Mazzini, la «Giovine Europa» e le Lettere Slave
Un passato che parla di attualità e dell’Europa dei nostri giorni

Il noto giornalista Michele Serra, ha recentemente scritto su un quotidiano nazionale un articolo dal titolo Una piazza per l’Europa,[1] nel quale si fa appello alle coscienze democratiche perché organizzino una grande manifestazione per l’unità dell’Europa, per la sua libertà e sicurezza, e in difesa dell’Ucraina, aggredita dalla Russia. Una manifestazione di popolo, dice Serra, dove sventolino solo bandiere europee e dove risuoni il motto garibaldino modificato con l’inserimento della parola «Europa», al posto di «Italia», ossia: «Qui o si fa l’Europa o si muore».[2]

Attingendo ai padri nobili del nostro Risorgimento, davanti all’aggressione che da tre anni sta subendo lo Stato sovrano dell’Ucraina, un’altra occasione di riflessione su tale dramma ci può venire dal pensiero di Giuseppe Mazzini ideatore della «Giovine Europa» (naturale evoluzione della «Giovine Italia») con la quale intendeva realizzare una entità grande, potente e libera, non basata sulla grettezza e l’affarismo, che divenisse una guida luminosa per il mondo intero. Il progetto iniziava la sua esistenza ufficiale il 15 aprile 1834 e si articolava tra il 1834 e il 1836, rappresentando proprio il primo tentativo organicamente concepito di creare una efficiente organizzazione democratica a carattere sovranazionale. Pace, libertà, prosperità; uguaglianza totale e assoluta dei diritti fra uomini e donne; suffragio universale; libertà di culto, ma laicità dello Stato; dignità sul lavoro, divieto di lavoro per i fanciulli, istruzione obbligatoria per chiunque fino all’età di 18 anni.

Mazzini aspirava agli Stati Uniti d’Europa, che dovevano avviare un processo per la conquista della pace e della fraternità. Non più un’Europa dei Re, ma un’Europa dei popoli, che faceva iniziale fulcro sull’Italia, la Germania, la Polonia.

Per questo suo disegno, la «questione slava» era costantemente presente nella sua mente e più volte tornerà sull’argomento e principalmente nel saggio On the Slavonian Movement pubblicato in inglese nel 1847 e ripreso in parte nelle Lettere Slave del giugno 1857, nel foglio genovese «Italia e Popolo». Ancora, nell’altro articolo dal titolo Missione italiana – vita nazionale pubblicato sul «Dovere» nel 1866 e nel saggio Politica internazionale apparso sulla «Roma del Popolo» dal marzo all’aprile 1871, la cui importanza come testamento politico di Mazzini é stata messa in luce da Federico Chabod[3]. Queste date sono significative: da un lato scandiscono i momenti salienti dell’interesse di Mazzini, sempre coincidenti con l’addensarsi delle grandi crisi cicliche europee; e dall’altro dimostrano un’unica ispirazione del suo pensiero dal 1847 (alla vigilia cioè dell’anno dei moti popolari europei) fino al 1871, all’indomani della guerra franco-prussiana. Per Mazzini la «questione slava» resta uno dei punti centrali della sua attenzione sulla politica estera. Per tale problema ha un impegno intellettuale quasi pari a quello che lo anima nella battaglia per l’unità italiana; anzi, qualcuno dice che da un lato egli trova nella rinascita della coscienza nazionale dei popoli slavi l’esempio più alto della vitalità e della forza liberatrice del principio nazionale; vale a dire la linea politica direttrice della Nazione Italiana diventata Stato moderno. Nelle sue argomentazioni Mazzini mostra di possedere ampia informazione su tutta la questione; da un lato egli ha una conoscenza minuta e precisa del movimento nei suoi vari focolai, dall’altro lo inquadra nella dinamica dell’espansionismo dell’Impero Russo, della crisi di quello Austriaco e di quello Turco. La ragione profonda del continuo ritornare di Mazzini sul tema slavo è proprio la stretta connessione che egli stabilisce tra l’insorgere del movimento nazionale dei popoli dal Baltico al Bosforo e la costituzione di una forza nuova che, al momento della crisi finale dell’Impero Asburgico e di quello Ottomano arresti il disegno del panslavismo dello Zar, sempre individuato dal Mazzini come il novello autocrate. Questa fascia di popoli (il Polacco e il Boemo-Moravo, il Magiaro, le forze slovacche; i Serbi, Montenegrini, gli Sloveni, Croati e Bulgari) si contrappongono ai tre Imperi (Austro-Ungarico, Turco e Russo). L’iniziativa sarà, secondo Mazzini, del gruppo polacco, perno della resistenza dell’intero movimento degli Slavi che lo Zar regge con pugno di ferro. E forse (queste parole sono scritte nel 1847) l’iniziativa polacca si metterà in moto a seguito della crisi che «partirà da dove meno si attende, dall’Italia, perché v’è sempre stata una misteriosa simpatia tra queste due grandi proscritte tra le Nazioni». Quello che è certo – dice - è che il moto slavo sarà una diga: «Gli Slavi salveranno l’Europa dallo Zar, invece di sottometterla a lui».

