Ilse Koch
La iena di Buchenwald

Il mondo è costellato di figure che, con in mano un potere senza limiti, sono sicure che mai nessuno riuscirà a toglierglielo; e il loro comportamento molto spesso induce a pensare che il loro cervello abbia qualche falla, che sia bacato, insomma, però, alla fine, ciò che compiono, e che non lascia possibilità di ripensamento, è tale che le loro azioni sono tanto aberranti e inimmaginabili da lasciare allibiti e scandalizzati coloro che ne vengono a conoscenza. E la storia non le può ricordare tutte, perché tante passano in cavalleria, come si dice, ma tante altre restano dolorosamente nella memoria, bollate dal marchio della loro cattiveria e della loro malvagità.

Una di queste fu Margaret «Ilse» Köhler, nata nei pressi di Dresden il 22 settembre 1906. Essa fu uno dei tantissimi criminali di guerra che si «fecero onore» durante l’ultimo conflitto mondiale e che lasciarono tristi e indelebili segni nella storia del più grande campo di concentramento tedesco, quello di Buchenwald («Foresta di faggi»), impiantato nel mese di luglio 1937 su una collina ricoperta da un bosco di faggi, appunto, a un tiro di schioppo da Weimar, città della Turingia, nella Germania Occidentale, e che rimase tristemente attivo fino al 1945.

La malvagità di Margaret fu chiaramente espressa nei nomignoli che, nascostamente, le furono appiccicati da coloro che riuscirono a salvare la loro vita dal quell’inferno: «Die Exe von Buchenwald» («La strega di Buchenwald»), «Buchenwälder Hündin» («Cagna di Buchenwald»), «Hyäne von Buchenwald» («Iena di Buchenwald»), «Buchenwälder Schlampe» («Donnaccia di Buchenwald»); forse ne furono coniati anche altri, che però non sono entrati nella storia. Come si nota, pertanto, era considerata sotto diversi punti di vista, ma sempre improntati al sadismo, in maniera del tutto negativa.

La Koch era nata in una famiglia di contadini. Poi, il padre fu nominato caporeparto in una fabbrica e lei, all’età di 15 anni, abbandonata la scuola, vi fu assunta, per diventare successivamente bibliotecaria.

La Germania stava ancora leccandosi le ferite inflittele durante la Prima Guerra Mondiale, che per lei si era conclusa in modo disastroso, con l’umiliazione avuta con il Trattato di Versailles, e aveva enormi difficoltà economiche a riprendersi per avviare un dopoguerra proficuo.

Margaret iniziò a interessarsi dei problemi del suo Paese guardando con occhio speranzoso la crescita del nazismo e iniziando a frequentare gli ambienti militari della SA («Sturmableitung», reparto paramilitare istituito da Hitler fin dal novembre 1921 a protezione dei comizi del partito nazista); e lì – si è fermi ai «si dice» – fu molto generosa nel soddisfare i «desiderata» di molti soldati. Nel 1932 si iscrisse al partito nazista e l’anno successivo votò per la prima volta, naturalmente per Hitler.

Nel 1936, divenne segretaria e sorvegliante nel campo di concentramento di Sachsenhausen, nei pressi di Berlino, dove iniziò a dimostrare quanto la vita umana, degli altri naturalmente, le fosse del tutto indifferente. Il comandante era Karl Otto Koch, un ufficiale delle SS («Schutzstaffel», vale a dire «squadre di protezione»). E il capo della Gestapo («Geheime Staatspolizei», cioè «Polizia segreta dello Stato»), Heinrich Himmler, scelse Margaret quale moglie di Koch, per formare una delle tante coppie modello delle famiglie previste per la Germania nazista del futuro. Karl era divorziato e più anziano di lei di una decina di anni. I due, lui con l’uniforme delle SS e lei con un abito da sera a fiori, si sposarono a mezzanotte in punto attorniati da un folto gruppo di commilitoni muniti di torce.

Fa sorridere il fatto che lui la chiamasse «Pimpf» (un nomignolo colloquiale tedesco per un giovane prepubere) e lei lo chiamasse «Karli», anche perché ciò fa pensare che un fondo di sensibilità e di umanità esistesse in loro, però non per tutti: insomma, facevano una netta distinzione fra esseri umani di categoria A ed esseri umani di categoria B.

