Gli Sciti, i cavalieri delle steppe
Un popolo fiero e valoroso, amante della
libertà, quasi del tutto ignorato dalla storiografia
Tra i popoli «snobbati» dalla ricerca storiografica, almeno a livello popolare, possiamo annoverare gli Sciti: alcune enciclopedie storiche che pretendono di offrire un quadro completo delle antiche civiltà a malapena li citano. Questo può derivare sia da un’impostazione marcatamente eurocentrica, anche da parte di ricercatori d’oltreoceano, sia dal fatto che il contributo degli Sciti alla civiltà umana si riduce apparentemente a delle opere di oreficeria: non eressero palazzi, non fecero scoperte scientifiche o tecniche, non conoscevano l’alfabeto e perciò non ci lasciarono iscrizioni. Eppure furono un popolo coraggioso, che sapeva battersi con tenacia e che per secoli espresse una sua «civiltà», ovvero un suo modo di vita peculiare. Questo articolo vuol essere un parziale contributo a colmare un vuoto storiografico che non ha ragione di esistere.
Gli Sciti emergono nella Storia documentata intorno al IX secolo avanti Cristo, quando l’Imperatore Cinese Suan della dinastia Chou guidò una spedizione contro i nomadi Hiung-nu (antenati degli Unni), che infestavano i confini occidentali e settentrionali del suo Impero.
Costretti a emigrare verso Ovest, gli Hiung-nu aggredirono le tribù che trovavano sul loro cammino obbligandole a spostarsi a loro volta. Queste tribù si scontrarono con le loro vicine forzandole a muoversi e così, in una sorta di «domino» umano in cui ogni tassello, spostandosi, ne urta altri, tutte le tribù dell’Asia Settentrionale si diressero verso Occidente in diverse ondate. Fu in questo modo che una di queste tribù di uomini mezzo mongoli e mezzo europei, feroci giganti barbuti dai capelli rossi e dagli occhi azzurri, che parlava una lingua indoeuropea ed era di remote origini occidentali, fece il suo ingresso nella Russia Meridionale: quella degli Sciti!
Una parte si spostò più verso il Sud distruggendo tutto e tutti sul suo cammino: questi guerrieri cavalcavano senza sella su cavalli selvaggi, bevevano il sangue dei loro nemici e ne usavano il cuoio capelluto come tovaglioli. Tra il 630 e il 610 avanti Cristo, dopo aver saccheggiato l’Assiria con ripetute scorrerie, invasero la Persia Settentrionale, la Siria e la Giudea, giungendo fino alle città del delta egiziano, dove furono decimati da un’epidemia improvvisa e sopraffatti dai Medi. Un secolo dopo, l’Imperatore Persiano Dario guidò il suo esercito contro di loro: la formazione compatta e ordinata dei soldati achemenidi si schierò contro la massa disordinata dei cavalieri sciti, eccitati e urlanti. Prima che gli eserciti potessero muovere l’uno contro l’altro, gli Sciti si lanciarono in un galoppo tumultuoso, abbandonando il campo di battaglia: una lepre era passata di corsa davanti alle schiere scitiche, una tentazione irresistibile per quegli appassionati cacciatori che si erano subito precipitati al suo inseguimento. Gli Sciti condussero l’avversario all’interno di un territorio amico, allungando le linee di rifornimento, poi, con imboscate e tattiche mordi e fuggi, lo bersagliarono con frecce. Alla fine, Dario rinunciò a combattere un nemico che si rendeva sempre irreperibile.
Altre spedizioni degli Sciti raggiunsero i territori corrispondenti oggi alla parte orientale della Germania e della Bulgaria, dove furono bloccati dalle migrazioni dei Celti e degli Illiri, e successivamente dai Re Macedoni Filippo II e Alessandro (il futuro Magno).
