10 marzo 1872: la morte di Giuseppe Mazzini e
gli echi lucchesi dell’evento
Un itinerario tra storia, arte e società
Il raggiungimento dell’Unità d’Italia non significò la cessazione dell’attività cospirativa di Giuseppe Mazzini, sempre attento al malessere in cui si dibatteva la società italiana. La Nazione era stretta tra un liberalismo non compiuto, tra un separatismo che per colpire la Chiesa aveva sradicato ogni sentimento religioso, tra una scuola mal funzionante e un esercito usato per limitare la libertà dei cittadini, più che per difenderne la sicurezza dall’esterno. L’intenso lavorio rivoluzionario di Mazzini si manifestava mediante due organizzazioni segrete, la «Falange sacra» e l’«Alleanza repubblicana» (poi denominata «universale» per via di alcuni contatti con i repubblicani statunitensi) fondata nel 1866 all’indomani della guerra per il Veneto, con l’intento di sottrarre a una Monarchia, da lui giudicata del tutto estranea alla storia nazionale, il compito di portare l’Italia a Roma. A tal fine, tra il 1867 e il 1868 fu più volte a Lugano dove, ospite della famiglia Nathan, ebbe vari incontri con le ultime leve del suo movimento, in particolare con Siciliani, Napoletani e Romani, ma le trame insurrezionali che tentò di mettere in piedi con le bande armate o con gli ammutinamenti di militari fallirono tutte.
L’11 agosto del 1870, nel suo ultimo sforzo, si mise in viaggio per la Sicilia con la speranza di guidare personalmente l’ennesima rivolta repubblicana, ma arrestato al momento dello sbarco a Palermo, fu rinchiuso nel forte militare di Gaeta dal 14 agosto fino al 14 ottobre, quando fu scarcerato in seguito all’amnistia concessa ai detenuti politici dopo la presa di Roma. Era la fine dell’insurrezionalismo repubblicano, spentosi anche nel fallito tentativo lucchese capeggiato da Tito Strocchi[1] e nel sangue del caporale Pietro Barsanti[2] di Gioviano.
Nei due mesi di carcere, la vera angoscia per Mazzini derivava dal constatare l’inesistenza nel popolo italiano di quell’istinto rivoluzionario che egli si era illuso possedesse.
Prima che l’anno finisse era di nuovo a Londra, da dove nel febbraio del 1871 ripartì per Lugano. Stavolta, però, lasciava l’Inghilterra per non tornarci mai più.
Il 31 maggio venne a Firenze, per deporre una ghirlanda di fiori sulla tomba del Foscolo, le cui spoglie erano state traslate da Chiswick in Santa Croce.[3]
Lo invitarono a Roma, ma non volle andarci per l’amarezza di non vedere la città sotto la bandiera repubblicana. Vagò fra Livorno, Pisa, Milano e poi fu di nuovo a Lugano. Stava male e solo le cure di Bertani gli permisero di passare l’inverno. A un tratto sentì come un richiamo e disse a Sarina Nathan, che lo ospitava, che doveva partire per «l’Italia dei suoi sogni». La donna comprese e non lo ostacolò. Andava a Pisa, da Giannetta Nathan Rosselli, primogenita di Sara, nella sua casa di Via della Maddalena, al numero 38.
Gravemente malato, consumò le residue energie fisiche in una febbrile attività giornalistica pubblicando nel suo settimanale «Roma del popolo» una lunga serie di interventi a difesa delle posizioni – l’antimaterialismo, lo spirito religioso, la lotta all’Internazionale, la dignità dei lavoratori, il principio di nazionalità, la missione dell’Italia – che vedeva sempre più esposte ai colpi dell’anarchismo e del marxismo. Instancabile, continuava a incitare i più fidati tra i suoi collaboratori con lettere scritte adoperando i metodi cifrati appresi al tempo della militanza carbonara e questo gli dava la sensazione che il suo mondo resistesse ancora, che fosse ancora possibile, dettando il Patto di Fratellanza per le società operaie italiane riunite a congresso (novembre 1871), preservare il movimento operaio dalla contaminazione di dottrine provenienti dall’esterno e segnate dal materialismo ateo e dall’odio di classe.
