Il Tempio di Salomone nell’antica Gerusalemme
Una storia complessa governata da molti
dubbi e da importanti conferme
Il lungo conflitto fra lo Stato d’Israele e l’oltranzismo di Hezbollah, diventato guerra a decorrere dal 7 ottobre 2023, ha attirato nuove attenzioni sulla difficile condizione del Vicino Oriente, resa ancora più ardua con lo scorrere del tempo, a fronte della sostanziale impossibilità di trovare una via d’uscita di comune soddisfazione. L’assunto è palesemente confermato dalla crescente antitesi fra il mondo israeliano e quelli circostanti, in essere dall’ormai lontano 1948, e suggellata dalla grave incapacità manifestata dalle Nazioni Unite nel promuovere una soluzione sia pure compromissoria. In questa congiuntura ormai «cristallizzata» ma aggravata dalla ricerca di uno sbocco conflittuale comunque precario e verosimilmente transeunte, la storia plurimillenaria del comprensorio è idonea a offrire qualche esempio di oculata saggezza nella gestione del potere e nell’arte di governo, tanto più apprezzabile in tempi di assolutismo consolidato da una fede che si potrebbe definire granitica.
Da questo punto di vista, un periodo esemplare è costituito dall’epoca di Salomone, che si colloca a quasi mille anni dalla comparsa di Gesù Cristo sulla scena di un mondo ancora primordiale, e dall’avvento di una rivoluzione umana e civile davvero senza precedenti.
L’opera di Salomone assunse caratteri straordinari, se non altro sul piano della giustizia, come attesta l’episodio delle due madri che disputavano circa il reciproco diritto ad avere l’affidamento di un unico bambino, inducendo la decisione del Sovrano, apparentemente assurda, di dividerlo a metà fra le pretendenti. Tale determinazione ebbe la conseguenza di provocare la reazione disperata della vera madre che pur di salvarlo avrebbe accettato di lasciarlo alla rivale: fatto sufficiente a promuovere la «sentenza» di Salomone a favore della genitrice legittima, con una decisione destinata a sfidare secoli e millenni quale esempio di saggezza e – come da felice espressione hegeliana dei tempi moderni – di «astuzia della ragione». Ecco un episodio che mette in luce, oltre a queste doti del Sovrano, la sua popolarità e la sua capacità di risolvere questioni importanti con un colpo di genio.
Come si chiarirà in seguito, l’esistenza di Salomone è stata messa in dubbio da varie fonti. Nondimeno, un episodio come quello del bambino disputato tra vera e falsa madre, affidato alla memoria d’innumerevoli generazioni, fa pensare – comunque sia – al ruolo di un protagonista illuminato, e come tale, capace di conferire al mondo israelita una «leadership» idonea a progredire nella cura del poco e del molto: da un lato, la giusta soluzione per il piccolo da affidare alla vera madre, e dall’altro, la costruzione del grande Tempio in onore del Signore.
Nel Primo Libro dei Re, un capitolo molto importante è dedicato, per l’appunto, alla costruzione del Tempio di Salomone[1], iniziata nel quarto anno del suo Regno, da collocare secondo le fonti prioritarie nel 967 avanti Cristo, quando l’uscita dall’Egitto si era compiuta da 480 anni: fu una «pietra miliare» nella storia di Israele, ma nello stesso tempo, un’occasione straordinaria per celebrare la gloria del Signore proprio attraverso la pietra, per non dire dell’enorme impegno professionale, tradottosi – alla luce di dati certamente incontrollabili – nell’impiego di 80.000 scalpellini destinati ai lavori di escavazione, e di 70.000 trasportatori (Primo Libro dei Re, 6, 2-27), per non dire dei 30.000 operai adibiti all’edificazione della struttura. Queste cifre, anche a prescindere da errori programmati, fanno presumere che si sarebbe trattato di un vero e proprio esercito, ma bisogna considerare che nell’epoca in parola almeno il problema dei costi assumeva rilevanza minima grazie al lavoro degli schiavi.
La Scrittura aggiunge che, sin dal momento estrattivo, la qualità fu oggetto di attenzioni specifiche, perché i blocchi erano di grande dimensione e «tra i migliori» (Primo Libro dei Re, 6, 2-31), come si conveniva a materiali che avrebbero avuto un ruolo strutturale (seppure non disgiunto da quello decorativo) già nella realizzazione del muro con «tre ordini di pietre». Ciò significa che esistevano qualità alternative e che quelle impiegate per il Tempio dovevano essere di prima scelta, tanto più ardua, considerando che la prassi estrattiva dell’epoca non poteva contare su tecnologie avanzate, esaltando necessariamente la priorità della manodopera.
