L’Induismo
Una religione molto antica, pervasa di una profonda spiritualità

Vishnu

Scultura di Vishnu realizzata in ottone

L’Induismo, a differenza delle altre grandi religioni (Buddhismo, Cristianesimo e Islam) non ha fondatori, né una organizzazione o una dottrina codificate.

L’Induismo si pone come «la religione eterna» ed è caratterizzato dal suo grande, quasi sconcertante eclettismo e dalla sua disponibilità ad aver sempre assorbito, nel corso della storia, nuove ispirazioni e nuove forme di espressioni religiose.

La parola «indù/hindu» significa, semplicemente, «indiano» (dalla stessa radice di Indo), e il modo migliore per definire l’Induismo è forse quello di considerarlo come la somma delle diverse forme religiose sviluppatesi nel Paese dopo l’invasione degli Indoeuropei nell’India del Nord, 3.000 o 4.000 anni fa.

Anche il Cristianesimo e l’Ebraismo possono rifarsi a una tradizione millenaria; il tratto peculiare dell’Induismo, tuttavia, è che tutti gli «strati» storici sembrano convergere in un unico istante. Pur nella sua molteplicità, l’Induismo si può percepire come un tutt’uno, perciò è stato paragonato ad una foresta tropicale, dove convivono le specie diverse di piante e di animali.

Le radici dell’Induismo si possono collocare tra il 2.000 e il 1.500 avanti Cristo, quando i cosiddetti Ariani (cioè «i nobili») giunsero dal Nord nella valle dell’Indo. La religione di questo popolo aveva affinità con altre religioni indoeuropee, come per esempio la greca, la romana e la norrena. Si conosce grazie agli inni dei Veda («veda» significa «conoscenza»), che venivano recitati dai sacerdoti in occasione dei sacrifici ai numerosi dèi. I testi dei Veda, parte dei quali risalgono al 1.500 avanti Cristo circa, sono divisi in quattro raccolte.

Il sacrificio era importante nel culto degli Ariani, che presentavano offerte agli dèi per propiziarli e controllare le forze demoniache, oscure potenze che cercavano di scatenare il caos nell’ordine del mondo.

Il periodo cosiddetto vedico-antico (all’incirca dal 100 al 500 avanti Cristo) è stato un momento centrale nello sviluppo religioso degli Indiani. Speciale importanza hanno rivestito le Upanishad, i testi più letti tra gli induisti, allora come oggi. Sono commentari mistico-filosofico-religiosi al testo dei Veda, in forma di dialogo tra maestro e allievo, e definiscono il concetto di «Brahman», la forza spirituale primordiale che sta alla base di tutto l’Universo. Tutte le creature viventi nascono da Brahman, in esso vivono e ad esso ritornano quando muoiono.

L’Induismo costituisce, oggi, una variegata moltitudine di diverse forme di culto.

Tre elementi, tuttavia, sembrano unire tutti gli indù: la casta, la vacca sacra e il karma.

La distinzione in classi sociali caratterizza tutte le società del mondo, ma non esiste, altrove, un sistema preciso e rigoroso quanto quello indiano. Fin dai tempi antichi si sono formati quattro raggruppamenti principali o classi («varna», cioè «colore», è la parola usata in sanscrito): sacerdoti (bramini), guerrieri, contadini e commercianti e artigiani, servitori.

Man mano che la società indiana andava sviluppandosi, si creavano nuove suddivisioni. All’inizio del secolo scorso si contavano circa 3.000 caste. Il sistema di caste è di origine incerta, e non è provato che sia un ulteriore sviluppo del sistema dei quattro gruppi.

«Casta» è parola portoghese, mentre la corrispondente indiana è «jati», che significa «nascita» o «carattere».