In cerca di un clima più adatto alla sua malandata salute, il 6 febbraio 1872 Mazzini era dunque giunto a Pisa, ospite nella casa di Janet Nathan Rosselli: come ogni rivoluzionario che si rispetti, andava a morire in un letto che non era il suo.
Quando la sua salute sembrava leggermente migliorata, il 7 marzo sopraggiunse una congestione polmonare. Nella tarda mattinata del 10 marzo del 1872 si spense, assistito dal dottor Rossini e da Giannetta Nathan. La notizia della sua morte si diffuse il giorno dopo. Nel nome dell’«apostolo laico» si svolsero, allora, numerose cerimonie funebri in molte località, che videro una grande partecipazione popolare.
Carducci scrisse questi versi:
«L’ultimo
Dei grandi italiani antichi
Il primo dei moderni
Pensatore
Che di Roma ebbe la forza
Dei Comuni la fede
Dei tempi moderni il concetto…
L’Uomo che tutto sacrificò
Che amò tanto
E molto compatì e non odiò mai
GIUSEPPE MAZZINI
Dopo quarant’anni di esilio
Passa libero per terra italiana
Oggi che è morto
O Italia
Quanta gloria e quanta bassezza
E quanto debito per l’avvenire».
Ferdinando Martini[4], docente alla Normale di Pisa, improvvisò un discorso di un’ora e mezzo nell’aula magna e corse in Via della Maddalena dove spontaneamente si raccoglieva la folla. Gli studenti pisani disertarono le lezioni e promossero una manifestazione invano osteggiata dalla polizia.
Francesco Carrara, il grande giurista lucchese, alla morte di Mazzini, si schierò dalla parte degli studenti che, per rendere omaggio all’esule scomparso, avevano fatto chiudere per due giorni l’Università Pisana. Mentre la polizia riapriva a forza l’Ateneo e ordinava al Professore Carrara di salire in cattedra, egli rispondeva sdegnosamente: «Io non faccio lezione ai birri!».[5]
Alla notizia della morte di Mazzini, alla Camera i deputati d’ogni settore si alzarono in piedi, ma Lanza, il Presidente del Consiglio, restò ostentatamente seduto. Vennero Saffi, Quadrio, Bertani, i fedeli epigoni del pensiero repubblicano. La salma imbalsamata dal dottor Paolo Gorini venne esposta al pubblico. Sul suo letto di morte c’era lo scialle a quadretti bianchi e neri che gli aveva regalato Carlo Cattaneo e una fronda d’alloro appuntata sul guanciale. Sul comodino accanto ai libri c’era un mazzo di violette. Il 14 marzo un corteo funebre accompagnò la salma dall’abitazione alla stazione ferroviaria. C’erano tutte le associazioni operaie e artigiane della Toscana con le loro bandiere.[6]
La cronaca del trasporto di Mazzini alla stazione di Pisa venne riportata anche dal giornale lucchese «Il Serchio»[7], nel suo numero listato a lutto del 16 marzo 1872:
«Le vie sono tutte gremite di popolo, le finestre non meno riboccano di signore, le botteghe e i caffè sono chiusi – non s’ode un grido, ovunque è ordine, non v’è nulla che turbi la civile e commovente funzione, il tempo solo si mostra dapprima ingrato, ma poi si calma; e quasi a dare l’ultimo addio al predestinato dal cielo a gloria d’Italia, un raggio di sole spunta, bacia le nere coltri del feretro e fugge.