Un dettaglio molto importante riguarda la squadratura delle pietre, praticata direttamente in cava con l’antica arte della sabbia e del mazzuolo, in guisa che «nella costruzione del Tempio si usarono masselli ben rifiniti» e che nel cantiere non si poteva udire «né martello né piccone né altro strumento di lavoro» (Primo Libro dei Re, 6, 6-7). Anche questo è un aspetto di evidente rilevanza non soltanto tecnica, perché presume una preparazione ottimale del grezzo e la posa altrettanto irreprensibile degli elementi costruttivi riquadrati alla perfezione.
Su questo punto, l’esegesi della Scrittura è chiara, nel senso che non si voleva assumere un atteggiamento sia pure marginalmente non rispettoso nei confronti del Signore, ma s’intendeva qualificare il Tempio, sin dal suo primo innalzamento, come luogo dedicato a una meditazione operosa e come simbolo di elevazione spirituale attraverso il lavoro: uno spunto che vale la pena di porre in evidenza, anche in chiave di attualità. Del resto, il ruolo della pietra nell’architettura religiosa è una costante che ricorre con singolare frequenza: si pensi, per dirne una, all’immaginifica definizione del Duomo di Modena come «Bibbia di pietra», che Gianluigi Zucchini volle darne nei suoi Luoghi dell’Infinito.
Oggi, il ricordo di quella straordinaria impresa nella mitica Gerusalemme dei primordi è legato soprattutto all’enorme impegno di manodopera di cui si diceva e che, prescindendo da ogni possibile e più che probabile sovrastima, è certamente congruo alla luce della tecnica manuale, applicata in tutte le fasi del processo produttivo e costruttivo. Impegno, va da sé, di fatica e di sacrificio, oggi inimmaginabili, in specie per quanto riguarda la schiavitù dei non Israeliti, ma avallato da un atto collettivo di fede e di speranza: quelle stesse virtù che, secondo la profezia biblica di Ezechiele, toglierebbero dal petto degli uomini «il cuore di pietra» per trapiantarvi quello di carne, e con esso, uno spirito nuovo.
Secondo le fonti rabbiniche, la costruzione del «primo Tempio» ebbe inizio nel 967 avanti Cristo e si sarebbe completata nel breve volgere di sette anni, per essere distrutto intorno al 620 avanti Cristo, e ricostruito al termine dell’esilio babilonese assumendo la definizione di «secondo Tempio». L’attività «governativa» di Salomone, sulla cui reale esistenza – come si diceva in premessa – le fonti sono discordi, resta comunque fondamentale per avere costruito un’opera di fede e di omaggio alla divinità che non era nuova ma che si faceva concreta in una grande manifestazione visibile, e quindi a misura d’uomo, nell’architettura del Tempio.
Era stato Davide, padre di Salomone assieme alla madre Betsabea, a creare un’adeguata riserva di materiali, in specie di granito, poi potenziata dal figlio con l’aiuto di esperti costruttori, e con tutte le necessarie attenzioni per l’approvvigionamento dei materiali di supporto, in primo luogo dell’acqua, con la predisposizione di grandi cisterne. Lo stesso Davide, secondo alcune tradizioni, avrebbe lasciato grandi riserve di oro e di argento, nella misura di 5.000 tonnellate d’oro e 30.000 d’argento (cifre certamente sovrastimate se non altro alla luce delle reali potenzialità estrattive dell’epoca, e da interpretarsi alla luce di un adeguato omaggio al Signore anche sul piano visivo). Del resto, non si tratta dei soli numeri incompatibili con la «realtà effettuale» che sono altrettanto sovrastimati anche per la manodopera, per cui si vide – come detto – un largo impiego di schiavi appartenenti ad altri popoli, diversamente da quanto accadde per gli Israeliti, che non furono mai addetti ai lavori forzati. Nondimeno, i turni erano organizzati in maniera da assicurare a tutti adeguati periodi di riposo: cosa che attesta, se non altro, le attenzioni per un’oculata gestione del fattore umano, che verosimilmente non era così alto, come evidenziato nelle citate notizie bibliche[2].
Salomone, o chi per lui, nel realizzare il «primo Tempio» ebbe certamente fretta, come testimonia il breve periodo dei lavori. Ciò si deve attribuire alla necessità di corroborare la fede dei sudditi anche attraverso un’iniziativa in grado di integrare la preghiera e di potenziare il «pensiero unico» che fu carattere prioritario di un popolo già propenso a osservare i canoni essenziali della religiosità primigenia. La fretta in parola fu tanto più ragguardevole alla stregua di una tecnica costruttiva che oggi si dovrebbe definire primordiale: a esempio, per la giunzione degli elementi architettonici non furono usate malte, né tanto meno collanti. Eppure, la consacrazione al termine dei lavori sarebbe intervenuta nel giro di tredici anni, tempo pressoché doppio rispetto a quello utilizzato per la costruzione, quasi a voler esprimere particolari attenzioni nella predisposizione del percorso rituale, e nell’acculturamento religioso del popolo.
