L’impresa dei Mille
Fatti e retroscena della spedizione
garibaldina in Sicilia e nel Sud Italia: per liberarci da
una lettura ideologica degli eventi storici
È la primavera del 1860, e lo Stato Sabaudo ha da poco concluso vittoriosamente la Seconda Guerra d’Indipendenza, annettendosi la Lombardia. Pochi mesi dopo, nell’Italia Centrale scoppiano numerose rivoluzioni: capeggiate con fermezza da Bettino Ricasoli, in Toscana, e da Carlo Farini, nel Ducato di Parma e Modena, queste rivolte – malgrado l’opposizione dell’Austria – ottengono che anche la Toscana, l’Emilia e la Romagna si uniscano al Piemonte. Solo le Venezie (con l’Istra e la Dalmazia), lo Stato Pontificio e il Regno delle Due Sicilie restano ancora sottoposti agli antichi Sovrani. Ma le cose stanno per cambiare.
Alcuni meridionalisti sostengono che il Regno delle Due Sicilie della metà dell’Ottocento era un Paese ricco e prospero e che il Piemonte l’avrebbe conquistato solo per depredarne le ricchezze ed azzerarne l’economia. Ma non è vero. È uno Stato assolutistico il cui regime si basa unicamente sull’esercito e la polizia, con gli oppositori finiti tutti in galera o in esilio. Le caratteristiche principali sono l’immobilità economica, l’inerzia politica e l’isolamento internazionale, perché la Corte di Napoli rifiuta l’ingerenza di ogni Nazione straniera (Austria compresa), facendo il vuoto attorno a sé e scavando una crisi sempre più profonda, oltretutto con una posizione strategica al centro del Mediterraneo che fa gola a molti. Le casse del Regno sono piene d’oro sia perché il Re non crede nella carta moneta stampata (nemmeno in quella della sua propria banca) sia perché bada solo a tesaurizzare, senza attrezzare il Paese realizzando bonifiche o costruendo strade: la stragrande maggioranza dei Comuni non possiede neanche una trazzera (strada che attraversa i campi e serve al passaggio degli armenti) che ne rompa l’isolamento. Le ferrovie, che hanno avuto a Napoli il primo vagito nella Penisola, non hanno a disposizione che 100 chilometri di binari, laddove il Piemonte ne ha 900, il Lombardo-Veneto 500, la Toscana 250. Le uniche industrie solide sono gli stabilimenti meccanici di Pietrarsa e i cotonifici di Salerno: i primi sono di proprietà dello Stato, che garantisce le commesse ma si appropria degli utili che servirebbero al miglioramento del prodotto ed alla riduzione dei costi, mentre i secondi sono protetti da una tariffa doganale che fa lievitare il prezzo dei prodotti provenienti dall’estero del 100%; con l’unificazione d’Italia e la conseguente caduta delle barriere doganali, le macchine di Pietrarsa sono soppiantate da quelle dell’Ansaldo e le cotonate di Salerno da quelle di Busto Arsizio perché producono meglio e ad un costo minore. Alla morte di Ferdinando II, Sovrano energico e vitale, sale al trono il figlio primogenito Francesco II, un giovane debole ed insicuro, di indole sensibile ma di educazione politica limitata, tutto l’opposto del Re che sarebbe necessario in un momento di crisi come quello che si profila sempre più vicino all’orizzonte.
Il 4 aprile scoppia, a Palermo, un’insurrezione armata capeggiata dallo stagnino Francesco Riso, per scrollarsi di dosso il dominio dei Borboni, che però viene soffocata dalle forze di polizia. Visto fallire questo tentativo di liberarsi da soli, i patrioti siciliani mandano a Torino un loro giovane rappresentante, Francesco Crispi, un avvocato di Ribera maturato nelle cospirazioni e amico di Mazzini: ha l’incarico di incontrarsi con Giuseppe Garibaldi e di invitarlo, a nome del popolo siciliano, a capeggiare un’azione armata nell’isola. La richiesta non viene fatta direttamente al Governo Piemontese perché – essendo la Francia e l’Austria contrarie ad un eccessivo ingrandimento dell’Italia, che potrebbe sottrarsi alla loro influenza (come presto avverrà) – questo dovrebbe negare il proprio aiuto. Camillo Benso Conte di Cavour fa intendere a Crispi un suo appoggio all’impresa, ma ad una condizione: il Governo Piemontese deve apparire agli occhi di tutti gli altri Governi completamente estraneo fino al suo compimento. Il sotterfugio non inganna nessuno – Borboni in testa – ma appare «politicamente corretto» presso le Cancellerie Europee.