Il loro territorio andava dalla Tracia, a Ovest, fino ai Monti Altai della Mongolia, a Est, comprendendo la steppa dell’Asia Centrale, un’area della lunghezza di circa 4.000 chilometri caratterizzata da pianure, deserti e foreste gelide, ma il fulcro del loro regno rimasero le coste asiatiche del Mar Nero, la regione dagli antichi detta Scizia. Non si trattava di uno Stato unitario come potremmo pensare oggi, ma più come una confederazione di tribù e capi, con un sommo Re che rappresentava la Nazione nelle trattative diplomatiche tra potenti. Le discordie tra le tribù erano frequenti, e questa fu forse una delle principali cause che impedì loro di formare un Impero.
Erodoto, il padre della storiografia, dedica agli Sciti una parte del IV libro delle Storie. Ci racconta che erano nomadi, vivevano di allevamento e si nutrivano in gran parte di cacio di cavalla; antichi viaggiatori li descrivono grassocci, pigri e sempre di buon umore, amanti dei brindisi, della musica e della danza. Muovendo da un pascolo all’altro, gli uomini cavalcavano i piccoli ma robusti cavalli delle steppe, addobbati con ricchi finimenti.
Non si può parlare degli Sciti senza ricordare la loro qualità di cavalieri: sono stati fra i primi uomini a usare il cavallo non come animale da soma o da tiro, per trasportare merci o i leggeri carri da guerra, ma come cavalcatura. Si può dire che non abbandonassero mai il loro animale, che usavano esclusivamente per la caccia e le battaglie. Le vittorie in guerra degli Sciti erano dovute in gran parte alla loro abilità di cavalieri!
Gli Sciti vivevano non solo di caccia e di pesca, ma anche di rapina: non erano rare le guerre fra le diverse tribù scitiche, per contendersi un territorio da pascolo, e ognuna di queste guerre era un buon pretesto per eseguire razzie contro gli avversari. In tempo di pace gli uomini si dedicavano all’allevamento dei cavalli e dei buoi e alla caccia: nelle loro immense praterie si trovavano in abbondanza alci, cervi, cinghiali, castori, lontre, pecore, capre e altra selvaggina. I fiumi fornivano pesce in quantità. Il sale si trovava in vasti giacimenti sotterranei. Come i Mongoli di oggi, ingerivano grandi quantità di «kumis», latte fermentato di cavalla.
Nell’abbigliamento prediligevano i colori brillanti e le decorazioni elaborate formate da cuciture, ricami e dall’inserimento di ritagli di pelle. Come materiali utilizzavano cuoio, lana, feltro e pelliccia. I capi di vestiario includevano stivali morbidi, calze, brache per cavalcare, giubbe strette alla vita per permettere la massima libertà di movimento nell’uso dell’arco anche stando in sella, copricapi conici, mantelli da donna con bordo di pelliccia, tuniche, tutti interamente coperti di bellissime e complicate decorazioni variopinte, ottenute sovrapponendo strisce di pelle di diverso colore. Nelle loro tombe sono stati trovati, ben conservati, degli abiti che sono dei veri capolavori per fattura e ricchezza di decorazioni. Amavano i tatuaggi sulle braccia, dalle spalle alle mani, raffiguranti gatti raggomitolati, cervi, arieti, antilopi e capre.
Gli Sciti avevano pochi centri urbani fortificati sul Dnjepr e in Crimea; abitavano di preferenza su carri coperti, a quattro o a sei ruote, tirati da buoi. I carri erano confortevoli: venivano coperti da veri tetti di feltro e lo spazio interno poteva addirittura essere diviso in due o tre piccoli vani. A seconda del rango del proprietario, i pavimenti e le pareti dei carri potevano essere riccamente decorati e abbelliti da tappeti e panneggi di feltro; inoltre, una volta riuniti, i carri-abitazione avevano l’aspetto di una vera, piccola città. Quando si sostava a lungo, venivano erette tende di feltro arredate con tappeti di morbida lana pelosa e tendaggi finemente lavorati e decorati. Su questi carri e in queste tende, le donne scite trascorrevano gran parte della loro vita.
