Le origini dell'uomo
Un entusiasmante viaggio alla scoperta dei
nostri più lontani progenitori
La ricerca sulle origini della specie umana è una delle più affascinanti della Storia: la domanda «perché esistiamo?», così come la conseguente «da dove veniamo?», è uno dei grandi enigmi che l’uomo si pone sin dai tempi più antichi. Quest’indagine, però, è nel contempo una delle più difficili, sia perché – per forza di cose – si conosce ben poco sui tempi antecedenti a quelli della storia scritta, sia perché la ricerca, a partire soprattutto dal XIX secolo, è stata viziata da un «errore di forma»: ovvero, sembrava (soprattutto in area protestante) che la teoria cosiddetta evoluzionistica, secondo la quale gli uomini, al pari di tutti gli altri esseri viventi, subiscono mutazioni a seconda delle modificazioni del clima, dell’ambiente e del modo di vita, contraddicesse la parola biblica che raccontava la creazione dell’uomo «sic et simpliciter»; nonostante molti scienziati (tra i più importanti, Galileo Galilei) avessero spiegato che la Bibbia insegna «come si va in Cielo, e non come va il cielo», per molto tempo in diversi circoli scientifici si continuò a leggere le Sacre Scritture come qualcosa che non erano – ovvero, come dei testi scientifici. Se le ricerche scientifiche sembravano contraddirle, era «ovvio» che la scienza fosse in errore.
La situazione adesso è un po’ migliorata, soprattutto dopo che la Chiesa ha accettato la teoria evoluzionistica; una teoria che presenta anelli mancanti, uno sviluppo del cervello umano che ha del miracoloso, improvvise estinzioni, misteriose scomparse, e un cammino evolutivo dell’uomo tutt’altro che lineare. Una teoria che, sebbene rifiutata ancora in taluni ambienti scientifici, è però quella più seguita e – a parere di chi scrive – quella più storicamente probabile.
Riassumiamola per sommi capi, cercando di tracciare una sorta di «albero genealogico» della specie umana, così come è stato canonizzato dalle ultime scoperte scientifiche, avvertendo che il quadro evolutivo dell’uomo si rivela – paradossalmente – un enigma sempre più intricato man mano che proseguono gli studi e si moltiplicano i ritrovamenti fossili.
La specie umana condivide le sue origini non solo con le scimmie, i nostri «parenti» più prossimi, ma anche con i gatti, i lupi, gli orsi, insomma con tutti i mammiferi; risalgono a 70 milioni di anni fa i primi fossili di purgatorius, un piccolo mammifero roditore che aveva l’aspetto e le abitudini di un piccolo topo: dimensioni ridotte, muso allungato, occhietti rossi a pallina, lunghi baffi ed una coda di cui anche in noi uomini rimangono i segni nel coccige, l’osso terminale della colonna vertebrale, che nel nostro corpo non ha nessuna funzione apparente ma che in tutti gli animali caudati è l’osso che sorregge la coda. Quest’animaletto, da cui discenderanno tutti i mammiferi, conduceva una vita notturna, sugli alberi: il giorno era infatti dominato dai grandi rettili di cui il purgatorius razziava le uova deposte all’aperto, dato che ne era ghiotto, anche se probabilmente il suo cibo principale erano gli insetti.
Il mondo era notevolmente diverso da come noi lo conosciamo: gran parte di quelli che sono i continenti odierni era allora una distesa bassa e pianeggiante, coperta da vasti e tranquilli mari poco profondi. Metà dell’America del Nord era sommersa dalle acque. Un vasto oceano si stendeva sopra la maggior parte dell’Europa, attraverso l’Iran e fino all’India, e le sue onde lambivano ad Occidente le coste della Spagna, ad Oriente la Birmania e la Malesia. Il clima era uniformemente caldo e mite, ideale per rettili a sangue freddo come i dinosauri.