Così, la sera del 5 maggio 1860, da Genova, prendendo la via del Bisagno e la strada di Porta Pila, escono alcuni uomini: sono legionari di Garibaldi che, soli o a gruppi, si recano al luogo del raduno. Due sono i posti scelti per il convegno: la foce del Bisagno e Quarto. Nino Bixio, con una quarantina di volontari, si avvia verso la darsena di Genova: alle 21 e 30, intorno alle navi mercantili Piemonte e Lombardo, di proprietà della Società Rubattino, ormeggiate al molo, si muovono alcune ombre furtive. I marinai di guardia ai piroscafi fingono di non vedere nulla; i poliziotti di ronda hanno avuto l’ordine, verosimilmente per disposizione dello stesso Cavour, di girare altrove. Ad un tratto dall’oscurità emergono dieci, venti, trenta figure umane che, con le rivoltelle in pugno, «costringono» i marinai dei due piroscafi ad accendere le caldaie e a prepararsi alla partenza. L’impresa è riuscita: il giorno dopo, tutti potrebbero credere che una banda di briganti si sia impadronita con la forza dei due navigli. Ma in realtà era tutto già predisposto: Bixio si era accordato col procuratore della Società Rubattino, Fauché (che per questo sarà poi licenziato), per avere a disposizione le navi senza che la Società ne apparisse complice; si evitava così che l’Austria, venendo a conoscenza dell’impresa di Garibaldi, si vendicasse con la Rubattino, escludendola magari dai suoi porti. All’alba del giorno dopo partono da Quarto 1088 volontari più una donna (Rosalia Montmasson, moglie di Crispi), comandati da Giuseppe Garibaldi. Tra loro c’è Maxime du Camp, un avventuroso giornalista francese, Ippolito Nievo (già poeta ma ancora quasi sconosciuto), il canonico Bianchi (mezzo prete e mezzo soldato) e due figli di padri illustri: Menotti Garibaldi e Giorgio Manin. La maggior parte di loro è lombarda, in prevalenza bergamasca: molti borghesi intellettuali e pochi artigiani. Sono vestiti nelle fogge più strane: Garibaldi in camicia rossa e «poncho», Crispi in «stiffelius», Sirtori in palandrana nera e cilindro, altri grondano di pennacchi come personaggi di Rubens. Passeranno alla storia come i «Mille»!
Gerolamo Induno, La partenza del garibaldino, 1860, Gallerie di Piazza Scala, Milano (Italia)
Il 7 maggio, nel pomeriggio, Garibaldi – valendosi della sua divisa di Generale Piemontese – si fa consegnare dai comandanti delle fortezze di Talamone e Orbetello armi e munizioni per i suoi uomini (qualche decina di vecchi fucili, tre cannoncini e una colubrina del Seicento), poi sbarca una sessantina di uomini agli ordini di Zambianchi che raggiungerà la Sicilia più tardi. Alle prime luci dell’11 maggio 1860, il Piemonte ed il Lombardo giungono in vista delle coste siciliane: Garibaldi, dalla tolda del Piemonte, ne scruta il lontano profilo. Ad un tratto, agli occhi della vedetta appaiono tre grosse navi da guerra borboniche; si avvicinano e gli sguardi dei legionari misurano ansiosi le distanze che li separano dalla costa e dalle navi nemiche. Giunti in prossimità della riva, si aggiunge un’altra amara sorpresa: portandosi il cannocchiale agli occhi, Garibaldi scorge altre due navi da guerra alla fonda nel porto di Marsala. Le Camicie Rosse imbracciano i fucili, gli artiglieri si portano ai pezzi e preparano le micce per uno scontro impari. Ma i lineamenti di Garibaldi si distendono in un sorriso: le navi ormeggiate nel porto non sono borboniche, bensì inglesi; un piano audace, per «neutralizzare» la flottiglia nemica che sta sopraggiungendo, si fa strada nella sua mente. Ordina che il Piemonte e il Lombardo entrino con rapidità nel porto di Marsala e gettino gli ormeggi in vicinanza della navi inglesi: la flotta borbonica, per evitare di colpire queste navi neutrali, non oserebbe certo aprire il fuoco. Così, con l’inconsapevole protezione... della flotta inglese, i Mille possono prender terra con le scialuppe.
Un telegrafista del porto, notando la manovra, decide di informare dell’accaduto il quartier generale dell’esercito borbonico, a Trapani. Uno dei primi garibaldini sbarcati penetra nell’ufficio telegrafico e legge il testo del dispaccio appena trasmesso: «...DA MARSALA A TRAPANI – URGENTE – ...ENTRATI IN PORTO DUE PIROSCAFI PIEMONTESI, DA CUI SCENDONO UOMINI ARMATI – STOP – ATTENDO ISTRUZIONI». La Camicia Rossa intima al telegrafista di farsi da parte e, messasi all’apparecchio, prosegue la comunicazione trasmettendo: «MI SONO SBAGLIATO, SONO VAPORI DEL NOSTRO ESERCITO». Resta quindi in attesa della risposta da Trapani, per essere sicuro che il secondo messaggio sia stato ricevuto. E la risposta di Trapani all’impiegato reo di essersi «sbagliato» non si fa attendere: «IMBECILLE!».