Il feretro è mosso da due neri cavalli, la sua forma è di padiglione, semplice, ma elegante…
Attorno al feretro stanno Aurelio Saffi – Federigo Campanella – Maurizio Quadrio – Nicola Fabrizi – Benedetto Cairoli – Nicotera – Miceli – Cucchi – Tamajo – Antonio Mordini…»
Erano presenti le due logge massoniche lucchesi (la Balilla e la Burlamacchi) coi loro stendardi.[8]
Vi era la rappresentanza della Fratellanza Artigiana di Lucca, composta anche da Urbano Lucchesi, lo scultore che nel 1890 realizzerà il monumento di Mazzini, in pietra calcarea, posto sul baluardo San Regolo delle mura urbane: il suo nome compare in calce a una dichiarazione della Associazione dei Lavoratori Lucchesi, pubblicata dal giornale «Il Serchio», nel supplemento al numero 11 del 17 marzo 1872, nella quale si protestava contro l’offesa fatta dai clericali del giornale «L’Amico del Popolo» alla memoria dell’appena scomparso Giuseppe Mazzini, che veniva definito un «terrorista», un travisatore della gioventù e un corruttore del popolo.[9]
Sottoscritto da lui e da altri sette associati, un trafiletto diceva: «I sottoscritti delegati della Fratellanza Artigiana di Lucca a rappresentarla in Pisa nel trasferimento della salma dell’Illustre Cittadino Italiano GIUSEPPE MAZZINI, col cuore ricolmo di indignazione protestano, a nome della società stessa, contro la Direzione del giornale “L’Amico del Popolo” per gli insulti triviali e vigliacchi, lanciati contro tanto Uomo; e contenuti nel numero del detto giornale stampato ieri, associandosi così alle proteste di tutti gli onesti contro tanta infamia».[10]
Quando il corteo giunse alla stazione, la cassa di legno d’abete senza simboli venne posata in un vagone parato a lutto. Alle 17,30 il treno speciale mosse alla volta di Genova. L’arrivo a Pisa di tanti esponenti della democrazia aveva fatto temere alla polizia manifestazioni ostili al Governo. «Ma nessuna bandiera rossa è comparsa» riferiva con sollievo il funzionario di turno, «nessun discorso fu pronunciato, né venne emesso un grido di sorta, ed anzi si può accertare essersi conservato da per tutto un silenzio religioso». Mazzini, però, continuava a preoccupare anche dopo morto. Alle 15 del 15 marzo il prefetto di Genova inviava un telegramma al Ministero dell’Interno: «Salma Mazzini arrivata, posta in una sala della stazione dove starà fino a domenica. Non meno di centomila persone». La gente guardava dalle finestre, si pigiava sui terrazzi, si accalcava sui tetti. Il corteo non finiva mai. Non c’erano preti né croci e nessun rappresentante del Governo; c’erano le rappresentanze delle società operaie e delle fratellanze, i labari massonici e le bandiere con decorazioni dei veterani, il partito d’Azione e le camicie rosse. Garibaldi aveva telegrafato che la bara fosse avvolta nella bandiera dei Mille; le navi del porto avevano calato la bandiera a mezz’asta. Il Municipio aveva decretato il lutto cittadino, tutta la città si era fermata. Appena fuori le mura era assiepato il popolo dei borghi e delle campagne. Il corteo giunse a Staglieno solo alle 17 e la bara venne deposta su un piedistallo parato a lutto ai piedi della grande scalinata e gli amici più devoti le fecero corona. Federico Campanella, il più anziano di tutti, venne invitato a pronunziare il discorso ma non riuscì a dire che poche parole. Anche Sarina Nathan tentò di dire qualcosa ma dovette smettere impedita dai singhiozzi. Parecchie signore svennero per l’emozione. All’imbrunire la folla cominciò a sfoltire. Restarono gli intimi che non volevano andarsene.