Per quanto riguarda l’esistenza storica di Salomone, conviene aggiungere che gli scavi moderni e contemporanei, condotti con ampie disponibilità e mezzi assai avanzati, non hanno avuto conferme probanti, pur alimentando notevoli interpretazioni «massimaliste» accanto a quelle «minimaliste». In ogni caso, la storia del Tempio presuppone l’esistenza di una mano sovrana in grado di governare attivamente e compiutamente la progettazione e la realizzazione di un’opera destinata a sfidare i secoli e nello stesso tempo, a ottimizzare la fede popolare, e con essa la continuità di un potere israelita certamente competitivo nei confronti di quelli altrui.
Non mancano riflessioni molto recenti circa la tarda maturità di Salomone, e la possibile attribuzione del Libro del Qoélet, se non altro in parte, alle sue ultime riflessioni. Le apparenti contraddizioni con il precedente attivismo che andrebbero «prese sul serio» alla luce di talune nuove ricerche italiane molto avanzate[3], attestano, in conformità al pensiero d’ispirazione tradizionalista, come l’antico Sovrano avesse finalmente compreso che «tutto è vanità», riconsiderando la sua stessa forza simbolica, il suo straordinario potere, e la sua invidiabile ricchezza. In termini precristiani, ecco una sorta di «conversione» che appare in grado di conferire a Salomone una dimensione assai umana, anticipatrice di tante altre successive, e di proporne una lettura conforme alla realtà spirituale di chi avverte, in dirittura d’arrivo, la priorità del Dio «che atterra e suscita» di manzoniana memoria, sempre assoluta, a prescindere dallo scorrere dei secoli e dei millenni.
1 Stando alle notizie storiche, e più spesso mitologiche, basate quasi esclusivamente sulla trasmissione orale, Re Salomone (1011-931 avanti Cristo) fu il terzo Sovrano di Israele, regnando per circa un quarantennio fra il 970 e l’epoca della morte. Alla scomparsa del padre Davide, s’impose con la forza sul fratello maggiore Adonia, inaugurando una gestione assoluta ma, per quanto possibile all’epoca, relativamente moderata del potere, e delegandone l’esercizio locale a dodici prefetti. Avrebbe avuto circa 700 mogli e 300 concubine, generando molti figli anche da donne di altre fedi, e disattendendo l’imperativo del Signore che per ben due volte gli aveva comandato di «non avere altri dèi». Il suo Regno, come tanti altri di varia presenza geografica, compresi quelli Israeliti, fu naturalmente assolutista; tuttavia, si sarebbe caratterizzato per la straordinaria saggezza del Monarca, diventata proverbiale, e tanto più apprezzata perché secondo la tradizione biblica scaturiva direttamente da Dio (Primo Libro delle Cronache). La sua discendenza, sia pure per vie collaterali, fu plurimillenaria, tanto che l’Imperatore Etiope Hailé Selassié, al secolo Ras Tafari Makonnen, incoronato ad Addis Abeba nel 1930 quale ultimo «Re dei Re», sarebbe stato il 225° erede dello stesso Salomone.
2 Il fatto che il «primo Tempio» costruito per iniziativa di Salomone, o chi per lui, abbia avuto una tempistica di realizzazione oggettivamente contenuta, e tanto più rilevante a circa un millennio dall’inizio dell’Era Volgare, trova conferma di eccezionalità nel constatare che il Tempio di Erode, costruito proprio agli albori dell’epoca cristiana, e quindi mille anni dopo, avesse richiesto 46 anni di lavoro, e solo per opere di ampliamento del «secondo Tempio».
3 Per un’interpretazione coraggiosamente innovatrice circa la possibile esperienza etica e storica dell’ultimo Salomone, si rinvia alle opere e alle riflessioni di Brunetto Salvarani, docente di Missiologia e Teologia del Dialogo ecumenico presso la Facoltà Teologica dell’Università di Bologna. Ne emerge una figura certamente più complessa rispetto a quella proposta dalle fonti maggioritarie, che d’altro canto aderisce a documentati interessi alternativi come quelli per la realizzazione di un Tempio molto impegnativo anche sul piano tecnologico, una vita sociale assai variegata, e le attenzioni per la realtà ultraterrena, diventate probabilmente assolute in tarda età.