Alle ore 13 la guarnigione borbonica, colta di sorpresa, lascia la città ai garibaldini e il Consiglio Comunale proclama Garibaldi «dittatore, in nome di Vittorio Emanuele Re Costituzionale d’Italia». Due giorni dopo è lo stesso Garibaldi, entrando a Salemi, a dichiarare «di assumere in nome di Vittorio Emanuele Re d’Italia, la dittatura in Sicilia»; a lui si uniscono le prime bande di insorti siciliani, i cosiddetti «picciuotti», al comando del barone di Sant’Anna, un «pezzo da novanta».
Il 15 maggio i garibaldini giungono presso Calatafimi, un piccolo borgo posto sulla strada che da Marsala conduce a Palermo. Alle 7 e 30 del mattino appare dinanzi a loro un gran numero di soldati borbonici, schierati in ordine di combattimento. Per un certo tempo i due eserciti rimangono immobili, uno di fronte all’altro. Poi, tra le file borboniche echeggiano alcuni squilli di tromba, e l’avanguardia nemica si mette in marcia verso i Mille. Ma i Mille rimangono immobili.
Trainandosi dietro due grossi cannoni, i borbonici continuano ad avanzare gridando: «Mo’ venimme, mo’ venimme, straccioni, carognoni, malandrini», e ad un certo punto aprono il fuoco coi loro fucili. I garibaldini, con le armi in pugno e le dita pronte sui grilletti, non reagiscono; Garibaldi, su una collina, tiene tranquillamente il sigaro in bocca. Solo quando l’intervallo fra i due eserciti è ridotto a poche decine di metri, i Carabinieri di Sardegna, che sono i tiratori scelti dell’esercito garibaldino, aprono a loro volta il fuoco sugli avversari; la loro mira infallibile apre ben presto molti vuoti tra le file nemiche. Garibaldi dà allora l’ordine di suonare la carica: tutti i garibaldini partono di scatto, assalgono i disorientati borbonici a colpi di baionetta espugnando dal basso una serie di terrazze scoperte da dove la mitraglia falcia gli uomini. Lo stesso Nino Bixio, paventando la sconfitta, avrebbe ad un tratto prospettato a Garibaldi l’opportunità di una ritirata; ma il Generale avrebbe risposto: «Qui si fa l’Italia o si muore». Alla fine i garibaldini riescono ad impadronirsi dei due grossi cannoni; soddisfatto del prezioso bottino, Garibaldi fa suonare l’«Alt», ma i suoi legionari fingono di non sentire e continuano la loro corsa verso il grosso dell’esercito borbonico che invano cerca di frenare il loro impeto con un nutrito fuoco di fucileria. Tutta la giornata dura la lotta tra gli scatenati garibaldini e i loro avversari; anche Garibaldi, con la spada sguainata, partecipa alla mischia furibonda. Al calar del sole i garibaldini prendono possesso, da vincitori, della cittadina, mentre l’esercito borbonico si sparpaglia per le campagne. La battaglia è costata una trentina di morti ed un centinaio di feriti sia da una parte che dall’altra; dalle pietraie circostanti, bande di «picciuotti» con lo schioppo in spalla scendono ad ingrossare le schiere del vincitore.
A questo punto Garibaldi opera uno stratagemma geniale: finge di ritirarsi verso l’interno dell’isola, trascinandosi dietro le truppe borboniche che dovrebbero sbarrargli il passo, mentre invece con truppe scelte torna sui suoi passi, si unisce con altri volontari e punta su Palermo. Il 27 maggio, i 22.000 soldati borbonici che difendono la città sono costretti allo sgombero, dopo aver chiesto a Garibaldi un armistizio: a 16 giorni dallo sbarco di Marsala, le campane suonano a martello e su Palermo sventola il Tricolore. Meno di un mese dopo, il 20 luglio, la battaglia di Milazzo, con un migliaio di uomini rimasti sul terreno, segna la definitiva vittoria dei garibaldini in Sicilia e l’abbandono dell’isola da parte dei borbonici. L’esercito borbonico in Sicilia aveva goduto di una superiorità numerica e qualitativa notevole (tra l’altro, Francesco II possedeva una flotta di 120 navi, la seconda flotta più potente d’Europa), eppure non aveva nemmeno tentato di difendere Palermo, rinchiudendosi nella fortezza da dove aveva sparato qualche cannonata, tanto per salvare la faccia. In pratica i soldati del Regno delle Due Sicilie non avevano alcuna intenzione di combattere; purtroppo alcuni ufficiali e soldati, nel caos creatosi nelle province, fomentarono delle ribellioni o si unirono ai briganti ed eliminarli fu molto duro anche come costo umano.