Nel 1937, i due si trasferirono a Buchenwald, dove Karl, dopo essere stato promosso colonnello, era stato nominato comandante di quel campo di concentramento e in quel luogo lui divenne presto famoso come «Sadistische Folterknecht» («Sadico Aguzzino») o qualcosa di analogo. Gli internati formavano una massa di circa 240.000 persone di estrazione, cultura, religione, etnia diverse, essendo costituita da politici, prigionieri di guerra, omosessuali, Rom, Ebrei, insomma da tutti coloro che erano malvisti dal regime nazista e che era bene tenere fuori dai piedi. Alla fine della guerra, il censimento fatto sui superstiti disse chiaramente che attorno alle 50 o alle 60.000 persone, di cui a occhio e croce più di 11.000 Ebrei, vi avevano perso la vita.

Lei cominciò a torturare i prigionieri senza limitazioni, avendo il marito come valida sponda. E così, senza alcun ritegno, poté dare libero sfogo ai suoi istinti, dimostrando quanto l’essere umano possa essere iniquo, perverso e scellerato nei confronti dei suoi simili. Nel 1941 divenne «Oberaufseherin» («capo supervisore») del reparto femminile di sorveglianza del campo di concentramento, accrescendo ulteriormente il proprio potere.

Qui giunti, il tenore di vita cambiò in meglio e i due si diedero alla pazza gioia, spendendo e spandendo a piene mani, vivendo in un lusso sfrenato, al quale partecipavano pure i loro tre figli (Artwin, Gisela e Gudrum); e tutti, per lo sfoggio che ne facevano, erano giunti al punto di essere addirittura invisi ai loro amici e conoscenti. Ma da dove proveniva quella ricchezza? La risposta è molto semplice: tutto quanto apparteneva ai prigionieri veniva confiscato e andava a riempire le loro tasche. Basti pensare che nel giro di pochi anni il conto corrente di lui era passato da 600 a 45.000 marchi, mentre quello della moglie da 121 era balzato a 25.000, cifre favolose per quei tempi. Non a caso la loro villa sull’Ettersberg, situata nelle vicinanze del campo, era lussuosa e serviva per impressionare chi la frequentava durante costosissime feste; si dice che perfino Himmler, giunto in visita, ne sia stato colpito.

Margaret obbligava molti dei prigionieri a fare i lavori nella sua ricca abitazione, punendoli se il lavoro non veniva compiuto a modo suo. E non nascose i suoi desideri, facendo cornuto il marito e cornute molte mogli di ufficiali delle SS, attirandosi addosso le loro ire, perché la vedevano come il fumo negli occhi.

Insieme formarono una coppia che ha lasciato una scia di terrore e di morte ovunque passasse; e pensare che addirittura la loro crudeltà fece tanto rumore che le autorità stesse del Terzo Reich ebbero a esprimere, più volte, il disappunto per quel tipo di comportamento perverso e brutale. Però, detto «inter nos», da quale pulpito proveniva la predica!

Lei maltrattava i prigionieri che le passavano vicino, mentre si sgranchiva le gambe con passeggiate mattutine, frustandoli e a volte percuotendoli con una violenza tale che la conclusione non poteva essere altro che la morte dei malcapitati. Si racconta che non avesse nessun rispetto nemmeno per le donne incinte, che faceva aggredire dal suo cane. Ma ciò che lascia perplessi fu il concetto che lei aveva per il suo corpo e delle reazioni che stimolava nei maschi, tanto che ogni volta che giungeva un convoglio con nuovi prigionieri, si mostrava in gonna corta e camicetta trasparente, o reggiseno e pantaloncini, e quindi massacrava di botte o faceva torturare o addirittura uccidere chi osava voltarsi per guardarla: questo è quanto è emerso da più di 1.500 testimonianze.

Ma il colmo della sua aberrazione fu dimostrato dai trofei umani che diligentemente collezionava, per soddisfare la sua passione feticista.

