Ada Blackjack
L’arte di sopravvivere
Una vicenda che ha il sapore dell’incredibile è quella vissuta da Ada Delutuk, nata nel 1898, nel remoto centro abitato di Spruce Creek in Alaska, all’interno della calotta polare artica.
La sua etnia era Inuit, popolo artico discendente dai Thule, ma la madre mandò Ada presso missionari metodisti, dove imparò tutto quanto serve a una donna di casa, cioè a tenere pulito l’ambiente, cucinare il «cibo dei bianchi», cucire e, da buona religiosa, leggere la Bibbia, mentre rimase all’oscuro di tutto quanto riguardasse le tradizioni della sua gente. Un insegnamento, che le fu utile in avvenire, fu quello di imparare a cucire indumenti di pelliccia.
Era ancora una ragazza di 16 anni, quando sposò Jack Blackjack. La vita coniugale fu un disastro, essendo il marito un uomo violento, che la picchiava e affamava. Ebbe tre figli, di cui due morirono ancora piccoli, mentre il terzo, Bennet, non godeva di buona salute, essendo malato di tubercolosi cronica. E nel 1921, il deprecabile Jack ebbe il coraggio di abbandonare lei e il figlioletto di cinque anni nella penisola di Seward, costringendola a camminare per 65 chilometri per raggiungere la città di Nome in Alaska. Per poter lavorare, essendo al verde, dovette affidare il figlio a un orfanotrofio, con l’intento di andare a riprenderlo una volta raggiunta una certa tranquillità economica.
E fu allora, era il 1921, che venne a sapere che si stava organizzando una missione in un’isola, nella quale sarebbe stata indispensabile la presenza di una donna che provvedesse a tutto quanto gli esploratori non sarebbero stati in grado di combinare, cioè a fare ciò che lei aveva imparato dai missionari, e per di più che conoscesse l’inglese elementare per potersi intendere.
La spedizione era organizzata dall’esploratore delle zone artiche William Stefansson, originario del Manitoba, una provincia del Canada Occidentale, dov’era nato nel 1869. Egli cambiò il suo nome in Vilhjalmur, per circondarsi di un alone vichingo. Fece molte spedizioni entro il circolo polare artico, soprattutto in zone ancora inesplorate, e si adeguò alla vita dei nativi Inuit, vestendosi, cacciando e mangiando come loro e riportando notizie entusiastiche sulla loro vita. Nel 1820 organizzò una spedizione per trovare l’isola di cui aveva sentito parlare. Henry Kellet, il capitano della nave HMS Herald, cominciò a far dubitare sulla veridicità del contenuto delle chiacchiere di Stefansson, particolarmente quando, fra l’altro, affermò che di avere incontrato un popolo di «Eschimesi biondi», forse discendenti dai Vichinghi di Leif Erikson oppure dai sopravvissuti della disgraziata spedizione capitanata da Sir John Franklin, condotta alla ricerca del passaggio a Nord-Ovest, di cui si erano perse le tracce. Ciò lo rese ridicolo a tal punto da fare dichiarare dal famoso Roald Amundsen che Stefansson era «il più grande “humbug” [imbroglione, truffatore o similari] vivente». Fra il 1913 e il 1916 aveva organizzato una spedizione che si era trasformata in un disastro, che merita di essere raccontato in altra sede.
Nel 1921, appunto, Stefansson stava prospettando l’idea di effettuare un’esplorazione sull’isola Wrangel (Wrangel Island), chiamata dagli indigeni Umkilir (Terra degli Orsi Polari). Quando fu scoperta dagli Europei nel XIX secolo, era disabitata; forse in precedenza uomini vi erano vissuti, anche se non sono state trovate tracce della loro presenza, quando ancora vi vivevano i mammut lanosi e quelli nani, fra il 2000 e il 2500 avanti Cristo, cioè quando nel continente questi erano scomparsi già da 5000 anni.