Nei due articoli Missione italiana e Politica Internazionale, Mazzini lumeggerà poi il quadro del futuro assetto dell’Europa dei popoli nel territorio slavo, in termini definiti «sostanzialmente profetici» rispetto alla carta politica che scaturirà dalla Prima Guerra Mondiale: la creazione dello Stato Germanico; una Polonia libera; uno Stato Boemo-Moravo («Tchekko-Slavo» com’egli scrive); una Ungheria liberata dal predominio austriaco; uno Stato Romeno (che rappresenta una presenza latina nella zona, come la Grecia rappresenta la rinascita ellenica); una confederazione degli Slavi Balcanici, che comprende Illirici, Serbi, Slavi musulmani e Bulgari, gravitanti su Costantinopoli (gli Slavi del Sud). Questo il quadro finale che Mazzini disegna come punto d’arrivo della politica estera dell’Italia, che a questi popoli rivolge queste parole: «Sorti in nome del Diritto Nazionale, noi crediamo nel vostro, e vi profferiamo aiuto per conquistarlo. Ma la nostra missione ha per fine l’assetto pacifico e permanente d’Europa. Noi non possiamo ammettere che lo Zarismo russo sia minaccia perenne alla Libertà […]; [e occorrerà] costituire una forte barriera contro l’avidità dello Zar, [contro le sue] mire di ingrandimento».[4]

Alla luce della drammaticità della situazione odierna quella che fu vista come «l’utopia» mazziniana, posta nel dimenticatoio (se non in ridicolo), nei ricorrenti cicli della «realpolitik», mantiene sempre una sua concretezza e una sua attualità, misurandosi nella storia e non nella cronaca, forse essendo animata da una visione intellettuale così ampia che la rende suscitatrice di grandi disegni politici e di alta tensione morale.

Anche una composizione poetica di Giovanni Pascoli, «mutatis mutandis», mantiene ancora un suo senso: nei Poemi conviviali il poeta riproponeva il mito di Gog e Magog, di cui si hanno tracce confuse nella Bibbia, nel Corano e nell’Apocalisse. Secondo certe fonti, Gog e Magog si identificano nelle popolazioni selvagge dell’Asia Centrale (Sciti, Goti, Mongoli, Tartari, Ungari, Khazari) e con esseri soprannaturali (giganti o demoni).[5]

Questa storia si intreccia anche con una delle tante leggende nate intorno alle imprese di Alessandro Magno, un altro personaggio raccontato nei Poemi: per sbarrare il passo alle feroci popolazioni di Gog e Magog che «si nutrivano di carne umana», il Re Macedone avrebbe fatto costruire una porta di bronzo destinata a rimanere in piedi fino alla fine del mondo. Nel XII secolo, all’epoca delle invasioni dei Mongoli, questi popoli dell’Asia vengono identificati (anche per una certa assonanza nel nome) con le orde sanguinarie di Gog e Magog, sfuggite alle barriere poste da Alessandro e venute a distruggere l’intera umanità.

Pascoli attinge da questa leggenda e compone un poemetto dalle tinte fosche e apocalittiche, nel quale, fra le steppe che il sole al tramonto tinge di rosso, echeggiano grida di uomini, ululati del vento, scalpitare di zoccoli, lugubri canti di uccelli. Gog e Magog hanno scoperto l’inganno: è il vento a far suonare le trombe, l’esercito macedone non esiste! Così, senza più barriere, un’orda selvaggia si lancia alla conquista di nuove e fertili terre; i nomi dei popoli che la compongono sono sinistri e inquietanti come formule di una nefasta magia. I barbari stanno arrivando, la fine del nostro mondo è vicina:

«Prese due penne il vecchio nano, e stette
sopra una roccia ed agitò le penne,
e chiamò l’Orda, che attendeva: “A me,
Gog e Magog! A me, Tartari! O gente
di Mong, Mosach, Thubal, Aneg, Ageg,
Assam, Pothim, Cephar, Alan, a me!”
A Rum fuggì Zul-Karnein, le ferree
trombe lasciando qui su le Mammelle
tonde del Nord. “Gog e Magog, a me!”».


Note

1 Michele Serra, Una piazza per l’Europa, «La Repubblica» del 27 febbraio 2025.

2 La frase famosa «qui si fa l’Italia o si muore» venne attribuita dallo scrittore Giulio Cesare Abba a Giuseppe Garibaldi, durante il sanguinoso combattimento di Calatafimi (15 maggio 1860). L’«Eroe dei Due Mondi» l’avrebbe rivolta a Nino Bixio, in risposta al timore da lui espresso che fosse impossibile resistere alla forza militare dei Borbonici.

3 Federico Chabod, Storia della politica estera italiana dal 1870 al 1896, seconda ristampa, Laterza, Bari, 1997.

4 Licisco Magagnato, La questione slava; Fabrizio Canfora, prefazione, Lettere slave / Giuseppe Mazzini, Laterza, Bari, 1939; Massimo Scioscioli, Giuseppe Mazzini – I principi e la politica, Alfredo Guida Editore, Napoli, 1995, pagina 227 e seguenti.

5 Giovanni Pascoli, «Gog e Magog» in Poemi conviviali, 1904.

(aprile 2025)

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