La Bandiera
Ricorrenza del 228° anniversario della
nascita del Tricolore
La Bandiera Tricolore è parte fondamentale della nostra ritualità pubblica, come l’Inno di Mameli, come l’emblema della Repubblica composto dalla stella, dalla ruota dentata e dai rami di ulivo e di quercia. Tutti strumenti che designano una radice e un’appartenenza.
Ma il Tricolore è anche l’espressione del nostro Risorgimento, inteso come «risurrezione» della patria iniziata nel 1796, quando l’esercito della Francia rivoluzionaria avviava la campagna d’Italia, ingenerando aspettative che poi sarebbero state in parte disilluse e tradite, ma che in qualche modo avrebbero portato all’unità nazionale. È verosimile che la sua scelta sia stata ispirata dalla bandiera francese adottata nel 1792 con i colori: bianco, rosso e blu; e che l’idea venisse ripresa, nel 1794, dai due studenti, Giovanni Battista De Rolandis e Luigi Zamboni, i quali tentarono una sollevazione contro il potere assolutista, per ridare al Comune di Bologna l’antica indipendenza perduta con la sudditanza agli Stati della Chiesa. La sommossa, nella notte del 13 dicembre, fallì: i due studenti, catturati dalla polizia pontificia, pagarono con la vita il loro tentativo. Zamboni e De Rolandis avevano ideato, come distintivo dei rivoltosi, la coccarda della rivoluzione parigina, cambiandone l’azzurro col verde.[1] Il significato allegorico era comunque lo stesso: un Tricolore come traguardo di un popolo che mirava ad avere Giustizia, Uguaglianza, Fratellanza.
Poi, il 15 maggio 1796 Napoleone, sceso in Italia a capo delle armate francesi, adottò per le Legioni lombarde e italiane il tricolore verde, bianco e rosso. Il 18 ottobre dello stesso anno il Senato di Bologna lo assunse come bandiera rivoluzionaria.
L’anno dopo, a Reggio Emilia, il 7 gennaio 1797, i deputati delle popolazioni di Bologna, Ferrara, Modena e Reggio Emilia, decretavano l’adozione della bandiera che aveva al centro della fascia bianca lo stemma della Repubblica, un turcasso (o faretra) con quattro frecce, circondato da un serto di alloro e ornato da un trofeo di armi, e le lettere «R» e «C», poste ai lati che erano le iniziali di «Repubblica Cispadana». Nasceva così il Vessillo Nazionale, con i colori disposti in tre strisce orizzontali: il Rosso in alto, il Bianco in mezzo, il Verde in basso. Qualche mese dopo la bandiera fu adottata da Bergamo e Brescia e poi dalla Repubblica Cisalpina.[2]
Le sue bande erano disposte talvolta verticalmente all’asta, con quella verde in primo luogo; a volte orizzontalmente, con la rossa in alto e il verde in basso; a cominciare dal 1° maggio 1798 furono poste solo verticalmente, con un’asta a spirale colorata che terminava con una punta bianca. Nella metà del 1802 la forma divenne quadrata, con tre sezioni degli stessi colori racchiusi l’uno nell’altro. Alla caduta del Regno Italico e con la Restaurazione,[3] il Tricolore non fu più vessillo ufficiale di alcuno Stato Italiano, rimanendo però nei cuori di molti patrioti che lo riesumarono nelle ribellioni del 1820-1821, del 1831 e fra i 60.000 Italiani che prestarono giuramento alla «Giovine Italia» di Mazzini, fondata nel 1833.
La bandiera riprese a sventolare, poi, durante i moti del 1848-1849, in quegli Stati Italiani dove sorsero Governi costituzionali. Carlo Alberto, Re di Sardegna, il 4 marzo del 1848 promulgava il famoso Statuto Albertino trasformando il Piemonte da regime assolutistico in regime costituzionale e il 23 marzo, dopo lo scoppio della Prima Guerra di Indipendenza disponeva che le truppe fossero dotate di una bandiera tricolore contenente lo stemma sabaudo (uno scudo con croce bianca su sfondo rosso, orlato d’azzurro).