Le caste sono per lo più connesse a determinate professioni. In un villaggio indiano si possono individuare 20-30 caste, i cui appartenenti vivono solitamente all’interno del proprio ristretto raggruppamento di abitazioni. Esistono regole severe per la condotta di vita e le pratiche religiose degli appartenenti alle caste, e queste regole stabiliscono con chi ci si può sposare o avere rapporti sessuali, che cosa è permesso mangiare, quali professioni si possono svolgere. Il concetto religioso che sta alla base del sistema delle caste è quello di puro e impuro. Il contrasto fra puro e impuro impregna tutto l’Induismo. Per un bramino è impuro tutto ciò che ha a che fare con il corpo e la materia; se ci si è resi impuri per una nascita, una morte o un atto sessuale, oppure si è venuti a contatto con un non-appartenente a una casta o con un membro di casta inferiore, occorre purificarsi. E la più nota e tradizionale purificazione avviene per mezzo dell’immersione nell’acqua di uno dei molti fiumi sacri dell’India, come per esempio il Gange. Le regole sulla purezza determinano anche la ripartizione del lavoro all’interno della società e alcune occupazioni o mansioni sono così impure che possono essere svolte solo da determinate caste. Queste hanno il dovere di aiutare gli altri gruppi a conservare la propria purezza. D’altro canto, solo le caste che aspettano le regole per la purezza possono adorare gli dèi principali e perché questo sia possibile è necessario che altri uomini siano impuri. Ma tutti beneficiano della purezza del puro, poiché è nell’interesse di tutti gli indù che i riti siano osservati.

Il sistema di caste in India ha rappresentato la cornice della vita del singolo, così come avviene per la tribù in Africa. Essere espulsi dalla propria casta è la peggiore delle punizioni e viene applicata a chi compie crimini di particolare gravità.

Al livello più basso del sistema di caste stanno gli «intoccabili» o «senza casta», spesso chiamati «paria». Sono ad esempio gli addetti alla raccolta dei rifiuti, i criminali e coloro che in generale hanno a che fare con animali morti.

Del tutto esterni al sistema delle caste sono Cristiani e musulmani.

La Costituzione Indiana, entrata in vigore nel 1947, ha introdotto il divieto di discriminazione per motivi di appartenenza di casta, ma ciò non è sufficiente a cancellare le antiche distinzioni sociali e religiose.

In India la vacca è un animale sacro, adorato in occasione di alcune feste religiose ed il rito è legato ad un antico «culto della fertilità», e nei testi dei Veda vi sono inni dedicati a questo animale perché esso dà all’uomo tutto ciò di cui ha bisogno per vivere. La vacca è divenuto un simbolo di vita e non si può uccidere, ma la società occidentale condanna questo atteggiamento sostenendo che bisognerebbe piuttosto macellare il bestiame per nutrire le folle degli affamati che popolano l’India. Tuttavia se esaminiamo più da vicino il ruolo che la vacca svolge nell’agricoltura del Paese, troviamo aspetti positivi, difatti il 70% della popolazione vive dei prodotti della terra e c’è gran carenza di bestie da soma e da traino in quanto sono pochi coloro che posseggono attrezzi agricoli e trattori. Inoltre lo sterco di vacca serve non solo come fertilizzante, ma anche come combustibile. Per quanto riguarda gli aspetti del culto, la vacca è più pura del bramino, toccare uno di questi animali, quindi, costituisce un rito purificatore e tutti i prodotti della vacca, latte, burro, e persino lo sterco e l’urina si usano in una serie di cerimonie di purificazione. Per gli indù, oltre la vacca, altri animali sono sacri: la scimmia, il coccodrillo e il serpente. Inoltre la religione condanna l’uccisione degli animali e ciò ha favorito l’affermarsi delle diete vegetali e ha gettato le premesse per quell’ideale della non-violenza, noto in Occidente soprattutto grazie a Gandhi e alla sua battaglia per l’affrancamento dal colonialismo inglese.

La teoria che l’uomo possieda un’anima immortale è al centro della filosofia delle Upanishad: «Non invecchia quando si invecchia, e non muore quando si viene uccisi».

Un indù crede che l’anima umana dopo la morte si reincarni in un altro essere vivente e possa prendere dimora anche in un animale. Nel ciclo della reincarnazione si passa da una esistenza all’altra con costanza inesorabile e la molla originaria di questa costanza, o la forza che la mantiene in atto, è il «karma», termine sanscrito che significa «azione», «atto». Anche pensieri, parole e sentimenti sono karma.