65 milioni di anni fa, l’era dei grandi rettili ebbe bruscamente e repentinamente termine (in termini geologici, s’intende): si sono avanzate un’ottantina di ipotesi per spiegare quest’estinzione di massa, alcune notevolmente fantasiose. La più diffusa ne imputa la causa ad un enorme asteroide dal diametro di dieci chilometri, che nell’impatto col nostro pianeta avrebbe sollevato una colossale nube di polveri tanto densa da bloccare, per mesi o addirittura per anni, i raggi del sole. La conseguenza fu l’apparire di un rigidissimo «inverno nucleare», la morte delle piante, poi dei rettili che di quelle piante si cibavano, infine dei rettili carnivori, rimasti senza prede. Nella penisola dello Yucatan, in Messico, è stato in effetti trovato un cratere di 150 chilometri di diametro che, per dimensioni ed epoca, potrebbe appartenere al «meteorite assassino»; ma questa ipotesi presenta comunque dei punti oscuri.
Fatto sta che il purgatorius si trovò di punto in bianco in un mondo completamente nuovo e adattissimo alla sua sopravvivenza: si affacciò alla luce del giorno, si moltiplicò, si diffuse in molte nicchie che prima gli erano precluse. Le temperature erano alte e vaste regioni erano interamente coperte da foreste: una fascia quasi continua di foreste tropicali e subtropicali, larga molte migliaia di chilometri, si stendeva da Seattle e Vancouver all’Argentina del Sud ed al Cile, da Londra a Città del Capo, dal Giappone all’Australia Meridionale; nel Sahara, boschi, savane e laghi esistevano dove ora regna il deserto; vi erano coccodrilli, palme e paludi in Inghilterra, in Francia e nelle regioni nord-occidentali degli Stati Uniti. In quest’ambiente particolare, il purgatorius cominciò ad evolversi e differenziarsi: già 60 milioni di anni fa troviamo le prime forme che assomigliano a degli scoiattoli.
45 milioni di anni fa, di notte, una strana creatura saltellava sulle cime degli alberi della foresta tropicale asiatica, alla ricerca di insetti da mangiare: aveva piedini piccoli come grani di riso, grandi occhi e pesava come una manciata di spagnolette. Era timidissima e rapidissima. I paleontologi, che ne hanno trovato poche ossa in Cina, l’hanno battezzata eosimias e la classificano come l’anello di passaggio in uno svincolo fondamentale della storia dell’evoluzione umana, quello dove le scimmie antropoidi (scimmie, primati e ominidi) si dividono dalle proscimmie (tra cui gli attuali lemuri). Si tratterebbe, insomma, della prima scimmia antropoide della storia, antenata che abbiamo in comune con tutte le scimmie.
Analizzando minuziosamente i fossili di mammiferi relativi agli ultimi 40 milioni di anni, si è potuto constatare che alcuni di essi presentavano caratteristiche tipicamente scimmiesche, mentre altri ne possedevano di tipicamente umane: dai piccoli mammiferi di 40 milioni di anni fa si sarebbero diramate varie linee evolutive di cui alcune sarebbero andate verso le scimmie ed una, la principale, sarebbe avanzata verso l’«umanizzazione».
È tra i 23 ed i 14 milioni di anni fa che troviamo il proconsul, una sorta di piccolo scimpanzé che abitava nella calda ed umida foresta equatoriale africana. Tra gli 8 ed i 7 milioni di anni fa, a seguito di un’era glaciale che ridusse notevolmente l’estensione della foresta equatoriale a tutto favore della savana, la linea evolutiva del proconsul si diramò definitivamente dando origine da un lato a gorilla e scimpanzé, dall’altro agli australopitheci, e da questi – col passare delle ere – all’uomo moderno.
Origini dell'uomo: un australopitheco, un homo habilis, un homo erectus, un homo sapiens, un homo sapiens sapiens
È a 3.900.000 anni fa (o forse addirittura prima, a 5.000.000 di anni fa) che si fa risalire l’inizio del regno degli australopitheci (nome dal significato di «scimmie del Sud»), creature dai numerosi caratteri scimmieschi ma già saldamente fissate sulla linea evolutiva umana; anzi, per un milione di anni alcune delle loro specie convissero coi più antichi rappresentanti del genere homo. Dal Corno d’Africa fino al Sud Africa, a ridosso d’imponenti catene montuose, si estendeva la savana, una pianura di erbe alte punteggiata di radi alberi dove penetravano ancora, come penisole, lunghe strisce oscure di foresta a galleria. Gli incontri tra diversi gruppi di ominidi dovevano spesso risolversi con un po’ di sesso «esotico», con accoppiamenti e incroci fra le diverse specie, ma qualche ominide di specie diversa fu fatto a pezzettini e mangiato, come dimostrerebbero i resti di un australopithecus trovati con tracce di cottura in un sito sudafricano, a Swartkrans, dove vivevano ominidi del genere homo.