La morte di Mazzini tenne occupate le prime pagine dei giornali con rievocazioni e interpretazioni dell’uomo. In Inghilterra ebbe un rilievo che nessuno straniero aveva meritato. Non sempre fu facile discernere il commento sincero dall’omaggio di rito. Ma la stampa liberale britannica fu unanime nel riconoscere in lui la tempra del combattente indomito e il profeta della moderna democrazia. Il redattore del «Daily Telegraph», giornale che non poteva essere accusato di simpatie rivoluzionarie, scrisse nel suo articolo di fondo: «Siano i suoi errori, le sue manchevolezze, persino i suoi peccati, quelli che siano: il suo nome è tuttavia destinato a essere sempre ricordato tra i grandi, in un Paese ricco di grandezza». Nel commento del grande storico tedesco Ferdinand Gregorovius era implicito un rimprovero al Paese: «Nonostante i suoi eminenti meriti per la sua patria, Mazzini è sceso nella tomba bandito dal giudizio morale del mondo. Vi è un rapporto tra la sua persona e il Principe di Machiavelli: tutti e due sono stati ufficialmente scomunicati e poi gli altri se ne sono serviti «de facto».[11]
Il mausoleo costruito nel cimitero genovese fu una vera e propria dichiarazione d’intenti: la tomba era divenuta un manifesto di architettura massonica e fu inaugurata il 10 marzo 1874, secondo anniversario della morte. L’effettiva realizzazione rivelò tuttavia come l’intenzione di attribuire al sepolcro una forma piramidale avesse finito per scontrarsi con la particolare conformazione delle balze del colle, se non con problemi strutturali inerenti alla statica dell’edificio. Le proporzioni della tomba costruita non rispettavano affatto quelle contemplate dal progetto iniziale: alla massiccia trabeazione di granito e alle tozze colonne greco-arcaiche non facevano riscontro massi ciclopici, ma un timpano che quasi svaporava nella vegetazione soprastante. Tuttavia dal mausoleo di Staglieno si ricavò lo stesso un messaggio forte e chiaro. Stilisticamente firmato dalla Massoneria, il sepolcro costituiva un marmoreo sigillo dell’appropriazione postuma di Mazzini da parte del Grande Oriente d’Italia (come lo sarà l’uso liturgico del 10 marzo).[12]
Il grande Genovese era stato chiamato a svolgere – e continuò a svolgerlo negli anni a seguire – la funzione del Simbolo: cioè, di ciò che unisce.
Un articolo dell’«Unità italiana e Dovere» così descrive il progetto di sepolcro: «Nella facciata, un architrave di notevoli dimensioni, un monolite di granito sorretto da due colonne di “puro stile greco antico” formanti un peristilio. L’ingresso di “stile egizio”, con sagome severe, e una porta in bronzo lavorato. Inoltre, ciò che costituisce l’aspetto imponente, ed il filosofico concetto che riveste questo ardito Progetto, […] è l’accumularsi di massi ciclopici che si elevano in forma piramidale a coprire il Sepolcro, quasicché questo fosse nella roccia scavato, come costumavasi presso gli antichi Egizii».[13]
Nel cimitero di Staglieno degli anni Settanta del XIX secolo il gusto realista risultava ormai dominante; le forme funerarie tradizionali – cippi, stele, colonne – venivano rimpiazzate da schemi monumentali sempre più articolati e narrativi quando non da scultorei «tableaux vivants». Tutt’altra la cifra stilistica del mausoleo mazziniano: totalmente astratta, puramente ideologica. Le colonne della tomba erano due, come all’ingresso di ogni loggia massonica, per rimando a una leggenda libero-muratoria fra le più antiche: quella, di ascendenza babilonese, stando alla quale una coppia di colonne era servita a preservare i segreti della conoscenza dalla distruzione per opera del fuoco e dell’acqua. La forma del mausoleo doveva essere piramidale, in omaggio al «revival» del gusto egizio che aveva dominato l’architettura funeraria di ispirazione massonica già nella Francia del Settecento, trovando sistemazione teorica attraverso l’opera dell’intellighenzia napoleonica. I massi ciclopici che coprivano il sepolcro, «ombreggiato da salici e cipressi», riecheggiavano il programma della tomba-giardino che la filosofia dei Lumi aveva trasmesso alla cultura libero-muratoria, e che nel bosco di Staglieno disponeva di un ambiente ideale per trasformarsi in realtà.
Negli anni successivi si inaugurò una guerra dei pellegrinaggi fra Italia laica e Italia cattolica: agli itinerari rituali di stampo patriottico presero a contrapporsi quelli di matrice religiosa, alla Roma del culto risorgimentale la Loreto dell’Opera dei Congressi. Divise dalla breccia di Porta Pia, due Paesi parvero volersi misurare (e contare) attraverso la rispettiva capacità di mobilitazione delle folle e di occupazione dello spazio urbano. Entro questa cornice, la notevole partecipazione popolare alle prime cerimonie legate alla morte di Mazzini – la traslazione della salma nel 1872, l’esposizione della mummia nel ’73 – autorizzava a supporre che il cimitero di Staglieno sarebbe divenuto meta obbligata del pellegrinare democratico.[14]
Lucca non si sottrasse ai fermenti dell’unificazione nazionale e all’opera di modernizzazione del Paese e nella sua storia c’era abbondante spazio anche per Mazzini e per le idee repubblicane, che, se non altro per assonanza, erano appartenute al suo passato di libertà e indipendenza.