Gustave Le Gray, Ritratto di Giuseppe Garibaldi (1808-1882) a Palermo nel luglio 1860
Garibaldi indugia a lungo prima di varcare lo Stretto di Messina e por piede nel continente: Cavour teme che la Francia possa intervenire per arrestare l’azione dei Mille, qualora osino continuare la loro marcia nella Penisola, e comunica a Garibaldi questi suoi timori. Ma il Re lo incoraggia in segreto a proseguire, e l’8 agosto Garibaldi comincia le operazioni di sbarco in Calabria.
Il 23 agosto, 12.000 soldati borbonici, a Monteleone, abbandonano le armi e si danno alla fuga dinanzi ai legionari garibaldini. Il 7 settembre 1860, alle ore 13 e 30, Garibaldi entra trionfalmente in Napoli, da dove il Re Francesco II e la Regina Maria Sofia si sono già allontanati.
Ingresso di Garibaldi a Napoli il 7 settembre 1860, Museo civico di Castel Nuovo, Napoli (Italia)
È a questo punto che Cavour, vinti gli ultimi indugi e considerato il buon esito dell’impresa, invia incontro a Garibaldi l’esercito regolare piemontese, alla testa del quale marcia il Re in persona: l’11 settembre il Generale Cialdini varca con le sue truppe i confini con lo Stato Pontificio; il 18 settembre sconfigge gli zuavi pontifici a Castelfidardo; il 29 settembre costringe alla capitolazione Ancona ed annette al Piemonte le Marche e l’Umbria.
Il 1° e il 2 ottobre 50.000 borbonici contrattaccano, tentando di aprirsi la via verso Napoli in mano ai garibaldini: la battaglia del Volturno, estremamente sanguinosa (circa 3.000 morti), segna una nuova sconfitta dei borbonici, costretti a rifugiarsi disorientati a Gaeta, dove saranno definitivamente battuti dalle truppe piemontesi. Francesco II e la Regina, su una nave francese, si rifugeranno a Roma sotto la protezione del Papa.
Museo Torre di San Martino della Battaglia. Particolare dell'affresco raffigurante i combattimenti a Santa Maria Capua Vetere, durante la Battaglia del Volturno
Alle ore 6 del mattino del 26 ottobre 1860, poco dopo l’annessione delle Due Sicilie al Regno del Piemonte, Vittorio Emanuele II e Giuseppe Garibaldi si incontrano a Taverna di Catena (non a Teano). Gli interrogativi non mancano: Garibaldi donerà le sue conquiste a Re? Dopo aver sottomesso a sé un Regno, vorrà tornare ad essere un semplice cittadino?
Garibaldi attende con i suoi uomini finché ode, in lontananza, lo squillo delle prime note della Marcia Reale.
«Il Re! Viene il Re!» gridano i legionari.
Il suono della marcia si fa sempre più distinto. Ed ecco avanzare, in arcione ad un cavallo bianco, Vittorio Emanuele II. Anche Garibaldi monta in sella al suo cavallo e muove incontro al Sovrano: ha la camicia rossa e il «poncho», e il caratteristico fazzoletto non al collo ma che gli scende di sotto il cappelluccio di feltro in due bande annodate sotto la gola. Giunto a pochi passi dal Re, si leva il cappello ed esclama: «Saluto il primo Re d’Italia!».
«Grazie! Saluto il mio migliore amico!» risponde Vittorio Emanuele (ma secondo qualcuno si sarebbe limitato a rispondere «Grazie»: tra i due non correva buon sangue). Quindi porge la mano a Garibaldi, che ricambia la stretta con vigore. L’uno a fianco dell’altro, il Re e Garibaldi riprendono il cammino. E, indicando il Sovrano ai legionari ed al popolo, Garibaldi esclama: «Ecco Vittorio Emanuele, il nostro Re, il Re d’Italia!».
Sebastiano De Albertis, L'incontro con Vittorio Emanuele a Teano, circa 1870
In cambio del Regno di cui gli ha fatto dono, Garibaldi chiede al Sovrano soltanto un sacco di semi di frumento, per piantarli nell’orticello che possiede a Caprera: rifiuta il titolo di Duca, il castello e la pensione offertigli dal Re perché la sua missione è quella di «fare l’Italia, non una carriera». Ed è con quel sacco di frumento sulle spalle che, il 9 novembre 1860, dopo aver congedato i suoi garibaldini, s’imbarca sul vapore Giorgio Washington e parte alla volta di Caprera: saluta la popolazione che si accalca sulla banchina del porto, per vederlo ancora una volta. «L’indipendente» di Dumas elenca le prede belliche del Generale: oltre al sacchetto di sementi, alcuni barattoli di caffè e zucchero, una balla di stoccafissi e una cassa di maccheroni.