Vegetariani e di indole pacifica, gli australopitheci avevano già assunto una deambulazione bipede ed un’andatura eretta; erano alti dai 115 ai 125 centimetri, pesavano dai 28 ai 35 chilogrammi e la loro capacità cranica oscillava tra i 450 ed i 460 centimetri cubi.
Nel 1978 vennero ritrovate le prime impronte di piedi umanoidi a Laetoli, in Tanzania, risalenti a 3.700.000 anni fa. 1.500 chilometri più a Nord, quattro anni prima, era stato trovato il più antico australopithecus mai scoperto, una giovane donna a cui fu dato il nome Lucy.
Ma nel corso del tempo sono state fatte numerose scoperte che sembrano volerci costringere a riscrivere l’albero genealogico della specie umana: lo scienziato Leakey con la moglie Mary, dopo anni di ricerche nelle vallate dell’Etiopia e della Tanzania, ha scoperto fossili di un essere pre-umano molto più antico dell’australopithecus, ma assai più evoluto e dal cervello più grande: 650 centimetri cubi.
In seguito, il figlio di Leakey, sempre nella stessa regione, ha ritrovato un cranio assai più grande di quello scoperto dal padre e di un milione di anni più antico; lo ha chiamato homo 1470. Si tratta di un ominide vissuto circa tre milioni di anni fa, e la sua capacità cranica è di circa 800 centimetri cubi.
Più recentemente, sempre il giovane Leakey ha fatto altri due ritrovamenti ancor più sensazionali, in un giacimento sulle rive orientali del lago Rodolfo, in Kenya. Il primo ritrovamento è stato un teschio quasi completo, antico almeno di un milione e mezzo di anni, appartenente ad un tipo di ominide che quasi certamente è sulla linea ancestrale umana: esso già a quel tempo aveva acquisito i caratteri che soltanto un milione di anni più tardi ritroviamo nell’uomo di Pechino. Il secondo ritrovamento è un teschio vecchio di ben due milioni e mezzo di anni, che pure sembra situato sempre sulla nostra stessa linea.
Un’altra scoperta sconvolgente è stata fatta in Etiopia nella vallata dell’Afar: un ammasso di 150 pezzi ossei appartenenti ad individui di forma sorprendentemente assai vicina a quella dell’uomo odierno, vissuti più di tre milioni di anni fa. Si sono potuti riconoscere almeno due bambini e quattro o cinque adulti – esseri che vivevano certamente in gruppo e che furono sorpresi da un’alluvione od altra catastrofe repentina.
L’evoluzione dell’uomo, spiega Alberto Salza, antropologo dell’Università di Torino, «più che un albero genealogico in progressione, va vista come un cespuglio di specie, spesso potato dalla selezione naturale, in cui ogni specie faceva i suoi tentativi per assicurarsi un futuro. Andiamo, per esempio, ai tempi dell’australopithecus afarensis cioè a tre milioni di anni fa. Lucy, ritrovata in Etiopia, è la più nota rappresentante di questa specie. Ma l’afarensis non era la sola specie ominide esistente allora in Africa. A 2.500 chilometri di distanza, in Ciad, è stata infatti scoperta un’altra forma, l’australopithecus bahrelghazali. E una terza specie, ritrovata in Kenya, l’australopithecus anamensis, presenta le caratteristiche più evolute, anche se proviene da strati più antichi. Lo dimostra un osso della gamba molto simile a quello dell’uomo moderno. Non sappiamo con quanta grazia si muovesse l’ominide del Ciad, ma è sicuro che Lucy e gli altri afarensis non avevano ancora un’andatura bipede perfetta e avevano lunghe braccia da arrampicatori. Conclusioni: gli afarensis, che dipendevano ancora molto dagli alberi, se ne stavano nelle foreste, mentre gli anamensis, camminatori migliori, sfruttavano pienamente la savana». Poi, circa due milioni e mezzo di anni fa, tutta l’Africa Orientale si inaridì, le risorse divennero scarse e gli ominidi risposero cambiando forma e modo di vita.