Dopo avere sventolato in Sicilia fra le truppe garibaldine, fu adottata dal nuovo Regno d’Italia: la legge del 17 marzo 1861 numero 4.671 proclamava ufficialmente la nascita del nuovo Stato e la bandiera tricolore diveniva il suo vessillo nazionale. Il nuovo Stato l’avrebbe conservata fino al 2 giugno del 1946, quando il referendum popolare trasformò lo Stato in Repubblica e tolse dal vessillo lo scudo del Savoia. Da sottolineare che la legge del 17 marzo era stata illustrata tre giorni prima (il 14 marzo 1861) in una seduta del Parlamento di Palazzo Carignano, dal Lucchese Giovanni Battista Giorgini che ne fu il relatore. Giorgini era discendente del patrizio lucchese Giorgio, il cui nome si lega alla storia dello Stato di Lucca nelle fasi precedenti l’instaurazione della Repubblica giacobina. Giovan Battista nel 1846 sposò Vittorina Manzoni, figlia dell’autore dei Promessi Sposi. In quell’anno pubblicò una difesa dei diritti del popolo ebreo e nel ’47 fondò il giornale «L’Italia». Nel 1848 partecipò alla Prima Guerra d’Indipendenza, come comandante del Primo Battaglione universitario pisano. Fu tra i primi a propugnare l’unità del Paese (scrisse in una lettera alla moglie: «l’Italia sarà una, fra naturali confini delle sue Alpi e dei suo mari»). Anche due fratelli, Giorgio e Carlo, parteciparono alle vicende risorgimentali. Giorgio fu comandante dei Presidi di Orbetello e rifornì i garibaldini in viaggio per la spedizione in Sicilia di due cannoni del forte di Talamone. Per tale azione fu incarcerato il 14 maggio 1860, processato e poi assolto per interessamento dello stesso Garibaldi.
Il giornalista lucchese Carlo Paladini, sul suo giornale, «Il Figurinaio», nel 1893 scriveva che la Lucchesia aveva dato più martiri al Risorgimento di tutte le province italiane.[4]
Affermazione esagerata, ma che coglie il punto sul fatto della notevole partecipazione di molti Lucchesi a questa epopea; ricordiamo alcuni nomi di rilievo: Antonio Mordini, Nicola Fabrizi, i fratelli Tallinucci, Giacomo Simoni; a Barga e Bagni di Lucca: i fratelli Borrino di Sant’Andrea di Compito, con le loro Camelie tricolori; nella città capoluogo: la famiglia Cotenna di Monte San Quirico con le sue donne valorose; Enrico Andreini, Luis Ghilardi, Tito Strocchi, Pietro Barsanti; Giuseppe Binda, spia internazionale poco conosciuta a Lucca, dove era nato nel centro storico, in Via San Giorgio, che lottò rocambolescamente durante il Primo Risorgimento. Fu fuggiasco in Inghilterra, dove introdusse nella società londinese l’esule Ugo Foscolo. Fu poi negli USA dove venne nominato Console, con incarichi da svolgere in Italia (a Livorno, dal 1844 al 1859). Diede anche rifugio, nel 1831, in una villa di sua proprietà a Segromigno, al padre di Giosuè Carducci, Michele, ai versiliesi fratelli Bichi e ad altri patrioti vicini alle sette segrete del tempo.[5] Persino dei sacerdoti furono attivi durante gli anni del Risorgimento: l’abate Matteo Trenta, Gioacchino Prosperi, Romualdo Volpi, Francesco Giambastiani, Antonio Giovannetti.[6]
Non dimentichiamo, infine, Giuseppe Andrea Pieri, della zona periferica del Morianese, che addirittura lasciò la testa sotto la ghigliottina francese per avere attentato alla vita di Napoleone III a Parigi nel 1858.
Un’ulteriore conferma della partecipazione lucchese al processo unitario dello Stato verrà anche dal poeta Giosuè Carducci (Val di Castello di Pietrasanta, 1835-Bologna 1907). Figlio del medico carbonaro sopra citato, nella sua poetica troveranno spazio temi ricorrenti di visione laica che esaltano il valore della Patria (in particolare: Levia gravia e Rime e ritmi).
Postumo, Carducci sarà chiamato in causa proprio dall’Onorevole Meuccio Ruini,[7] Presidente della Commissione che aveva redatto il progetto della nuova Costituzione repubblicana, il quale affermò: «La Commissione si pronuncia intanto pel tricolore puro e schietto, semplice e nudo, quale fu alle origini e lo evocò e lo baciò, 50 anni fa, il Carducci: e così deve essere la bandiera dell’Italia repubblicana».