L’Induismo non riconosce alcun «destino cieco» né Provvidenza Divina; ognuno è il solo, unico responsabile della vita presente, e di quella successiva; l’uomo raccoglie ciò che semina.

Nel periodo vedico la legge del karma e la reincarnazione erano considerate come un fatto positivo. Con offerte sacrificali e buone azioni ci si poteva aspettare di vivere numerose vite. Nell’Induismo più tardo tale processo ha assunto un significato negativo, quello di un ciclo malefico da cui bisogna liberarsi.

Non si trova, nell’Induismo, un’unica, chiara dottrina della salvezza che insegni come l’uomo possa sfuggire al ciclo eterno della reincarnazione. Le innumerevoli correnti e sette hanno concezioni diverse. È possibile, tuttavia, delineare tre diverse vie per la salvezza, ciascuna delle quali ha svolto un ruolo importante nella storia dell’India ed è ancora rilevante nell’Induismo attuale: la via delle cerimonie sacrificali, la via della conoscenza e la via dell’abbandono.

Queste vie per la salvezza rappresentano le tre tendenze principali dell’Induismo. Il fedele può sceglierne una o può anche, nella sua pratica religiosa, ispirarsi a tutte e tre.

La via delle cerimonie sacrificali: la parola indiana karma sta per «azione» e oggi questo termine si usa per indicare tutte le azioni dell’uomo, o il risultato finale di tali azioni. Nel periodo vedico la parola karma era usata in rapporto alle cerimonie religiose o rituali, soprattutto sacrificali, dato che queste erano necessarie per migliorare la fertilità e mantenere l’ordine del mondo. Ancora oggi questa antica pratica delle offerte, ampiamente descritta nei Veda, occupa un posto importante nell’Induismo. Molti indù cercano di assicurarsi felicità terrena, buona salute, ricchezza ed altro mediante le offerte di sacrifici e le buone azioni. Lo scopo finale, cioè la liberazione dal ciclo malefico della reincarnazione, rimane comunque lo stesso per tutto l’Induismo.

La via della conoscenza o della percezione: un concetto centrale nelle Upanishad è che l’uomo è legato al ciclo eterno delle reincarnazioni dall’ignoranza, mentre la via alla salvezza è costituita dalla comprensione della vera natura dell’esistenza. Nel momento in cui l’uomo raggiunge il giusto grado di conoscenza, viene liberato dalla condanna della reincarnazione.

Si è salvi quando si acquisisce la consapevolezza che l’anima dell’uomo («atman») è una cosa sola con l’anima del mondo («brahman»). Atman infatti non appartiene solo all’uomo, ma anche alle piante e agli animali. Chiamiamo questo tipo di concezione panteismo. Brahman è il principio portante di tutto l’Universo, una forza che pervade ogni cosa, una divinità impersonale; e tutte le anime individuali sono un riflesso di quest’unica anima del mondo. L’uomo è liberato dal ciclo della reincarnazione nel momento in cui assume piena coscienza dell’unità di atman e brahman.

La via dell’abbandono: è una terza via per la salvezza, nata nell’India Meridionale intorno al 600 dopo Cristo e diffusasi ben presto in tutto il Paese. Già nel III secolo avanti Cristo questa via, la più seguita nell’Induismo attuale, aveva trovato la sua espressione letteraria nella Bhagavadgita, il poema religioso che costituisce il più importante testo sacro degli induisti.

Punto di partenza di tutte e tre le vie per la salvezza è la dottrina del karma. La via delle cerimonie sacrificali si basa sul principio che l’uomo può raggiungere la salvezza attraverso i riti. Alcune correnti filosofiche, invece, sostengono l’opposto: non sono le offerte sacrificali ma è l’ascesi che permette all’uomo di sopprimere l’intero karma e di sottrarsi una volta per tutte al ciclo eterno. La Bhagavadgita, pur non rifiutando queste vie tradizionali alla salvezza, ne indica una migliore e più semplice: se l’uomo si abbandona a Dio e compie le cerimonie della tradizione senza secondi fini, cioè senza pensare al proprio vantaggio, la grazia divina lo libererà dalla trasmigrazione.