Due milioni di anni fa, vivevano in Africa Orientale quattro specie di ominidi.
La prima, sulle rive del lago Turkana, in Kenya, era l’australopithecus boisei. Non era alto (150 centimetri), ma camminava con un certo stile e passo svelto. Le femmine erano più piccole dell’unico maschio adulto del gruppo, indice di una società dove vigeva l’harem, come fra i gorilla. Avevano mascelle possenti e una testa piatta con in mezzo una cresta. Non facevano altro che mangiare graminacee e semi, sviluppando le mascelle al posto della scatola cranica (il loro cervello era grande solo un terzo di quello dell’uomo odierno); tuttavia, questa strategia permetterà loro di restare al mondo per più di un milione di anni, fino ad un milione di anni prima di Cristo.
Il secondo tipo di ominidi viveva in piccoli gruppi nei paesaggi mutevoli della savana e frequentava soprattutto le rive, visitate anche dagli animali, dei laghi e dei fiumi, ai margini delle foreste. Piccoli insediamenti temporanei si alternavano a grandi accampamenti suddivisi in settori specializzati; per essere più tranquilli, individui solitari o gruppi ristretti di cacciatori potevano passare la notte distesi sui rami degli alberi. A Melka Kunturé, sito etiopico di 1.700.000 anni fa, aree prive di resti ma delimitate da grossi blocchi e da ciottoli si alternano a zone destinate allo squartamento degli animali, in cui si vennero accumulando utensili e frammenti di ossa. Maschi e femmine erano più o meno delle stesse dimensioni, segno che esisteva un regime sessuale promiscuo, con una moderata tendenza alla monogamia. Si trattava di homo habilis. Era vegetariano, ma non disdegnava insetti, piccoli rettili e uova. A volte trovava carcasse di animali e si nutriva di carne; per tagliare la carne aveva imparato a costruire piccoli utensili di pietra, dapprincipio semplici cocci rozzamente frantumati: i ciottoli affilati ottenuti con percussioni sistematiche sono testimonianze preziose dell’intenzione coerente dei loro artefici. Era più piccolo del boisei (120 centimetri) anche se il suo cervello era più sviluppato: 650 centimetri cubi. Le braccia lunghe mostravano ancora una certa confidenza con gli alberi, ma l’andatura era ormai stabilmente bipede; la fronte, gli zigomi ed il mento erano sfuggenti. Molto uniti fra loro, questi ominidi non si spostavano mai dal loro territorio, la foresta, dove gli altri ominidi non si avventuravano.
Il terzo ominide viveva nella savana: possiamo facilmente immaginare un gruppo di homo rudolfensis intento a spaccare con i suoi strumenti di pietra le ossa di una carcassa di gnu per mangiarne il midollo. Rispetto all’habilis, il rudolfensis dipendeva più dalla carne, come dimostrano le malformazioni ossee riscontrate nei fossili e dovute ad un eccesso di vitamina A. Il cibo veniva diviso fra tutti e portato anche al campo base, ben mimetizzato fra rocce e acacie, dove rimanevano i piccoli, controllati dai più anziani.