Si tratta di un’isola dell’Oceano Artico, abbastanza estesa, non molto lontana dalle coste siberiane, che si trova fra i mari della Siberia Orientale e dei Chukchi. Il suo nome è dovuto al barone Ferdinand Wrangel che sbarcò su un’isola, chiamata Herald Island, e da lì disse di averne vista un’altra verso Ovest, che fu definita «Terra di Kellet». Più tardi, nel 1867, il capitano di una baleniera degli Stati Uniti, Thomas Long, avvistò l’isola, senza approdarvi, e la chiamò Wrangel, in ricordo del barone. Nel 1879, ci fu un tentativo da parte di George W. Delong di attraversare l’isola, ma la sua nave incagliò e purtroppo affondò; e nel 1881, finalmente, una spedizione inviata per soccorrere il naufrago Delong, giunse sull’isola, descritta poi da John Muir, e la annetté agli USA.
La sua longitudine è 179° 23’ 5” Ovest ed è sfiorata sulla sua costa orientale dal 180° meridiano, corrispondente al cambio di data, per cui la linea internazionale è stata spostata verso Est, sì da evitarlo, così come avviene nell’autonomo circondario di Čukotka, posto sul continente. La latitudine dell’isola è di 71° 14’ 40” (il circolo polare artico è il parallelo di latitudine 66° 33’ a Nord dell’equatore, a 23° 27’ dal Polo), per cui ha un clima che consente al suolo solamente di essere tundra, cioè quella formazione vegetale caratteristica delle regioni fredde, dove la temperatura media annuale rimane sotto lo zero, rendendo l’ambiente vivibile solamente a erbe basse, funghi e licheni. La fauna caratteristica ha negli orsi polari una numerosa popolazione, che si alimenta di foche, volpi artiche, piccoli trichechi, e cetacei come beluga e lagenorinchi, se li trova intrappolati in aperture nel ghiaccio; abbondanti sono pure i lemming, specie di criceti nordici, che compiono spettacolari migrazioni di massa, quando hanno raggiunto densità insostenibili. E d’estate l’isola diventa un invito a nidificare per molte specie migratrici di uccelli. È circondata dai ghiacci per buona parte dell’anno e venti ciclonici ne spazzano continuamente la superficie.
L’esploratore Vilhjalmur Stefansson, fermamente convinto che i territori entro il circolo polare artico non fossero così inospitali e desolati come si descriveva, bensì – secondo lui – che fossero in un certo senso accoglienti, tanto da definirli appartenenti all’Artico «amico», si proponeva di far annettere l’isola al Canada o alla Gran Bretagna, per farne una stazione aerea per i futuri voli nell’area artica, incurante del fatto che l’isola appartenesse alla Russia. Era suo parere che, essendo l’isola di Wrangel disabitata, il Governo Russo non avrebbe avuto nulla da obiettare: bah!
Così, per finanziare la spedizione, chiese la collaborazione del Canada, ma il Governo preferì lasciar perdere, per evitare l’insorgere di gravi problemi con il colosso russo. Cocciuto, Stefansson si rivolse, allora, al Governo di Sua Maestà Britannica, ma anche qui, la proposta non ebbe il seguito sperato; del resto, il Regno Unito, governato da Giorgio V, di colonie ne aveva più che a sufficienza e non gli interessava un’isola desolata e improduttiva.
Stefansson, però, non se la sentiva più di affrontare ancora una volta le rigide temperature e le difficoltà che si incontrano in luoghi quasi perennemente ghiacciati, per cui si defilò dicendo che doveva partecipare a un ciclo di conferenze. Rifornì i membri della spedizione del necessario e sufficiente – per lui – per sei mesi, assicurando che, essendo l’isola abbondantemente popolata da animali, con la caccia e la pesca se la sarebbero cavata egregiamente, fino a quando, l’anno successivo, la nave sarebbe giunta per riportarli a casa. E affidò loro l’incarico di piantare la bandiera per il Regno Unito.
Nell’impresa era previsto che ci fosse pure qualcuno che provvedesse al soddisfacimento delle necessità del gruppo. Ada Balckjack, giovane e forte, era la persona adatta e la promessa fatta di 50 dollari al mese da percepire al ritorno, più che sufficienti per riprendere il suo bambino dall’orfanotrofio, e la garanzia che ci sarebbero stati altri Inuit nella partita, la convinsero ad accettare.
