Siracide
Ruoli della pietra alla fine del Vecchio
Testamento. Accoglienza della virtù e rifiuto del vizio nel
segno della Fede e dei valori civili
Le Sacre Scritture sono un’autentica miniera di riflessioni sul ruolo della vita umana quale esperienza di elevazione spirituale e di servizio per il bene comune, e che in diverse occasioni si avvalgono della pietra, non necessariamente di pregio, ma sempre idonea a trarne spunti non effimeri per suffragare il percorso comunitario verso valori universali, la cui attualità prescinde dal tempo e dallo spazio. In questo senso, la pietra diventa strumento di progresso umano sulla via della virtù e dell’ordine civile.
Non fa eccezione il Libro Biblico di Siracide[1] che figura tra gli ultimi del Vecchio Testamento e che, al pari di altri, si affida spesso ai richiami del materiale lapideo, tra i più antichi nella storia umana, sulla scorta di quanto era già avvenuto molto tempo addietro nel caso delle mitiche «dodici pietre» (Giosuè, 4, 1-23) che erano tutte di ampia dimensione, e che avevano per scopo e significato principale quelli di rammentare alle future generazioni come agli antenati fosse stato concesso di attraversare il Giordano «a piedi asciutti» per grazia del Signore, sulla falsariga di un evento precedente ancora più clamoroso, il passaggio del Mar Rosso.
Altrettanto importante è il riferimento alle 33 vittorie ottenute con l’aiuto del Signore in altrettanti confronti con popoli e Sovrani contigui (Giosuè, 12, 2-34) onde rendere possibile l’acquisizione della Terra Promessa, quella di Canaan, e più facile l’approccio alle migliori comprensioni e condivisioni di norme o consuetudini del comportamento, condivise da tutti gli Israeliti nell’ambito di un comune e stabile assunto etico, sebbene non avulso da una coesistenza molto competitiva con i popoli viciniori, e da grandi sacrifici in primo luogo umani, sempre consapevoli in campo israelita, che essa necessariamente comportava.
È il caso della «disciplina», un valore con cui il vero uomo si confronta sin dalla giovinezza, mentre chi è senza coraggio «non ci resiste: per lui peserà come pietra di prova, e non tarderà a gettarla via», mentre utilizzando bene il dono della sapienza quale pietra «che mette alla prova» sarà possibile emergere a ragione nella struttura pubblica, e persino di regnare per sempre al vertice della società (Siracide, 6, 20-21). Quella pietra simbolica, ancora lontana dal carattere «angolare» proprio dell’omonima pietra evangelica, quale compare nel Nuovo Testamento, e certamente «utile» a ottimizzare l’uomo facendolo ragionare con la «mente pura» dell’ultimo stadio di sviluppo teorizzato dopo circa due millenni nel pensiero di Giambattista Vico, diventa un onere che nella persona «indisciplinata» si fa insopportabile, sebbene sia in grado di conservare caratteri fondamentali di base potenzialmente idonei alla costruzione, e quindi capaci di interpretare un ruolo maieutico, qualora siano supportati da un adeguato impegno volitivo.
Considerazioni diverse, ma pur sempre nell’ambito di un pensiero propenso a promuovere accoglienza della virtù e rifiuto del vizio, possono farsi per la «pigrizia», che rende l’essere umano simile a una «pietra imbrattata in un letamaio», tanto da indurre il comune disprezzo, compreso quello di un nemico vinto e ridotto in miseria (Siracide, 22, 1-2) e con esso, l’incapacità di promuovere scelte veramente positive. Anche in questi casi di «trattamento» la pietra resta tale, e quindi sempre inanimata[2], ma la sua utilizzazione in termini costruttivi anche sul piano etico rende oggettivamente necessario un lavoro di pulitura dalle varie «incrostazioni»: facile metafora per sottintendere le brutture di un comportamento come la pigrizia, difforme da quelli del saggio e del credente.
In sostanza, l’uomo è sempre chiamato a scegliere responsabilmente: chi adotta il verbo della disciplina onora ciò che lo distingue in maniera prioritaria, vale a dire la morale della coscienza e della vera «libertà» che trae origine dalla consapevolezza di valori umani assoluti, superiori a quelli delle altre creature, mentre chi si lascia sedurre da un vizio gretto come la pigrizia nega la sua stessa «specialità» fondata sul libero arbitrio e sulla propensione a indirizzarlo verso la scelta giusta, conforme all’interpretazione valoriale della vita e all’interesse generale della comunità.
Non meno definitiva è la condanna del «peccato che s’insinua tra la compra e la vendita» del momento commerciale, quasi ad anticipare quella evangelica dei mercanti «cacciati dal Tempio» diversamente dagli artigiani che hanno la propria figura di riferimento in San Giuseppe, padre putativo di Gesù Cristo: ciò, proponendone la similitudine, efficace e pertinente, con lo strumento che si «conficca tra le giunture delle pietre» e che ha bisogno di una mano ferma ed esperta per non danneggiare irreparabilmente il materiale grezzo, invece di avviarlo – grazie a lavorazioni compiute a regola d’arte in specie con l’abbattimento del «soverchio» di cui alla celebre lezione di Michelangelo Buonarroti – a nuove funzioni estetiche ed economiche, propedeutiche a quelle morali.