Infatti, proprio un secolo prima, il 7 gennaio 1897 a Reggio Emilia, il nostro poeta di Valdicastello aveva commemorato ufficialmente la Bandiera, nel suo primo centenario, con queste parole: «Sii benedetta! benedetta nell’immacolata origine, benedetta nella via di prove e di sventure per cui immacolata ancora procedesti, benedetta nella battaglia e nella vittoria, ora e sempre nei secoli!». E aveva aggiunto: «Quei colori parlarono alle anime generose e gentili, con le ispirazioni e gli effetti delle virtù onde la patria sta e si angusta: il bianco, la fede serena alle idee che fanno divina l’anima nella costanza dei savi; il verde, la perpetua rifioritura della speranza a frutto di bene della gioventù dei poeti; il rosso, la passione ed il sangue dei martiri e degli eroi!».
Siamo arrivati, così, alla nostra attuale Costituzione, entrata in vigore il 1° gennaio 1948, la quale precisa all’articolo 12 che: «La bandiera della Repubblica è il Tricolore italiano: verde, bianco e rosso, a tre bande verticali di eguali dimensioni». Essa è il simbolo della Repubblica Italiana ed è tutelata dalla legge, che ne regolamenta l’utilizzo e l’esposizione, prevedendo il reato di vilipendio della stessa e prescrivendone l’insegnamento nelle scuole, insieme agli altri simboli patriottici.[8]
Affidiamoci, allora, alla perorazione di Carducci, che seppure retorica ci aiuta a sottrarci a quello scetticismo denigratorio del Tricolore che spesso è arrivato ingiustamente da vari fronti.
Pensiamo, a esempio, alla velenosa penna di un altro letterato toscano, Curzio Malaparte, il quale nel celebre libro Maledetti toscani scriveva che è a Prato dove va il Tricolore insieme alla «gloria, l’onore, la pietà, la superbia, la vanità del mondo».[9] Perché nella città toscana erano destinati a finire tutti gli stracci, poi riciclati: divise militari, vesti regali, abiti papali… e anche la stoffa delle bandiere. Anche un «altro maledetto toscano», Indro Montanelli, fu dissacrante in merito, tanto da scrivere che la nostra Bandiera «doveva unire e invece fu fin dall’inizio un segno di divisione». E ancora: «che la sollevazione di Reggio Emilia, […] non avvenne tanto contro il famigerato Duca Ercole d’Este, quanto contro la sua capitale Modena, che aveva sempre considerato i reggiani come gli abitanti di un borgo di bovari». Insomma, il campanilismo, concludeva il giornalista di Fucecchio (non senza avere tutti i torti), era una caratteristica italiana mai scomparsa. Da un versante opposto, altri hanno manifestato il vezzo di entusiasmarsi solo per cose che escono dall’ambito dell’Italia, e molti sedicenti «di sinistra» abbinano la parola «bandiera» a «Nazione» e sono timorosi di pronunciarne il suono, quasi fosse un sinonimo della parola «fascismo». Non sanno – ma qualcuno dovrebbe loro ricordarlo – che non si dà un solo caso di moderna liberaldemocrazia che non sia nata dentro lo Stato-Nazione e che Mazzini e Garibaldi (che nessuno legge più) sono tra i padri nobili della sinistra italiana, e purtroppo sono stati dimenticati, sostituiti dai tanti leader del Terzo Mondo – da Gandhi a Ho Chi Min, a Fidel Castro – trascurando il fatto che anche loro erano prima di tutto dei patrioti. In ultima analisi occorre rispondere una volta per tutte a questa domanda: «C’è qualcosa di malsano nel voler bene alla nostra bandiera, sempre nel rispetto delle altrui identità statuali con le quali costruire una convivenza civile e un futuro migliore?»
Forse noi Lucchesi siamo meno toscani degli altri, ma più patriottici e, memori delle parole sopra accennate di Carlo Paladini, il direttore del giornale «Il Figurinaio» («La Lucchesia fu la provincia che dette più martiri alla riforma, più soldati a Garibaldi, più discepoli a Mazzini») possiamo rispondere che non c’è nulla di male nel volere bene alla Bandiera Tricolore.[10]
1 Vi è una versione che parla di coccarde tricolori comparse per la prima volta a Genova, in una manifestazione del 21 agosto 1789.