Ha raccontato un superstite di Buchenwald, un certo Herbert Froeboeß, che un giorno particolarmente caldo i prigionieri stavano lavorando a torso nudo. Fra loro era il Francese o Belga Jean Collinette, che esibiva il tatuaggio di un magnifico cobra arrotolato sulla pelle del braccio sinistro, mentre faceva bella mostra si sé un meraviglioso veliero tatuato sul petto. Ilse Koch, passando a cavallo, si fermò incuriosita e interessata a guardare il busto del giovane e si segnò il suo numero di matricola. Alla sera, egli fu chiamato al cancello e non fece più ritorno. Non era una novità che qualcuno sparisse dalla circolazione. Herbert raccontò che dopo circa sei mesi, nel dipartimento di patologia vide un pezzo di pelle riportante la figura del veliero e, più tardi, lo rivide nell’album di una raccolta di fotografie della Koch. La testimonianza di questo detenuto fu contestata dalla difesa, anche se pare che la pelle tatuata, opportunamente trattata, fosse mostrata con orgoglio agli ufficiali delle SS, durante le loro visite.

Comunque, nella sua abitazione erano macabri oggetti, come copertine di libri e di album di foto, guanti e, appesi alle pareti, inquietanti quadri, la cui materia prima era formata da brandelli di pelle umana decorati con tatuaggi; non mancavano paralumi, costituiti dallo stesso macabro materiale, che le fecero meritare l’appellativo di «signora dei paralumi», appunto; inoltre, erano sfacciatamente esibite teste umane rimpicciolite alla maniera dei popoli del Pacifico e del Sudamerica, che preparavano le cosiddette «tsantsa». E non è dato sapere per quale ragione quei brandelli di pelle umana provenissero, preferibilmente, da zingari e prigionieri russi.

A ogni modo, un pizzico di giustizia incominciò a farsi vedere e a prefigurare il meritato destino anche per la coppia.

Era stata diagnosticata a Karl Koch la sifilide e lui si ritenne autorizzato a eliminare il medico Walter Krämer, che gliel’aveva riscontrata, insieme con Karl Peixof, che l’era venuto a sapere. E, nel frattempo, la moglie intratteneva intimamente gli ufficiali delle SS, attirandosi addosso le ire e gli anatemi delle mogli cornificate.

Nel campo di concentramento capitava di tutto e di più: non si contavano i furti, gli incidenti, le morti, le cornificazioni, le vendette, accompagnati da cattiveria e crudeltà contro la natura umana umiliata e violentata.

La situazione era diventata insostenibile a tal punto che, nel 1941, le autorità tedesche decisero di spostare Kal Koch nel campo di concentramento di Maydaneck, a circa quattro chilometri da Lublino in Polonia, mentre la moglie restava a Buchenwald. Egli vi restò per un anno, ma nel 1942 ebbe la disgrazia che 86 prigionieri di guerra russi erano riusciti a fuggire e perciò, per punizione, fu mandato a Berlino per impedire che procurasse altri guai.

Ormai le autorità tedesche non sopportavano più la coppia, per cui il 24 agosto 1943 li arrestarono sotto l’accusa di innammissibile arricchimento, ruberia, appropriazione indebita, ricettazione e omicidi di prigionieri per chiudere loro la bocca. A questo punto si era giunti perché il magistrato nazista Georg Konrad Morgen, avendo sentito voci che circolavano a proposito di un arricchimento inspiegabile dei due, decise di approfondire la conoscenza della cosiddetta «SS-Clique von Buchenwald» («Cricca di SS di Buchenwald») e notò che il conto corrente del comandante – come già ricordato – da 600 marchi era passato a ben 45.000. E non solo, giacché tutti i detenuti, che lavoravano per il campo di concentramento e per l’arredamento della sua casa, erano stati sistematicamente eliminati con la diagnosi di morte naturale, accompagnata da certificati falsi. Nello stesso tempo, l’accusa era ribadita dal responsabile delle SS del territorio di Weimar, Josias von Waldeck-Pyrmont, che nell’elenco dei decessi a Buchenwald lesse il nome del medico Walter Krämer, a lui noto personalmente. Indagò sul caso e riuscì a scoprire che Karl Koch aveva emesso l’ordine di esecuzione, oltre che per Krämer, anche per Karl Peixof, che conosceva la diagnosi della sifilide, con l’accusa di essere prigionieri politici. Josias scoprì subito che il nome dell’assassino di Krämer era Koch, perpetrato per impedire che fosse reso pubblico il suo stato di sifilitico e, approfondendo le sue indagini, venne a sapere che erano tantissime le persone fatte da lui eliminare. Queste accuse furono sufficienti a condannarlo a morte; e così, il 5 aprile 1945, una settimana prima dell’invasione da parte degli Americani e senza ripensamento alcuno, Koch e altri ufficiali delle SS furono giustiziati.