In realtà, anche il denaro può essere arra di vita etica qualora «non si arrugginisca inutilmente sotto una pietra» (Siracide, 29, 10) ma sia utilizzato a fin di bene, e conseguentemente disperso, sebbene in tal caso sia meglio definirlo investito per aiutare «un fratello o un amico». Da questo punto di vista non è lecito chiamarlo «sterco del demonio» come accadde in alcuni momenti di forti esigenze spirituali o trascendentali: può certamente diventarlo qualora sia male utilizzato, ma può accadere anche il contrario, laddove trovi impiego in qualche «bella lode» e in qualche «onesto studio» come da felice definizione trecentesca di Francesco Petrarca; per non dire delle grandi opere benefattrici proposte anche in tempi moderni da taluni eccelsi protagonisti di vita sociale.
Il Siracide sviluppa il vecchio assunto della tradizione biblica utilizzando la pietra quale strumento di paragone, secondo una consuetudine ricorrente nel Vecchio Testamento, e poi ripresa nel Nuovo, certamente innovatore nel promuovere la logica del perdono e l’immagine di un «vir bonus» già caro a Seneca, e nell’Evo Cristiano fatto a immagine e somiglianza di Dio. Ciò, nonostante le forti tentazioni iconoclastiche comparse nel VII secolo per proseguire fino alla metà di quello successivo[3] e le suggestioni avverse alla rappresentazione antropomorfica del divino, care a taluni antichi filosofi, e poi prepotentemente riprese nella speculazione mussulmana.
Tutto ciò mette in luce, a parte la naturale continuità dell’impiego lapideo nell’Evo Antico, cui la Bibbia riserva riferimenti generalmente prioritari rispetto alle risorse alternative, la capacità di promuovere arricchimenti spirituali, che è propria di un materiale protagonista della storia come pochi, strumento di elevazione morale, e soprattutto tipica di un significato maieutico alla maniera di Socrate, nella sofferta ma perenne ricerca del buono e del giusto: quella lungamente perseguita sin dalla lontana epoca di Giosuè nei suoi 110 anni di vita, e perfezionata con l’ostracismo del Siracide alla dittatura della ricchezza senza valori etici (Siracide, 31, 1-2) e la tranquilla consapevolezza che «quando verrà il momento, il Signore vi darà la ricompensa» (Siracide, 51, 29-30). Con tutta evidenza, si tratta di uno spunto perenne di riflessione, e nello stesso tempo, di una valida e pertinente anticipazione del pensiero cristiano[4] due secoli prima della «stella» di Betlemme.
1 Il Libro di Siracide, «uomo importante e appassionato interprete della legge divina», secondo le informazioni più accreditate fu scritto in ebraico nel ventennio compreso fra il 196 e il 175 avanti Cristo (per altre fonti fra il 200 e il 180 avanti Cristo) da parte del figlio di Sira, mentre in tempi successivi fu tradotto in greco dal nipote dello stesso Siracide, e infine in latino. Nel III secolo dell’Era Volgare, e quindi in un’epoca di buona diffusione del Verbo tramite il Nuovo Testamento, divenne una fonte ispiratrice per le predicazioni, in specie da parte di San Cipriano di Cartagine, ed ebbe la nuova intitolazione di Ecclesiastico, che peraltro è rimasta minoritaria. Composto di 51 capitoli, è suddiviso in quattro parti principali: nella prima, la Sapienza è caratteristica del popolo eletto, vale a dire di quello israelita; la seconda propone la fedeltà a Dio come segno di distinzione prioritaria; con la terza, interpreta la dialettica della vita alla stregua di un rapporto competitivo fra premio e castigo; quanto all’ultima, ne emerge che la virtù non è in grado, salvo rare eccezioni, di convivere con la ricchezza, uno strumento pervicace di peccato. Carattere fondamentale del Siracide, diversamente da altri, è l’affermazione della «Fede nel Dio unico ed eterno, il quale ha scelto un popolo particolare e gli ha dato in dono la Legge, fonte di sapienza»; e nello stesso tempo promuove la riflessione, affinché l’uomo «in ogni momento della sua vita agisca sotto la luce della Legge» (confronta La Bibbia in lingua corrente, Libro del Siracide, Alleanza Biblica Universale, Torino 1994, pagina 1.235 e seguenti).
2 Non mancano suggestive eccezioni fantastiche volte a conferire una sorta di «anima» anche alla pietra. Fra le più note, si possono annoverare quelle di Leonardo da Vinci e di Gabriele d’Annunzio, sia pure attraverso immagini concettualmente assai diverse, se non anche antitetiche.
3 La lotta iconoclastica contro le immagini ritenute «devianti» ebbe inizio convenzionalmente riconosciuto nel 726, durante il Regno dell’Imperatore Bizantino Leone III, e proseguì con i successori nonostante le opposizioni pontificie; fu ripresa più volte fino a quando Papa Adriano I si espresse nuovamente in favore dell’ortodossia cattolica delle immagini religiose nel Concilio di Nicea (787) dando luogo a nuove pregiudiziali bizantine, risolte solo nel secolo successivo col ritorno definitivo all’ortodossia per opera dell’Imperatrice Teodora (843).
4 Le parole del Siracide riportate in chiusura del suo Libro attestano in maniera evidente l’esistenza di una continuità sostanziale fra Vecchio e Nuovo Testamento, nonostante diverse importanti discrasie ontologiche: nella fattispecie, con una precisa anticipazione del Verbo Cristiano in chiave di fiduciosa e tranquilla speranza, all’insegna dell’antica Giustizia, e della nuova palingenesi nell’Amore.