Il quarto ominide era l’homo ergaster ed è il più interessante. Pensiamo ad un gruppetto di ergaster occupato a lavorare con un percussore un nucleo di pietra per ricavare un oggetto simmetrico, dalla forma di mandorla, quello che oggi chiamiamo «amigdala» o bifacciale (un utensile di pietra scheggiata su entrambi i lati), in cui si manifestava chiaramente il senso della simmetria e il gusto dello strumento bello, oltre che funzionale. Gli ergaster si esprimevano a gesti, come i rudolfensis, ma comunicavano anche con un tipo arcaico di linguaggio, più urlato che parlato. Erano alti, oltre un metro e 80, il loro corpo era simile a quello dell’uomo moderno. Erano abilissimi a seguire i predatori, per trovare poi le carcasse degli animali uccisi, e forse erano in grado di catturare piccole prede. Per il resto, la loro dieta si fondava su frutti, semi e tuberi, di cui conoscevano locazione e stagionalità. Spiega Salza: «Abbiamo condotto un esperimento sul campo; in una settimana sono reperibili nella savana 200 chilogrammi di carne di animali morti o di carcasse abbandonate dai predatori. Ma anche se si comportava ancora da “spazzino”, l’ergaster aveva varie marce in più rispetto agli altri ominidi». La prima era la capacità di immaginare il risultato delle sue azioni, una forma di pensiero: «Per costruire l’amigdala gli ergaster dovevano già avere bene in mente il risultato finale, che non si può intravedere fino all’ultima fase della lavorazione. E questo presupponeva capacità concettuali». Era capace di prevedere la stagionalità delle risorse, di sapere quando le erbe commestibili sarebbero appassite, cosa che gli permetteva di arrivare prima degli altri ominidi e di sfruttare gli ambienti più diversi. «A quei tempi gli ominidi erano poche migliaia in tutta l’Africa e non credo vi siano stati conflitti fra di loro» continua lo studioso. «Il problema era l’isolamento. Alcuni gruppi finivano per allontanarsi dalla specie madre, rimanendo tagliati fuori, e diventavano una specie nuova, per effetto della cosiddetta “deriva genetica” (una popolazione isolata può subire mutazioni casuali che alla fine la rendono diversa)».
Dopo aver occupato la totalità del territorio africano, i rappresentanti dell’homo erectus si diffusero in tutte le zone calde e temperate del Vecchio Mondo, raggiungendo il Medio Oriente 900.000 anni fa. Fu l’homo erectus a diffondere l’uso del fuoco, secondo il grande scienziato russo Isaac Asimov la più grande scoperta dell’uomo: la rossa fiamma forniva luce e calore, permetteva di cucinare il cibo, di indurire le punte delle lance di legno verde e teneva a bada i predatori. Malgrado tecniche affidabili per creare il fuoco non siano state disponibili fino a circa 9.000 anni fa, i resti di piccoli focolari portati alla luce forniscono una prova sicura del fatto che il fuoco controllato si utilizzasse almeno 500.000 anni fa. L’habitat, che non si limitava più ai ripari naturali sommariamente attrezzati, poté organizzarsi all’interno delle caverne o all’aria aperta in uno spazio delimitato da strutture elaborate. I membri di una tribù nomade si riunivano intorno ai focolari, magari per celebrare una battuta di caccia particolarmente riuscita: il cibo significava sopravvivenza, pertanto i cacciatori che ritornavano con la preda erano un motivo per festeggiare. L’homo erectus fu il primo ad operare una suddivisione dei compiti fra uomini e donne: egli inaugurò una dimensione fino ad allora sconosciuta, quella dell’evoluzione culturale.
«È arduo tracciare una linea diretta dai primi bipedi all’uomo moderno» dice Donald Johanson, scopritore di Lucy. «Diversi ominidi hanno fatto la loro parte: l’afarensis e l’anamensis hanno segnato, per esempio, la discesa dagli alberi e la deambulazione bipede. L’habilis la capacità di costruire utensili di pietra. L’ergaster la concettualizzazione». Lentamente, l’homo erectus diede origine ad un’umanità nuova, quella dell’homo sapiens, definito così per la sua piena consapevolezza di esistere. Un primo nucleo, localizzato in Europa e nell’Asia Occidentale, forse isolate dall’avanzata dei ghiacci, oltre che in Africa, era costituito dall’homo sapiens neanderthalensis, l’uomo di Neanderthal (scoperto per la prima volta nel 1856), che nel periodo che va da 85.000 a 35.000 anni fa è stato portatore di alcuni tratti anatomici arcaicizzanti: alto 165 centimetri, dal peso di circa 60-70 chilogrammi, aveva una capacità cranica oscillante tra i 1.300 e i 1.600 centimetri cubi, superiore addirittura a quella dell’uomo odierno. La corporatura era robusta e possente, soprattutto nei polpacci e nei bicipiti, la testa piatta con una fronte sfuggente, il naso grande, prominente ed imponente, la parte superiore del labbro rigonfia, le gambe e gli avambracci corti. Seppelliva i defunti con offerte votive, lavorava le pelli e collezionava oggetti lucenti o levigati scelti – per quanto se ne può dedurre – solo per il fatto ch’erano «belli»: sono i primi rudimenti della religione e dell’arte, due caratteristiche spiccatamente «moderne». Però non conosceva ornamenti, le pitture rupestri ed altri aspetti della creatività dell’uomo di tipo moderno che si manifesteranno solo 20.000 anni fa, forse grazie all’avvento di un linguaggio articolato che stimolò la capacità di astrazione, che sta alla base della nostra cultura.