Nel giornale lucchese «Il Figurinaio», che fu pubblicato dal 1889 al 1895, vi è un articolo nel quale, in polemica con l’amministrazione comunale, si affermava «che la provincia di Lucca fu quella che dette più martiri alla Riforma, più soldati a Garibaldi, più discepoli a Mazzini e che adesso, invece, era alla vergognosa mercé dei clericali».[15]
Le prime notizie di Mazzini si hanno in città, per quel che mi consta, dopo i moti risorgimentali del 1830-1831: il 10 marzo 1834 il console di Lucca a Livorno, invia al suo Governo alcune copie di una circolare di «Giuseppe Mazzini», dopo aver trasmesso il resoconto della tentata sollevazione della Savoia, alla quale aveva partecipato anche Nicola Fabrizi, al quale la polizia austriaca sconsigliava di dare ospitalità.[16]
La mappa provinciale del mazzinianesimo, passa anche tramite la famiglia Cotenna di Monte San Quirico a Tito Strocchi e ci conduce con i suoi legami a Giacomo Simoni di Bagni di Lucca, ad Agostino Togneri e agli altri repubblicani valligiani, incluso il caporale Barsanti, nativo di Gioviano, che visse la sua breve esistenza per lo più a Lucca, dove si era trasferito giovanissimo con la famiglia in Via San Giorgio, dentro le mura. Augusto Mancini ne celebrava la figura nel 1946 a Gioviano, nella piazzetta a lui intitolata dove veniva apposta una targa con l’epigrafe dettata proprio dallo stesso professore mazziniano. Anche l’esploratore Adamo Lucchesi, di Pieve dei Monti di Villa, amò il patriota genovese e finanziò la costruzione di una scuola nel suo paese, alla quale volle fosse attribuito il nome di «Giuseppe Mazzini», in ricordo del suo «apostolato» popolare nella scuola di Hatton Garden a Londra, dove venivano educati i bambini italiani sfruttati da gente senza scrupoli che li impiegava in miseri lavori, per le strade della capitale inglese.
Il 16 marzo 1890 sul baluardo San Regolo delle mura urbane, fu collocato un monumento dedicato a Giuseppe Mazzini, realizzato in pietra arenaria, alto circa sette metri (la base fu disegnata da Augusto Passaglia), scolpito da Urbano Lucchesi.[17]
Il marchese Bottini, direttore-proprietario del giornale cattolico «L’Esare», velenosamente scrisse: «All’inaugurazione del monumento il nostro Comune vi sarà rappresentato? Come farà il Sindaco, che ha giurato fedeltà al Re, a rendere pubblici onori ad un uomo che visse sempre e morì repubblicano?»[18]. L’inaugurazione fu solenne, con la presenza del Sindaco che ringraziò il comitato a nome della città. L’orazione venne tenuta dall’avvocato Almachilde Pellegrini, nome noto fra i repubblicani lucchesi, già volontario nella Terza Guerra d’Indipendenza, il quale, nel suo appassionato intervento, non mancò di rendere omaggio a un grande assente, definito «un caro compagno nel nostro comitato, un amico diretto, rapito troppo presto alle belle lettere […] e alla Democrazia, per la quale combatté e sofferse – Tito Strocchi, il soldato valoroso di Mentana e dei Vosgi»[19].
