Il primo tentativo di bombardamento aereo
della Storia
Venezia, 2 luglio 1849
La mattina del 2 luglio 1849 l’intera popolazione di Venezia, stremata dal lungo assedio posto fino dalla primavera dalle truppe austriache del maresciallo Radetzky intenzionate a stroncare l’ostinata resistenza della Repubblica lagunare, si riversò lungo le calli e sui ponti per osservare a naso in su un fenomeno bellico straordinario: il primo bombardamento aereo della Storia. Nel cielo azzurro e limpido sovrastante l’intricato dedalo di canali, a circa cinquecento metri di quota, volteggiavano infatti una mezza dozzina di grosse mongolfiere austriache, dalle quali iniziarono a piovere sulla città strani ordigni esplosivi destinati, per fortuna, a non creare gravi danni ad edifici, case e persone. Questo curioso e assai poco noto episodio che vide i Veneziani protagonisti, anche se del tutto involontari, del primo esperimento di guerra aerea, nacque da una geniale intuizione di un giovane ufficiale dello stato maggiore austro-ungarico, il colonnello d’artiglieria Benno Uchatius. Essendosi reso conto – dopo lunghi mesi di assedio scanditi dal tuono dei cannoni e delle bombarde – dell’inutilità di tale sistema (che pur arrecando danni non indifferenti ad una parte della città, il bombardamento non aveva ancora indotto le forze ribelli della «Serenissima» a cedere alle ingiunzioni di resa austriache), Uchatius decise di fare ricorso ad un’arma insolita, di fronte alla quale i Veneziani nulla avrebbero potuto contrapporre: una mongolfiera in grado di trasportare un certo carico di esplosivo per bombardare la città dall’alto.
Ottenuto il consenso dal maresciallo Radetzky, nonostante lo scetticismo dei colleghi e dei superiori, l’ufficiale austriaco riunì un’équipe di matematici, artificieri e genieri esperti nella costruzione di mongolfiere, e si mise a lavorare al piano, nella convinzione che l’effetto materiale e soprattutto psicologico di un inatteso attacco dall’aria avrebbe costretto i difensori ad arrendersi senza condizioni. Uchatius approntò e sperimentò diverse soluzioni tecniche, utilizzando in un primo tempo alcuni piccoli palloni aerostatici. I problemi da superare erano infatti molti. La forza e i capricci del vento, la distanza che separava la terraferma dalla città e lo scarso carico portante dei palloni dell’epoca non consentivano, infatti, di prendere alla leggera una missione il cui insuccesso sarebbe costato probabilmente la carriera all’intraprendente ufficiale austriaco. Sebbene l’utilizzo delle mongolfiere in ambito bellico non rappresentasse una novità assoluta (durante le guerre napoleoniche, i Francesi fecero uso di palloni da osservazione, ancorati però alla terraferma), gli ostacoli che Uchatius aveva di fronte risultavano infatti del tutto nuovi.
Senza considerare che il tempo concesso da Radetzky all’ufficiale per portare a termine il suo progetto e per intraprendere la prima missione contro la città assediata era molto esiguo. Dopo avere calcolato la velocità e la direzione dei venti e dopo avere valutato per via teorica le dimensioni e le caratteristiche (cubatura, altezza, larghezza e portanza) della mongolfiera, Uchatius fece allestire nei pressi di Mestre un capannone dentro il quale un gruppo di ingegneri e maestri velai iniziò a fabbricare un primo pallone dotato di una grossa cesta di vimini per il trasporto di due uomini di equipaggio e di circa cento chilogrammi di piccoli ordigni a miccia lunga (si trattava di sfere di metallo riempite di polvere da sparo, pece, olio e cinquecento pallettoni da fucile). I primi esperimenti si rivelarono però un disastro, in quanto il mezzo, ovviamente privo di una propria unità motrice, iniziò a vagare nel cielo sospinto dai venti, rendendo impossibile il lancio degli ordigni. Accantonata l’idea di utilizzare una normale mongolfiera, Uchatius tentò allora un’altra soluzione, decisamente bizzarra, facendo approntare palloni più piccoli. Questi, legati tra di loro da lunghe funi, avrebbero costituito una specie di «ragnatela volante», di grande ampiezza, che avrebbe potuto così garantire (almeno in teoria) una maggiore stabilità orizzontale e una superiore copertura dell’area da colpire. L’idea dell’ufficiale era in realtà semplice, ma di difficilissima attuazione pratica in quanto il vento avrebbe esercitato egualmente la sua forza – e forse con esiti ancora più disastrosi – contro l’incredibile meccanismo volante. Ma Uchatius, che evidentemente era un ottimista come tutti gli innovatori, non se ne preoccupò più di tanto. E verso la metà di giugno del 1949, l’équipe dell’ufficiale sperimentò il nuovo sistema. Forse complice la bella giornata e l’assenza di forti venti, la «macchina volante», formata da dieci palloni collegati a ragnatela, decollò dolcemente, raggiungendo presto la quota di seicento metri e palesando una discreta stabilità.