A fianco dell’uomo di Neanderthal e degli ultimi rappresentanti dell’homo erectus, cominciò a costituirsi un secondo gruppo umano in cui si cristallizzarono le caratteristiche dell’uomo moderno: l’homo sapiens sapiens, quello riprodottosi fino ad oggi; era alto 180 centimetri, dal peso di 75-85 chilogrammi, ed aveva un volume del cervello da 1.000 a 2.000 centimetri cubi (in media, 1.300 centimetri cubi).
I suoi resti più antichi si trovano in Africa, che si conferma così la «culla» dell’umanità, e risalgono a 100.000 anni fa. 90.000 anni fa, l’homo sapiens sapiens era già in Medio Oriente; tra i 40.000 e i 35.000 anni fa, colonizzò l’Europa e l’Asia e raggiunse l’Australia; 23.000 anni fa, in Siberia, schiuse la porta dell’America (forse raggiunta prima, o forse dopo, tra i 12.000 e i 10.000 anni fa, attraverso lo Stretto di Bering prosciugato dall’ultima glaciazione).
Diffusione dell'uomo nel mondo con alcune ipotetiche date
Ovunque sostituì i Neanderthal, tanto che 30.000 anni fa questi ultimi non esistevano più. «È facile immaginare che bande di uomini moderni abbiano spinto i Neanderthal in zone sempre più marginali, e che ci siano stati scontri violenti» afferma Alberto Broglio, dell’Università di Ferrara. «Ma abbiamo prove del fatto che prima di scomparire i Neanderthal avevano affinato la loro cultura, forse grazie al rapporto con i sapiens sapiens. Gli incroci sembrano meno probabili». Ovvero, i sei miliardi di persone odierne sono i discendenti dei 60.000 sapiens sapiens che sostituirono i Neanderthal in tutto il mondo: ma sarebbe un grave errore non ricordare anche gli altri ominidi, che hanno concorso allo sviluppo di tutto ciò che è umano.
Sul piano dell’evoluzione culturale, gli utensili più comuni realizzati con robuste schegge (frammenti di roccia tagliente) vennero prodotti in gran copia: raschiatoi, punte robuste, oggetti dentellati… A volte, in certi giacimenti, le amigdale si accompagnavano ad utensili più piccoli e leggeri realizzati su lamine (raschietti, bulini, scalpelli). Un’innovazione particolarmente importante consistette nel mettere il manico ad un utensile esistente, come una lama di pietra: la prima applicazione di questa invenzione furono le asce, poi le lance; fornita di un’acuminata punta di pietra, detta «microlite», l’arma risultante era affilata, resistente e letale, adattissima per la pesca e la caccia di grande selvaggina.
Gli interessi degli uomini superavano di gran lunga le preoccupazioni dell’esistenza quotidiana, come mostra la pratica dell’inumazione dei defunti, che esprimeva indubbiamente uno specifico atteggiamento di fronte alla morte, e dunque una consequenziale visione della vita. La consapevolezza delle persone circa la loro mortalità (la vita media era di appena 18 anni, ed erano estremamente rari quelli che arrivavano ai 40) portò all’adorazione degli avi. I primi uomini addetti ai culti religiosi, gli sciamani, erano ritenuti in grado di comunicare con gli spiriti: i dipinti sulle rocce e nelle caverne di quel periodo suggeriscono che queste figure religiose possano avere praticato rituali magici, così da propiziare una caccia ricca o un tempo favorevole. La presenza di individui del genere implica che le civiltà umane si stavano diversificando, con persone differenti in ruoli differenti: man mano che le società diventavano più complesse, il loro bisogno per un comando organizzato era più sentito, e le strutture sociali stavano portando ad un’autorità centralizzata (vi è evidenza di questo sviluppo negli antichi modelli di insediamento trovati in Grecia e nella Penisola Iberica).
