinvolgimenti politici della Corona Inglese proprio nel Mediterraneo Orientale, che la costrinsero, peraltro progressivamente, e a partire dagli anni Quaranta del XIX secolo, a spostare il suo baricentro mediterraneo verso Est.
Cefalonia, le isole Ionie e la stessa Italia divennero secondari rispetto a quanto stava accadendo altrove, nel Mediterraneo.
Nonostante questo e l’«accettazione» da parte della Corona Inglese dei fatti italiani, un uomo come Sir Panizzi doveva in qualche modo, per il ruolo svolto durante tutto il Risorgimento, giustificare alla nomenclatura inglese che si fidava ciecamente di lui e che lo amava ed amò sino alla morte ed oltre, quanto stava avvenendo nella sua ex patria e soprattutto, immagino, come dovevano «sentirsi» di fronte a tali fatti amici ed ex amici italiani patrioti.
I Savoia riuscirono con fatica a farsi accreditare in Europa come Sovrani del neonato Stato Unitario Italiano, pagando poi lo scotto di quell’improvvisazione politica.