Galvanizzato dal successo, Uchatius comunicò il risultato dell’esperimento al comando dell’esercito, chiedendo il permesso di utilizzare il suo nuovo mezzo per un’azione dimostrativa su Venezia. Sulla base di complicati calcoli trigonometrici, i palloni (legati uno ad uno) sarebbero stati «lanciati» sopravvento rispetto alla città. Telemetrando di volta in volta la posizione del primo pallone della fila, che era disarmato, gli equipaggi di quelli al seguito avrebbero potuto calcolare l’effettiva distanza dell’obiettivo, innescando gli ordigni di bordo con micce adeguate, in modo da non farli deflagrare in aria. I palloni «bombardieri» avevano un involucro di stoffa di cento metri cubi e un carico ridotto (per motivi di sicurezza) di circa venti chilogrammi di ordigni. Secondo i calcoli di Uchatius, la fila dei palloni, decollata da Mestre, avrebbe dovuto raggiungere, complice la brezza di Nord-Ovest, la città lagunare in trentacinque-quaranta minuti. Il 2 luglio 1849, venne tentato un primo lancio, ma questo diede risultati assai deludenti in quanto iniziò a spirare dal mare una corrente che rigettò verso la terraferma le «navi volanti». Sballottate dal vento alcune di esse ruppero le funi di collegamento e finirono, dopo un lungo tragitto, nell’entroterra mare. Altre, invece, si adagiarono in acqua, proprio di fronte alla parte Nord della città da dove una folla curiosa osservò il fallimento dell’impresa, commentando in modo molto colorito la «buffonata di Radetzky». Tuttavia, non tutti i Veneziani presero sottogamba quel primo tentativo di assalto dall’aria compiuto dal nemico. Un ufficiale della Repubblica, il maggiore friulano Giuseppe Andervolti, che era un esperto artigliere, rendendosi conto del pericolo che si celava dietro il fallimento austriaco, si diede subito da fare per approntare un’arma adatta a respingere un secondo, eventuale attacco dall’aria. In pochi giorni, Andervolti costruì un razzo «Congreve» (un’arma che la marina inglese aveva già adoperato con successo nel 1811, durante il bombardamento di Copenhagen). Al vettore (un tubo di legno lungo circa un metro e mezzo, riempito di polvere nera e pallettoni, sostenuto da un bastone direzionale di circa cinque metri), il maggiore ebbe l’idea di legare una cinquantina di metri di una fune dotata di arpione in ferro in modo da agganciare e spezzare il dedalo di corde che teneva unite le mongolfiere austriache. Avuta notizia del tentativo di «bombardamento aereo» su Venezia, un altro personaggio non meno eccentrico, l’ingegnere milanese (ma di origini venete) Federico Piatti – a quel tempo in esilio a Londra poiché accusato da Vienna di essere un carbonaro – iniziò a studiare anch’egli un’arma adatta per respingere le mongolfiere austriache. Piatti disegnò nientemeno che un pallone aerostatico «da intercettazione», dotato di lunghe funi con in cima degli ancorotti. Secondo l’ingegnere, il pallone avrebbe dovuto posizionarsi sopra la formazione nemica e arpionare i cavi di collegamento delle mongolfiere, scompaginandone la formazione. Ma per quanto ingegnose, e fantasiose, le contromisure di Andervolti e di Piatti non vennero mai utilizzate anche perché il povero Uchatius – dopo un secondo, fallito tentativo di bombardamento dall’aria tentato il 25 luglio del 1949 – fu costretto ad abbandonare definitivamente il progetto, lasciando all’artiglieria pesante austriaca il compito di piegare Venezia.