D’ora in avanti, l’homo sapiens guarderà l’Universo dall’alto della coscienza del proprio esistere; tutte le cosmogonie e le mistiche successive e soprattutto l’arte documentata negli ultimi 30.000 anni, affondano le loro radici nel destino eccezionale che questo essere si è attribuito in mezzo ai viventi.
L’uomo diede origine ad un habitat elaborato: accampamenti stagionali formati da tende leggere e costruzioni molto più solide delle precedenti permisero di affrontare i rigori dell’ultima grande glaciazione. Questa fu all’origine di un mosaico di zone ambientali contrastanti: a margine delle zone settentrionali o montagnose imprigionate sotto imponenti masse di ghiaccio e delle zone aride allargatesi a causa del notevole calo delle precipitazioni, si trovavano delle aree più accoglienti, grazie a fondovalle incassati, a esposizioni favorevoli o ad influenze che addolcivano il clima. Alternate alle regioni scoscese battute dai venti o agli altopiani poveri di vegetazione della steppa e della tundra, si formavano così, in spazi aperti, zone di rifugio per numerose specie vegetali e animali, oltre che naturalmente per le popolazioni umane. Soprattutto durante la buona stagione, la tribù poteva suddividersi per sfruttare risorse abbondanti ma effimere, nei pressi di un guado, su un asse di migrazione o in prossimità di una zona di accoppiamento della selvaggina. La pratica della caccia estesa a specie di piccola mole (come uccelli o pesci), sostenuta da un notevole perfezionamento tecnologico (ad esempio, l’invenzione dell’arco) riflette forse una certa pressione demografica.
Il miglioramento del clima che ha avuto luogo 12.000 anni fa in Europa Occidentale favorì il diffondersi di ambienti sempre più boscosi e mise fine per un certo tempo ai grandi raggruppamenti umani. La caccia, divenuta meno produttiva, venne completata dalla raccolta sistematica delle specie animali minori, soprattutto conigli e lumache, e di nuove specie vegetali, come le leguminose. Grazie alla diversificazione delle risorse in un ambiente ormai temperato, questi piccoli gruppi di cacciatori poterono rispondere alla sfida post-glaciale e prosperare.
Come testimonia una serie di dati che si riferiscono al Sud-Ovest asiatico e soprattutto alle zone montuose della Palestina, del Tauro armeno e dei Monti Zagros in Asia Minore, l’aumento delle precipitazioni, che si fece sensibile 13.000 anni fa, favorì la diffusione di una specie di savana alberata estremamente propizia all’insediamento umano: l’abbondanza delle risorse animali e vegetali spontanee e in particolare dei cereali selvatici facili da riporre e da conservare, favorì la sedentarizzazione e la formazione, 12.000 anni fa, dei primi villaggi veri e propri, portando al dominio sempre più incisivo dell’uomo sugli ambienti naturali.
È in quest’epoca che visse il cosiddetto «uomo di Mouillans», le cui tracce furono scoperte sulle coste dell’Algeria e del Marocco. La cosa più sconvolgente è la struttura fisica, soprattutto il cranio, addirittura più «moderno» di quelli attuali: il volume del cervello era di ben 2.300 centimetri cubi. La base cranica appare più rotonda di quella dell’uomo moderno, e ciò significa che l’uomo di Mouillans conservava ancora in età adulta la forma cranica di un bambino. Il cervello poggiava su una base cranica che restava sempre della stessa grandezza e cresceva in altezza. Perciò questo lungo cervello si formava oltre gli occhi incavati. Ma mentre il cranio si espandeva, il volto restava immutato e infantile, con una piccola mandibola e piccoli denti, ma senza il terzo molare (che secondo i craniologi con ogni probabilità mancherà anche a noi nel lontano futuro). I suoi lineamenti dovevano essere assai più delicati dei nostri: anzi, c’è chi sostiene che sia come comparso con uno o due milioni di anni d’anticipo… purtroppo, egli scomparve così repentinamente com’era apparso, portando nella tomba – forse per sempre – il suo segreto.