In quattro, insieme con Ada, partirono il 18 agosto 1921 da Seattle nello Stato di Washington, al confine con il Canada, e giunsero a Nome in Alaska, da dove sarebbero dovuti partire unitamente alle famiglie degli indigeni dell’Alaska, che là sarebbero stati assunti per la spedizione. Trovarono un passaggio su una nave, però al momento della partenza, gli indigeni, ai quali non piacque la destinazione, rifiutarono di salire a bordo, per cui non restò altro da fare che partire solamente loro cinque. Ada era preoccupata per il fatto di trovarsi sola con quattro giovanotti, però il pensiero che con il compenso avrebbe potuto riprendere e far curare il figlio la convinse a partire con loro; per compagnia, portò con sé la gatta Victoria della nave.
Il 9 settembre, com’era stato preventivato, la nave Silver Wave salpò. Il passaggio via mare era aperto e la spedizione giunse senza difficoltà all’isola di Wrangel.
La prima operazione fu proprio quella di piantare la bandiera inglese. Ciò fu riportato dai marinai al loro ritorno, scatenando un brutto caso diplomatico fra il Regno Unito e lo Stato Russo, che sicuramente merita un’eventuale trattazione in altra sede.
I cinque si organizzarono nel migliore dei modi possibili. Sopravvenne la notte polare il 21 settembre e la temperatura, faticosamente affrontabile, oscillava fra -48 e – 56° C. Le scorte finirono alla svelta, per cui il gruppo si adoperò per catturare selvaggina e pesci in quantità sufficiente per sopravvivere. Le difficoltà non si fecero attendere, anche perché la selvaggina non era tanto abbondante quanto aveva preventivato Stefansson. Si sfamarono con la cattura, sempre difficoltosa, di pesci, foche, volpi, uccelli; alla mensa riuscirono ad aggiungere anche qualche orso polare che, contro la sua volontà, regalava loro la sua pelliccia. Non mancarono antipatiche discussioni, rimbrotti, lamentele: del resto le giornate trascorse in tenda erano lunghe e i nervi spesso erano a fior di pelle, anche perché l’inverno fu accompagnato da bufere di neve che rendevano quasi impossibile uscire per cacciare, però si sopravviveva.
Ogni tanto, Ada era presa dalla nostalgia per il figlio, ma considerando che con il denaro guadagnato lo avrebbe potuto abbracciare dopo un anno, si rincuorava e lavorava con maggiore lena. E il lavoro la distraeva, quando preparava cibi caldi per gli affamati esploratori e cuciva per loro abiti caldi, usando le pelli e le pellicce degli animali cacciati, foche, orsi o uccelli che fossero.
Il tempo passava inesorabilmente e, giunta l’estate del 1922, il gruppo, stanco di quella vita stentata e desideroso di tornare in un Paese civile, iniziò ansioso a scrutare il mare, nella speranza di vedere una nave avvicinarsi alla sponda, ma niente da fare.
Loro non potevano saperlo, ma era successo che Stefansson, non avendo fondi sufficienti per inviare una nave, dovette rivolgersi al Governo Canadese, perdendo tempo prezioso, tanto che solamente il 20 agosto, per quelle latitudini stagione inoltrata, la goletta Teddy Bear, che doveva prelevarli, poté salpare le ancore. E infatti, come previsto, i ghiacci la intrappolarono: così questa, dopo essersi faticosamente liberata, fu costretta a tornare indietro. Che lo sapessero o meno, in ogni modo, non cambiava nulla, e quando a ottobre si resero conto che nessuno sarebbe più stato in grado di raggiungerli, si rassegnarono ad affrontare il nuovo anno d’inferno artico che era alle porte.
A Nome, Stefansson disse, con tutta la sua tranquillità e – perché no – con la sua incoscienza, a stampa, parenti e amici che i cinque se la sarebbero cavata benissimo e che avrebbe recuperato il gruppo l’estate successiva.
E proprio al contrario di come aveva preventivato lui, ai primi del 1923, in pieno inverno, la situazione era divenuta drammatica, essendo esaurite le scorte di cibo. Ne parlarono fra di loro e giunsero alla conclusione che quanto si poteva raggranellare cacciando in giro non sarebbe bastato per tutti. E, come se ciò non bastasse, Lorne Knight si era gravemente ammalato di scorbuto, cioè soffriva di mancanza di vitamina C, mentre Ada ne cominciava a sentire i sintomi.