Grazie all’agilità della loro cavalleria, come abbiamo ricordato più sopra, gli Sciti erano stati considerati invincibili fino alle sconfitte subite dai Macedoni nel IV secolo avanti Cristo: come armi avevano arco e frecce, che lanciavano da cavallo, oltre ad asce da battaglia, mazze, lance, piccole spade, elmi, scudi e armature di scaglie. Un bicchiere del IV secolo avanti Cristo mostra un bivacco di soldati sciti: mentre due di loro sembrano contemplare il loro destino nell’azione imminente, uno mostra come incordare un arco, un altro rimuove il dente di un commilitone, un altro ancora fascia la gamba ferita di un compagno; vi è qui la raffigurazione di un modo di vita teso a creare cameratismo tra i soldati e a far sentire loro di avere uno scopo comune. Gli Sciti potevano essere validi alleati: combatterono a fianco dei Persiani contro Greci e Macedoni, andarono in aiuto dei Parti in occasione di problemi dinastici e furono determinanti nella sconfitta di Mitridate VI da parte del Generale Romano Pompeo.
In una società spiccatamente virile e autoritaria, le donne rivestivano comunque un ruolo importante nella vita militare e politica: Erodoto racconta di donne guerriere che cacciavano spesso da sole e combattevano insieme agli uomini. Ippocrate nel suo testo De aere, aquis et locis (XVII-XXII) ci dice che le donne scite «finché sono vergini, cavalcano, tirano frecce, lanciano il giavellotto stando a cavallo e combattono i loro nemici. Esse non rinunciano alla verginità sino a che non hanno ucciso tre dei loro nemici... Una donna che prende marito non cavalca più, a meno che non sia costretta a farlo da una spedizione generale. Esse non hanno il seno destro; infatti, quando sono ancora in tenera età, le madri, reso incandescente uno strumento di bronzo appositamente costruito, lo applicano al seno destro e lo cauterizzano, così da arrestarne lo sviluppo; tutta la sua forza e il suo volume vengono deviati alla spalla e al braccio destro». Il mito delle Amazzoni nasce appunto grazie a queste guerriere. Ancora Erodoto e Appiano citano alcune Sovrane della Scizia; in una sepoltura femminile ad Ak-Alakha, nei Monti Altai, furono trovati oggetti di prestigio e sei cavalli sellati, che testimoniano come fosse una delle persone più importanti del suo popolo, se non addirittura una Regina.
Gli Sciti erano politeisti e la loro religione era molto semplice. Adoravano gli elementi naturali: avevano così il «dio dell’aria», il «dio della terra» e via dicendo; la divinità maggiore era la «dea del fuoco», chiamata «Grande Dea». Credevano in una vita dopo la morte: i defunti venivano sepolti sotto grandi tumuli di pietre e terra, in camere mortuarie col tetto di legno, riccamente dotate di offerte funebri. Le tombe dei capi, unici monumenti sciti giunti fino a noi, erano spesso di grandi dimensioni: nella regione di Alessandropoli, in Armenia, i tumuli reali misuravano da 9 a 21 metri di altezza, da 120 a 360 metri di circonferenza, e la camera mortuaria poteva scendere fino a 12 metri sotto il livello del suolo. Erodoto ci racconta – e la cosa è degna di fede – che il corpo del capo defunto, dopo essere stato imbalsamato, era deposto su un carro e per 40 giorni veniva portato in processione per tutto il suo territorio; era quindi deposto nella tomba coi suoi beni materiali, come vesti, gioielli, armi, cibo, bevande, coppe e vasi, ma anche con la moglie e i servi più fedeli. La sorpresa più grande degli archeologi è stata quella di trovare, accanto al defunto, lo scheletro di almeno un cavallo; ma se si trattava della tomba di un capo, i cavalli sepolti erano anche 50, o 100, o diverse centinaia: questi uomini non volevano separarsi neppure dopo la morte dall’animale sulla cui groppa avevano trascorso tutta la loro vita! A differenza di molti altri popoli, dato che erano nomadi, gli Sciti non avevano altari o templi dei loro dèi, e nemmeno sacerdoti, ma solo veggenti.