10.000 anni fa gli uomini non erano solo abili cacciatori, praticavano anche l’allevamento e l’agricoltura, si prendevano cura dei più svantaggiati, seppellivano i morti legando loro le gambe e ponendo sopra la sepoltura una pesante pietra (forse perché questi non potessero levarsi a terrorizzare l’esistenza dei vivi), sapevano scolpire degli oggetti, conoscevano l’uso dell’ago in osso con la cruna e costruivano persino oggetti ludici. Poi, con l’invenzione della scrittura, diedero vita alle prime civiltà. Ma tutto ciò è già dominio della Storia!
C’è ancora evoluzione? Oppure l’homo sapiens sapiens, l’«uomo due volte sapiente», è il gradino più alto dell’intelligenza? Dalle prime ipotesi, mitiche e religiose, fino alla speculazione filosofica dei giorni nostri, la risposta è stata quasi sempre che l’umanità odierna è il non plus ultra di quanto finora prodotto dalla natura.
Ma l’evoluzione è un fatto tutt’altro che semplice e lineare: la vita sugli alberi dei primi ominidi li ha dotati di un cervello in grado di coordinare movimenti complessi e di un pollice opponibile per afferrarsi saldamente ai rami; la successiva vita nell’oceano verdeggiante della savana li ha costretti ad assumere una postura eretta per scorgere eventuali predatori in agguato tra le erbe alte, e via dicendo; come tutti gli animali, l’uomo rispondeva ai cambiamenti di vita con lenti ma costanti adattamenti. Scientificamente parlando, sarebbe difficile sostenere l’ipotesi che l’evoluzione si sia fermata: possiamo presumere che essa abbia semplicemente cambiato livello di marcia. Come si sa, ad un certo punto dell’evoluzione umana, è avvenuto il fatto della coscienza e dello spirito: Teilhard de Chardin lo chiamerebbe il «passo della riflessione». Quello fu il vero momento della umanizzazione, il punto di svolta in cui l’evoluzione ha iniziato ad essere un fatto sempre più cosciente ed affidato alle scelte della comunità umana; da quel momento, essa ha quasi cessato di marciare sul piano organico ed è scattata sul piano intellettuale, morale e sociale. Come dimostrano recenti studi, i nostri geni sono gli stessi di quelli di un cacciatore-raccoglitore di 40.000 anni fa; il nostro aspetto fisico è identico a quello di un agricoltore del Neolitico, 12.000 anni fa; ma, da allora, il nostro modo di vita è cambiato in maniera radicale, e sta proseguendo a ritmi sempre più accelerati. All’«evoluzione biologica» della specie umana si è ormai sostituita l’«evoluzione culturale».
Quale sarà la nostra evoluzione futura? L’umanità si sta avviando verso un radioso futuro, come vogliono alcuni, o verso l’estinzione, come sostengono altri? La tecnologia, a parere di chi scrive, muterà radicalmente il nostro modo di vivere in un tempo sempre più breve. Se ci adatteremo all’esistenza nello spazio, in assenza di gravità, il nostro scheletro si assottiglierà; le nostre braccia e gambe potranno essere sostituite da protesi meccaniche; robot avanzatissimi svolgeranno i lavori più pesanti, e i nostri discendenti potranno dedicarsi quasi unicamente ad attività ricreative. O forse no, forse siamo sull’orlo del baratro, una società super-specializzata che non ha più la capacità di evolversi ancora: la «sacralità» della vita umana, il diritto di ogni essere, anche malato o gracile, ad un’esistenza pienamente assaporata, se dal punto di vista etico e morale è una grande conquista, paradossalmente dal punto di vista biologico ha portato ad un progressivo indebolimento dell’umanità; fino a 35.000 anni fa, la natura selezionava per la vita e la riproduzione gli individui più sani, robusti e intelligenti; oggi non è più così.
È ben vero che l’evoluzione non è un’equazione con poche o molte variabili, non è una formula matematica; e si misura nell’ordine di migliaia e migliaia di anni. Nessuno può dire come saranno gli uomini fra cento, mille o diecimila anni, se ancora non si saranno estinti. Il futuro della stirpe umana è, più ancora che nel passato, avvolto da un’impenetrabile cortina di tenebre.