Sinché, dopo una lunga e burrascosa discussione, si arrivò alla decisione che, per affrontare e risolvere con un minimo di speranza la disgraziata situazione, i tre giovani sani sarebbero partiti nel tentativo di raggiungere Capo Est in Siberia, attraversando 1.127 chilometri del Mare di Chukchi, non appena la banchisa fosse ingrossata a sufficienza per sostenere il peso della slitta di 300 chilogrammi, di loro tre e dei cinque cani, e quindi da qui di inviare i soccorsi, lasciando Ada a curare e a tenere in vita Lorne. Del resto, era improponibile pensare di partire tutti insieme, trascinando il compagno in quelle condizioni, con il rischio di farlo morire durante il viaggio. Lei era terrorizzata, anche perché l’ammalato la trattava come una serva, però il buon senso le consigliò di restare. Così, i tre partirono, con una temperatura inferiore ai 50° sotto zero. Secondo loro, il viaggio sulla banchisa sarebbe durato dai due mesi ai due mesi e mezzo. Sciaguratamente, di uomini, cani e slitta non si seppe più nulla.
Ada, da brava donna di casa, fece tutto quello che poté, sopportando maltrattamenti, improperi e parolacce, si adoperò per tirare avanti, curando Lorne, nutrendolo, scaldando la sabbia per farlo alzare in piedi, facendo in modo che non si formassero piaghe per decubito ruotando i sacchi d’avena che servivano da materasso, pulendolo e svuotando la padella, insomma facendo tutto quanto è possibile per alleviare le sofferenze di un infermo che resta coricato tutto il giorno e facendo finta che tutto quanto il malato diceva non fosse altro che un rumore molesto. Del resto, pure lei soffriva per i dolori e la debolezza che l’inizio dello scorbuto le procurava.
E per avere a disposizione selvaggina, imparò a usare le armi e ad andare a caccia; andò a pesca e raccolse tutto ciò che poteva servire per cuocere il cibo e per scaldarsi. Fu una brava e solerte donna di casa, ma Knight, il suo ultimo compagno di sventura, malgrado le sue amorevoli cure, peggiorò e il 23 giugno morì, lasciandola sola con la gatta. La dipartita del giovane fu scrupolosamente riportata nel suo diario.
Non ebbe la forza di seppellire il compagno di sventura, per cui preferì lasciarlo nel suo sacco a pelo, protetto con delle casse, per evitare che il suo corpo attirasse animali saprofagi, e si ritirò nella tenda delle scorte, fino a quando c’erano state, rappezzandone e chiudendone in qualche modo le lacerazioni per proteggersi dal freddo. Il suo impegno era tutto puntato al suo ritorno dal figlio, per cui con coraggio e determinazione riuscì a sopravvivere. Ogni giorno andava a caccia e a pesca, e teneva alla larga i famelici orsi bianchi: era diventata provetta nell’uso delle armi, che le consentirono di sopravvivere e tornare nel mondo civile. Da piccola nativa imbranata, era diventata una vera cacciatrice e una brava pescatrice, capace di opporsi a ogni avversità. Per tenere sott’occhio gli orsi polari, si era costruita una specie di piccola torre di avvistamento sopra la tenda, da cui li teneva alla larga sparando qualche colpo di avvertimento. Che fosse diventata brava in tutto lo dimostrano, fra l’altro, i suoi tentativi di usare la macchina fotografica, riuscendo a trarne qualche foto, e il diario scritto con la macchina da scrivere di Galle.
Dopo aver superate diverse difficoltà, finalmente Stefansson riuscì a raccogliere il denaro sufficiente per inviare la nave Donaldson, capitanata da un avventuriero suo pari, Harold Noice, all’isola di Wrangel, insieme con un dozzina di Inuit e un bianco, da lasciare sull’isola a sancire la sua occupazione. Era il 2 agosto 1923.
Ada, tutti i giorni passava qualche ora a scrutare il mare dalla sua torre di avvistamento, sperando di vedere una vela all’orizzonte, finché il giorno 20 il suo sogno divenne realtà: il rumore che, inizialmente, aveva ritenuto fossero causato da un branco di trichechi, era quello di un motore. La gioia fu talmente grande, che non aspettò nemmeno che la scialuppa arrivasse a terra, per andarle incontro nell’acqua bassa. La speranza di vedere i tre compagni che l’avevano lasciata l’estate precedente andò delusa, e il sorriso le si gelò sulle labbra; ma andò pure delusa la speranza di Noice, che riteneva che gli stessi fossero ancora sull’isola. Pertanto, non restava altro da pensare che i poveretti e i loro cani non fossero sopravvissuti all’inferno dell’inverno artico e che Ada e la sua Victoria fossero gli unici superstiti della spedizione. Ada, sopraffatta dall’emozione e dal dolore, si gettò piangendo nelle braccia di Noice, che finse di nascondere le lacrime.