Il testamento ideologico, morale, religioso che era stato consegnato da Mazzini alla posterità fu negli anni un ingrediente al servizio, anche improprio, delle più varie ricette politiche. Tuttavia, chi in buona fede e onestamente vorrà scrivere la storia di Mazzini nel Novecento non potrà che partire dalla Firenze di inizio secolo, ancora muovendo dall’interno di una casa Rosselli. Là, sotto la guida di una madre dalla forte tempra intellettuale, due bambini – future vittime della violenza fascista – crescevano nel culto di Mazzini e del mazzinianesimo: erano Carlo e Nello Rosselli, figli di Amelia Pincherle e bisnipoti di Sara Nathan. In quella casa si conservava come reliquia un biglietto manoscritto da Mazzini stesso, in cui questi invitava Sabatino Rosselli (il nonno di Carlo e Nello) ad acquistare per lui «50 sacchi della solita merce», vale a dire di armi... La religione mazziniana costituiva il cemento dell’intera famiglia. A ogni anniversario della morte di Sara, i figli e le figlie di lei solevano convenire dai quattro angoli d’Europa per raccogliersi sulla sua tomba del Campo Verano: la data, il 19 marzo, deteneva un significato tanto maggiore in quanto coincideva con il giorno di San Giuseppe, che i mazziniani consacravano non al padre di Gesù ma al venerato maestro. L’indomani, la comitiva familiare dei Nathan-Rosselli si spostava presso la romana Scuola Mazzini, che Sara aveva finanziato a beneficio delle ragazze di umile condizione: giovani allevate secondo i precetti dell’eroe eponimo, secondo il «vangelo» dei doveri dell’uomo. Di Mazzini, Nello Rosselli sarebbe divenuto lo studioso più profondo nel secolo. D’altra parte, proprio la vicenda intellettuale di questo storico dal precoce talento avrebbe finito per illustrare il risvolto più problematico del retaggio mazziniano: la natura di un pensiero che poteva prestarsi a servire ideologie divergenti. Dall’inizio degli anni Venti fino alla tragica morte nel 1937, Nello si sarebbe sforzato di vincolare Mazzini alla causa democratica: «Non il Mazzini della dottrinetta, intendiamoci, ma uno redivivo, fatto corpo e sangue con la realtà incerta d’oggi». Esplicita quanto poteva esserlo sotto il regime fascista, la sua lettura di Mazzini sarebbe stata lettura di sinistra, intesa a dimostrare il contributo dell’agitatore genovese ai progressi del movimento operaio.
Nello Rosselli – l’allievo prediletto di Gaetano Salvemini, richiamato alle armi nel febbraio del 1922, che preparava una tesi di laurea su Mazzini e Bakunin – aveva trascorso in caserma la giornata del 10 marzo, 50° anniversario della morte di «Pippo», toccando con mano l’inossidabile ignoranza dei soldati al riguardo, cui faceva riscontro la diffidenza degli ufficiali regi. Così che, dalla sua guarnigione di Lucca, Nello aveva potuto scrivere alla madre: «Mi fa tanta impressione pensare che oggi è il 10 marzo, anniversario di Mazzini e che son qui, in un ambiente dove nessuno ne parla! Non so; Mazzini è ormai diventato per me tanto “di casa” che mi pare strano che passi il suo anniversario cinquantenario senza sentirne parlare o altro! Ti dirò che avevo proposto (a mezza bocca) un mio conferenzino ai soldati per spiegar loro perché oggi hanno l’orario festivo. Ma... non si può. Forse temevano che non castrassi abbastanza la figura... [...] Ho spiegato a qualche soldato chi era Mazzini e così mi pare d’aver fatto qualcosa!».[20]
Contro le deformazioni e i travisamenti di una storiografia manipolatoria soccorrono Nello Rosselli anche le belle pagine di Luigi Salvatorelli del 1943, in Pensiero e azione del Risorgimento, nelle quali si chiarisce che Mazzini fu suscitatore di energie per un’Italia democratica, non guerriera, né imperialista, ma moderna, libera, rispettosa e solidale con le nazionalità oppresse. Cosa che fa di lui e della sua tensione creativa, come scrive lo storico Roland Sarti, «un uomo per tutti i tempi».[21]
1 Tito Strocchi, nato a Lucca il 26 giugno 1846, fu definito «soldato garibaldino, anima mazziniana». Ammalato di tisi, morì all’età di 33 anni (il 12 giugno 1879). La sua sepoltura fu molto problematica in quanto le autorità comunali negarono il permesso per la sua inumazione nel cimitero urbano. Due famosi uomini di lettere hanno lasciato ai Lucchesi un ricordo di Tito Strocchi: Giosuè Carducci che scrisse l’epigrafe tombale ancora oggi leggibile nel nostro cimitero e Augusto Mancini che volle i suoi versi incisi nella targa monumentale dello scultore Francesco Petroni, apposta nel giugno del 1913 sotto il loggiato del Palazzo Pretorio.