Non si deve pensare agli Sciti come a un popolo dedito esclusivamente alla caccia e alla guerra: mantennero sempre un intenso commercio con i Greci, che avevano fondato alcune colonie sulle coste del Mar Nero. Non li possiamo considerare un popolo povero, tutt’altro: i nomadi fornivano ai Greci pelli conciate, pellicce, carne, storione, miele, sale e anche grano che veniva coltivato da alcuni nuclei di Sciti sedentari solo per l’esportazione. In cambio ricevevano vasellame, lavori in metallo, gioielli. Dato che non conoscevano la moneta, i commerci avvenivano sotto forma di baratto: così, scambiando un bene con un altro, gli Sciti si procurarono una quantità enorme di bellissimi oggetti splendidamente lavorati; avevano una vera passione per l’oreficeria e si sono trovati, fra l’altro, specchi greci con magnifiche decorazioni.
Anche se molti lavori in metallo erano eseguiti da artigiani stranieri, gli Sciti erano abili nell’arte della lavorazione in particolare dell’oro, ma anche dell’argento e del bronzo, in cui si riconoscono influenze greche, anatoliche, mediorientali. La loro maestria decorativa si manifestava nelle piastre di metallo applicate alle cinture, nelle fibbie, nelle bardature dei cavalli, nei foderi e nelle else delle spade, nelle coppe e nei gioielli, e inoltre nei lavori di legno intagliato, di osso, di cuoio e di feltro, oltre che nei già ricordati tatuaggi. Molti oggetti raccontano storie di vita; un pettine mostra guerrieri impegnati in feroci combattimenti, un vaso in lega d’oro e d’argento ritrovato nei pressi di Kerch in Crimea (Ucraina) datato tra il IV e il III secolo avanti Cristo raffigura un guerriero che assiste un compagno ferito al viso. Un pettorale raffigura scene di vita quotidiana: la mungitura di una pecora, due uomini che cuciono una veste, vitelli e puledri che prendono il latte, gatti che abbattono un cervo e grifoni che mordono e artigliano cavalli. Numerose erano le raffigurazioni della vita animale, soprattutto cervi, capre, leoni, uccelli da preda, presi negli atteggiamenti più strani e più complicati. Una punta di asta in bronzo rinvenuta nel Kuban (Russia Meridionale) e risalente al VII-VI secolo avanti Cristo, raffigura una testa di mulo. Alcuni oggetti rappresentano danzatori che ondeggiano al ritmo della musica e suonatori di lira; sono stati ritrovati anche veri strumenti musicali, come flauti di Pan fatti di ossa di uccelli, tamburi di corno di bue e uno strumento simile a un’arpa. Si nota una forte tendenza alla stilizzazione: l’artista a volte combinava diversi aspetti di uno stesso animale in un’unica rappresentazione, o usava alcuni elementi, per esempio la testa e il becco di un uccello da preda, per arricchire la raffigurazione di un altro animale totalmente diverso; all’occasione non esitava a deformare e contorcere le figure animali per adattarle a qualche motivo decorativo. Si tratta di uno stile che potremmo senz’altro definire moderno.
Dal VII al III secolo dopo Cristo, le praterie della Russia Meridionale erano state il regno degli Sciti. Finché si affacciò sulla pianura europea un nuovo popolo, pure proveniente dall’Asia: i Sarmati (affini agli Sciti, a volte considerati dagli storici odierni un «sottogenere» degli Sciti stessi). Per due secoli gli Sciti resistettero alla pressione dei nuovi venuti, poi finirono per perdere la maggior parte dei loro territori.
Verso la metà del II secolo avanti Cristo costituivano ancora un forte Stato in Crimea sotto la guida di Sciluro e di suo figlio Palaco, gli ultimi grandi Re. Intorno al 120 avanti Cristo anche quel Regno fu distrutto da Mitridate, Re del Ponto. Degli Sciti non rimasero che nuclei isolati e sparsi, non immemori dell’antica grandezza e capaci ancora di prove di valore; questo fino all’età delle grandi migrazioni barbariche del IV secolo dopo Cristo quando, sgominati dagli Unni e assorbiti dai Goti, scomparvero completamente dai documenti storici.