L’equipaggio fu sbalordito nel vedere la giovane Inuit abbastanza in forma e con un parka, che si era cucita da sola con pelli di renna, e si dimostrò ammirato per ciò che Ada aveva affrontato per sopravvivere e in che maniera, tanto che fu unanime il parere che la giovane sarebbe stata in grado di resistere ancora su quell’isola abbandonata dal mondo, se pur in difficoltà per essere sempre sola. E in effetti, la poveretta era stata costretta a far fronte ad avversità tali che, forse, poche persone riuscirebbero a superare.
Al ritorno, quando furono diffuse le notizie della disastrosa fine della spedizione e del salvataggio di Ada e di Victoria, lei si trovò al centro mondiale della curiosità della gente e delle attenzioni da parte della stampa, tutti ammirati dal coraggio dimostrato e dalla velocità con cui aveva appreso e messo in atto.
E come capita quasi sempre, c’è sempre qualcuno che approfitta di quanto è capitato ad altri e ne fa una fonte di reddito. In questo caso, quel qualcuno non poteva essere che il nostro Stefansson (con la compagnia di Noice), il quale cominciò con lo scrivere articoli per i giornali e pubblicò il libro The Adventure of Wrangel Island, i cui proventi, in parte, erano destinati ad Ada; anche questa fu una promessa non mantenuta, malgrado tutte le pubblicazioni avessero fatto confluire nelle sue tasche parecchio denaro.
Furono molti coloro che condannarono l’impresa organizzata da Stefansson, senza parteciparvi, mandando allo sbaraglio quei cinque giovani inesperti esploratori; lapidario fu il commento della rivista «Saturday Night»: «La tragica follia dell’intera impresa». Però, come «Ercolino sempre in piedi», Stefansson superò pure questo, facendo, almeno in parte, dimenticare i suoi misfatti, fino a quando nel 1962 lasciò questo mondo.
Ada si trasferì a Seattle con il figlio Bennet per farlo curare. Qui si sposò con un certo Johnson, dal quale ebbe un altro figlio, Billy, e dopo aver divorziato tornò in Alaska. Qui, essendosi pure lei ammalata di tubercolosi, dovette separarsi dai suoi figli, mettendoli in una casa per bambini a Seward in Alaska, da dove li riprese dopo nove anni.
Nel 1937, si trasferì a Nome con loro, dove si guadagnò da vivere allevando renne, raccogliendo frutti e verdure e sfruttando ciò che aveva imparato nell’isola di Wrangel, cioè a cacciare e pescare. Il figlio Bennet non guarì mai e nel 1972 morì di infarto all’età di 58 anni.
Mentre Stefansson e Noice intascavano denaro per l’impresa di Ada, lei non ebbe mai un soldo dai racconti venduti dai due e viveva in una povertà dignitosa. Il suo unico desiderio era semplicemente di essere dimenticata e lasciata in pace.
Dello stesso avviso non fu il figlio Billy, che per anni si adoperò per ottenere un riconoscimento da parte dello Stato dell’Alaska del coraggio dimostrato dalla madre nell’affrontare le difficoltà e i pericoli che si incontrano giorno per giorno nelle zone artiche, e anche per ricordare la gratitudine doverosa verso le tante persone inuit che erano assunte per compiere tutto quanto i bianchi si rifiutavano di affrontare in prima persona. Lo Stato riconobbe che Ada era stata una «vera e propria eroina», ma Billy non poté goderne, purtroppo, perché era morto da appena un mese.
Ada morì il 29 maggio 1982, in una casa di cura di Palmer in Alaska. Sulla sua tomba, nel cimitero di Anchorage Memorial Park, a fianco di quella di Bennet, una targa, posta dal figlio Billy, riporta la scritta: «L’eroina dell’isola di Wrangel».
A distanza di un secolo, comunque, il ricordo di quell’eroica Inuit non è del tutto affievolito.