La Bhagavadgita propone un rapporto con Dio più personale di quello descritto nei Veda. Questo rapporto è caratterizzato dall’amore e dall’abbandono dell’uomo a Dio in una relazione Io-Tu. Ciò non significa tuttavia che la Bhagavadgita sia contraria alle cerimonie sacrificali e alla percezione religiosa; anzi, sia «l’offerta materiale» sia «l’offerta concettuale» sono valutate in modo positivo, poiché è unico il Dio che le riceve e questi è il Brahman dei filosofi. Ma non ci si devono attendere vantaggi di sorta dalle cerimonie sacrificali e dagli esercizi yoga. È solo per grazia di Dio che l’uomo viene liberato dal ciclo eterno, indipendentemente dai propri sforzi. La via più sicura per la salvezza è l’abbandono in Dio e la fede. Il termine sanscrito per esprimere questo abbandono è «bhakti». Significativo è anche il fatto che tutti gli uomini, indipendentemente dal sesso e dalla casta a cui appartengono, possono raggiungere la salvezza per il tramite dell’abbandono in Dio.

La molteplicità nell’Induismo trova infine espressione nella rappresentazione degli dèi. L’Induismo più filosofico ha una «concezione panteista»: la divinità non è un’entità in sembianza di persona, ma una potenza che pervade tutto, oggetti inanimati, piante, animali e uomini. All’estremo opposto troviamo una «concezione politeista», caratterizzata dalla fede in una grande quantità di dèi. Quasi ogni villaggio ha la propria divinità locale.

Il culto si concentra, soprattutto, su due dèi, entrambi con radici nei Veda. Uno è Vishnu, un Dio mite e affabile, spesso rappresentato nelle sembianze di un bel giovinetto. Nell’Induismo moderno ha assunto particolare importanza nella sua duplice manifestazione di Rama e Krishna. La più popolare delle due manifestazioni (o «discese») è quella rappresentata da Krishna, adorato come un onnipresente Re del mondo. Spesso è raffigurato come un pastore e le sue avventure erotiche con le pastorelle sono interpretate in chiave metaforica come simbolo dell’amore di Dio per gli uomini. Analoga interpretazione si dà al rapporto di Krishna con la sua amata Radha. Il loro amore, la separazione e il ricongiungimento simboleggiano la ricerca dell’anima che aspira all’unione finale con Dio.

Molto diffuso è anche il culto dell’altro Dio, Shiva, che è il Dio dello yoga e della meditazione e viene spesso rappresentato come asceta. È anche un Dio estatico e selvaggio. Creatore e distruttore insieme, e ciò lo rende ad un tempo spaventoso e affascinante. Porta malattia e morte, ma anche guarigione e vita. Nella tradizione bhakti, Shiva è rappresentato invece come un Dio misericordioso che libera l’uomo dalla trasmigrazione dell’anima.

La filosofia religiosa indiana è spesso sostenuta dalla fede in un Dio eterno. Non è però specificato se questi sia Vishnu, Shiva o un altro. A ciascuno è lasciata la libertà di adorare Dio in questa o quella forma. Nelle speculazioni erudite, Vishnu e Shiva sono spesso concepiti assieme al Dio Brahma come una trinità: Brahma è il creatore, che dà forma al mondo; Vishnu è colui che conserva le leggi di natura e l’ordine del creato e Shiva è il distruttore che alla fine di ogni epoca demolisce il mondo il quale poi sarà ricreato da Brahma. Le tre figure rappresentano dunque la funzione creatrice, conservatrice e distruttrice di Dio. Nella visione religiosa popolare, tuttavia, questa dottrina ha un significato minore.