2 Fra le Repubbliche giacobine che sorsero con la calata delle truppe francesi di Napoleone, le più importanti furono: 1) la Repubblica Transpadana, ossia «di là dal Po in direzione delle Alpi», costituita da Napoleone il 19/5/1796, che annetteva il Ducato di Milano e parti della Lombardia Occidentale. Nel 1797 venne inglobata nella Repubblica Cispadana; 2) la Repubblica Cispadana, ossia «di qua dal Po in direzione di Roma», costituita il 30/12/1796, comprendente Bologna, Ferrara, Modena, Reggio Emilia, alle quali si aggiunsero poi la Romagna, la Garfagnana, Massa e Carrara. Nel 1797 assorbirà la Repubblica Transpadana; 3) la Repubblica Cisalpina, ossia «di qua dalle Alpi, in direzione di Roma», costituita il 29/6/1797, che assorbirà la Repubblica Cispadana (con quella Transalpina).
3 Il Regno Italico nasce il 17 marzo 1805, conseguenza della trasformazione imperiale della Francia. Succede alla Repubblica Italiana nata il 26 gennaio 1802. La Restaurazione è la fase successiva alla caduta napoleonica e viene sancita con il Congresso di Vienna del 1814-1815.
4 Carlo Paladini (Lucca, 1861-1922) fu un importante giornalista lucchese, legato alla sinistra parlamentare. Fu anche amico e biografo di Puccini. Si veda anche il mio articolo su Storico.org, Carlo Paladini, un giornalista lucchese impegnato a denunciare la violenza e la discriminazione sociale verso la donna, settembre 2024.
5 Adriano Amendola, Diario di una spia, Skira, Milano, 2022. Su questa rivista online, si vedano i due articoli su Giuseppe Binda scritti da Elena Pierotti: Un ex agente murattiano al servizio della causa nazionale (luglio 2016); Giuseppe Binda, l’uomo di Murat. La vera storia dell’Unità Nazionale (ottobre 2023).
6 Roberto Pizzi, La presenza religiosa nel Risorgimento Lucchese, in Esempi di vita religiosa e civile in Val di Lima nei secoli XVII, XVIII e XIX, Tipografia Amaducci, Borgo a Mozzano, 2018. Natalia Sereni, Palpiti d’amor di Patria a Bagni di Lucca, M.Pacini Fazzi, Lucca, 2011. Gino Arrighi, Romualdo Volpi, sacerdote liberale lucchese, Estratto dal Tomo XI, Nuova (II) Serie degli Atti dell’Accademia Lucchese di Scienze, Lettere ed Arti, Felice Le Monnier, Firenze, 1961. Elena Pierotti, Padre Gioacchino Prosperi. Dalle amicizie cristiane ai valori rosminiani, Tesi di Laurea in Storia Moderna, Università di Pisa, Facoltà di Lettere e Filosofia, Anno Accademico 2009-2010.
7 Meuccio Ruini (Reggio Emilia, 1877-Roma, 1970), fu un politico italiano, Ministro nel 1920 e nel 1944-1945, Presidente del Senato nel 1953 e senatore a vita dal 1963. Il padre lo educò agli ideali della democrazia e del laicismo cari alla tradizione garibaldina e mazziniana. Il 19 luglio 1946 l’Assemblea Costituente inserì Ruini tra i membri della commissione per la Costituzione (la cosiddetta «commissione dei 75», incaricata di redigere il testo della nuova carta costituzionale). Il giorno seguente la commissione lo elesse suo Presidente.
8 La Costituzione Italiana fu il frutto del lavoro compiuto dall’Assemblea Costituente, scaturita dal voto popolare del 2 giugno 1946 (le prime libere elezioni del popolo italiano, dopo quelle del 1924, alle quali ebbero diritto di voto anche le donne).
9 Curzio Malaparte, Maledetti toscani, Vallecchi Editore, Firenze, 1956.
10 Roberto Pizzi, La stampa lucchese dall’Illuminismo al Fascismo, Maria Pacini Fazzi editore, Lucca, 2013, pagina 65.