2 Pietro Barsanti (Gioviano, 30 luglio 1849-Milano, 27 agosto 1870).
3 Romano Bracalini, Mazzini. Il sogno dell’Italia onesta, A. Mondadori editore, Milano, 1993, pagina 391.
4 Ferdinando Martini (1841-1928).
5 Francesco Carrara (Lucca, 18 ottobre 1805-15 gennaio 1888).
6 Romano Bracalini, Mazzini. Il sogno dell’Italia onesta, A. Mondadori editore, Milano, 1993, pagina 391 e seguenti.
7 «Il Serchio» era un giornale lucchese repubblicano, fondato nel 1869 da Tito Strocchi e da Enrico Del Carlo, che avrebbe rappresentato tutta la sinistra lucchese, fino alla nascita di un moderno movimento socialista. Si veda Roberto Pizzi, La stampa lucchese dall’Illuminismo al Fascismo, Maria Pacini Fazzi editore, Lucca, 2013, pagina 46 e seguenti.
8 Roberto Pizzi, Mazzini e Lucca, Actum Luce, Istituto Storico Lucchese, Anno XXXV, numero 1, Lucca, marzo 2006, pagina 152 e seguenti.
9 Ibidem, pagina 138. L’autore di queste accuse era stato Lorenzo Bottini, che da giovane scriveva su «L’Amico del Popolo» (poi fonderà e dirigerà per molti anni il foglio cattolico «L’Esare»). Bottini aveva scritto anche nello stesso articolo (incautamente, come ebbe a riconoscere successivamente) che Mazzini «consumò la sua vita nel cospirare: come mezzo ad ottenere il fine, usò il pugnale».
10 R. Pizzi, Squadre e Compassi della Lucchesia intorno all’Unità d’Italia, M. Pacini Fazzi editore, Lucca, 2010, pagina 117.
11 R. Bracalini, Mazzini, pagina 394.
12 Sergio Luzzatto, La mummia della Repubblica. Storia di Mazzini imbalsamato, 1872-1946, Rizzoli, Milano, 2001, pagina 113.
13 Sergio Luzzatto, La mummia della Repubblica, pagine 109-110.
14 Ibidem, pagine 111-112.
15 R. Pizzi, Un percorso tra i monumenti risorgimentali a Lucca, in «Lucca e le Mura – Itinerari del Risorgimento», a cura di Carla Sodini e Romano Silva, M. Pacini Fazzi editore, Lucca, 2012, pagina 107 e seguenti.
16 Nicola Fabrizi (1804-1885).
17 Urbano Lucchesi, nacque a Lucca nel 1844, morì a Firenze nel 1906. Studiò a Lucca e Firenze. Per la sua città scolpì i monumenti di Mazzini, Garibaldi, Cairoli e quello di Piazza XX Settembre, mentre a Viareggio realizzò la statua del poeta inglese Shelley. Concorse al progetto per la statua di Vittorio Emanuele II, opera poi affidata al Passaglia. Realizzò lo stesso soggetto, invece, per la città di Spoleto. Numerosi furono i suoi monumenti funebri. Per la facciata di Santa Maria del Fiore a Firenze, realizzò la statua dell’Apostolo Giuda. Fu amico del repubblicano Tito Strocchi, su consiglio del quale modellò uno dei suoi primi saggi, durante gli studi all’Accademia di Belle Arti di Firenze, sulla figura di Prometeo, «simbolo eterno di quella generosa ribellione contro il tirannico potere» (Enrico Del Carlo, Commemorazione dello scultore Professore Urbano Lucchesi, Lucca, Tipografia Giusti, 1907).
18 Confronta «L’Esare», Cronaca Lucchese – Monumento a Mazzini, numero 17 del 1° marzo 1890. Il comitato promotore per l’edificazione del monumento era costituito da Almachilde Pellegrini, Enrico Del Carlo e Oscar Trivellini. Ce ne dà notizia «Il Progresso» nel numero 27 del 6 luglio 1889, Pel monumento a Giuseppe Mazzini, scrivendo che tale comitato si era costituito il 10 marzo 1890 nei locali della tipografia del giornale «Il Serchio».
19 Almachilde Pellegrini (Lucca, 1835-1899).
20 Sergio Luzzatto, La mummia della Repubblica, pagina 139.
21 Roland Sarti, Giuseppe Mazzini, RCS Quotidiani spa, Milano, pagina 271.