Nel 1944, la moglie era stata rilasciata dagli Alleati per insufficienza di prove e si era trasferita a Ludwigsburg nel Baden-Württemberg, dove riteneva che nessuno la riconoscesse. Ma purtroppo per lei, ci fu chi, durante una passeggiata, la riconobbe, denunciandola alle autorità e il 30 giugno 1945 fu incarcerata dagli Alleati, anche se tentò di dissuadere le autorità dal loro proposito asserendo: «Io sono solo una casalinga».

Si avviò un processo, istruito dal tribunale militare americano a Dachau contro Ilse e altri 30 altri imputati. Le accuse contro di lei riportavano che «aveva partecipato a un piano criminale di aiuto, favoreggiamento e partecipazione agli omicidi di Buchenwald». Ma prima della sentenza, Ilse Koch comunicò di essere incinta di otto mesi, evitando quella condanna a morte che fu comminata a 22 degli accusati; forse il padre era Fritz Schäffer, uno degli accusati, che era riuscito a scavare una galleria per raggiungere la donna nella sua cella. Pertanto, ci fu la condanna all’ergastolo il 19 agosto 1947.

L’anno successivo, il governatore provvisorio del territorio americano della Germania, Generale Lucius Clay, ridusse l’ergastolo a solamente quattro anni di reclusione, con la motivazione che le prove in merito alla selezione dei detenuti per ucciderli allo scopo di prelevarne la pelle tatuata non erano convincenti. E, in netto contrasto con l’opinione pubblica, rimase sulla sua posizione, affermando che non di pelle umana si trattasse, bensì di pelle di capra e, per di più, che le violenze fossero state perpetrate contro Tedeschi e, perciò, al di fuori delle competenze degli Stati Uniti.

Ma gli Americani, sia negli USA sia in Europa, non accettarono di buon grado questa sentenza, tanto che fu istruito a Dachau un secondo processo in un tribunale della Germania Ovest, durante il quale furono ascoltati 200 testimoni, dei quali 50 erano della difesa e 4 dell’accusa. La conclusione fu che, per ordine della Koch, i detenuti aventi la pelle tatuata erano scelti e uccisi e molti ex prigionieri affermarono di aver visto dei paralumi con pezzi di quelle pelli o di aver dovuto partecipare alla loro costruzione. Però, ancora una volta, l’accusa dovette cedere perché non riusciva a stabilire con esattezza la natura della pelle dei paralumi. In ogni modo, il 5 gennaio 1951, Ilse fu condannata di nuovo all’ergastolo e alla perdita permanente dei diritti civili.

Ilse Koch si oppose alla sentenza con un ricorso puntato al suo annullamento, ma il 22 aprile 1952 la Corte Federale di Giustizia lo respinse; diverse volte chiese la grazia, il Ministero della Giustizia di Monaco le respinse tutte e anche la richiesta dell’intervento della Commissione Internazionale per i Diritti Umani ebbe esito negativo: ergastolo era ed ergastolo doveva restare.

Fu incarcerata ad Aichach in Baviera, dove, dopo 15 anni di detenzione, il 1° settembre 1967, si tolse la vita impiccandosi con le lenzuola; era sessantunenne.

È difficile stabilire quanto di vero o di inventato ci sia nella storia della vita di Ilse Koch, comunque resta il fatto che si era trattato di una violenza fra connazionali tedeschi, sicuramente un fatto sconvolgente.

E gli altri componenti della famiglia Koch, che fine hanno fatto? Dei tre figli di Karl e Ilse, nati rispettivamente nel 1938, 1939 e 1940, Gudrum morì nel febbraio 1941 per polmonite, Artwin si suicidò nel 1964, mentre Gisela morì nel 2021. Il figlio concepito quando la Koch era in carcere, era una bambina di nome Uwe Köhler, cognome della madre, che fu affidata alle autorità della Baviera per la tutela dei minorenni. Quando Uwe seppe chi fosse sua madre, l’andò a visitare in cella prima del suo suicidio.

(luglio 2024)

Tag: Mario Zaniboni, Margaret «Ilse» Köhler, Buchenwald, Sachsenhausen, Karl Otto Koch, Herbert Froeboeß, Walter Krämer, Karl Peixof, tsantsa, Georg Konrad Morgen, Josias von Waldeck-Pyrmont, Aichach.