Nell’Induismo si trovano anche diverse divinità femminili. Alcuni ritengono che le numerose dee altro non siano che modi diversi di rappresentare un’unica grande divinità femminile, «Regina dell’Universo», o «Dea madre». La versione più conosciuta è Kali, che gradisce sacrifici animali ed è venerata soprattutto nell’India Orientale. Essa spesso è raffigurata nell’atto di calpestare il corpo di Shiva e ciò fa capire quale grande importanza abbia tra le divinità indù.

La scelta di «Madre India» – «Bharat Mata» – come divinità nazionale nell’India moderna sta ad indicare quanto radicato sia il culto delle divinità femminili nella regione indiana. A lei è dedicato un tempio nella città sacra di Varanasi, dove invece della consueta immagine divina è esposta e venerata una grande mappa dell’India.

Nella maggior parte dei villaggi vi sono templi dedicati a Vishnu o a Shiva che sono visitati dai fedeli soprattutto in coincidenza delle maggiori solennità. Nella vita di tutti i giorni, invece, la gente è solita frequentare i templi delle divinità minori alle quali è più facile rivolgersi anche per piccole necessità personali.

L’intervento degli dèi minori può essere invocato in campi particolari, come la salute. Molti di essi hanno origine esclusivamente umana: in vita erano stati eroi morti in guerra o mogli fedeli che si sono fatte bruciare insieme al cadavere del marito. Alcuni sono gli spiriti di uomini malvagi che devono essere adorati perché ne sia neutralizzata la malvagità.

La maggior parte dei fedeli induisti dispone, nella propria casa, di un’apposita stanza o un piccolo altare posto in un angolo e ornato con una o più immagini divine. Vengono preparati acqua, incenso, cibo e decorazioni floreali. Alcuni celebrano una funzione («puja») più volte al giorno, altri in un giorno particolare della settimana (di regola il venerdì). Il rito può variare di casa in casa, ma sempre comprende offerte, preghiera, recitazione di testi sacri e meditazione. Prima del puja un indù compie un bagno purificatore, quindi, seguendo regole ben precise, depone sull’altare le sue offerte: riso, frutta o fiori. Poi si prostra sul pavimento davanti alle immagini divine e, con le mani congiunte, scandisce il nome di un Dio o recita un brano tratto dai testi sacri. Ma è anche praticata la preghiera libera e personale. Non è necessario per un indù recarsi al tempio, anche se le funzioni religiose nei templi sono molto frequentate e ogni villaggio indiano dispone di almeno un tempio. La cerimonia comincia con il «risveglio» del Dio a suon di musica, poi l’immagine divina viene lavata e riceve, ripetutamente nel corso della giornata, offerte di cibo. I fedeli che si recano al tempio recitano preghiere agli dèi, offrono fiori o altri doni oppure ascoltano i sacerdoti che spiegano i testi sacri.

Per un indù, «fare» è più importante che «pensare». Cioè la giusta prassi è più importante della giusta fede: il rito religioso è più importante del contenuto della fede stessa.

Anche se la vita religiosa in India è varia e multiforme, gli Indiani sono accomunati dal «dharma», una legge o etica di vita valida per tutti. Ciò non implica che tutti gli uomini siano simili tra loro; il dharma comprende i doveri verso la famiglia, la casta e la società nel suo insieme; ma questi variano da individuo ad individuo e da casta a casta, fin dalla nascita.

I quattro stadi della vita: nella Bhagavadgita tutte e tre le vie della salvezza sono considerate preziose; allo stesso tempo si sottolinea l’importanza di compiere il proprio dovere in famiglia e nella società. Fin dai tempi antichi la vita dell’uomo, in relazione alla conoscenza, all’adorazione religiosa, al dovere di casta e all’ascesi si svolge attraverso quattro diversi stadi. Questa suddivisione vale in primo luogo per i bramini maschi, ma anche le caste dei guerrieri e dei contadini possono adottarla in tutto o in parte. I «quattro stadi della vita», tuttavia, rappresentano un ideale che non a tutti è dato realizzare.

All’età di otto anni, un giovane bramino diviene «allievo» di un maestro («guru»), il quale lo istruisce nei testi sacri e, nel corso di una cerimonia, gli dona il «filo sacro». Da quel momento il giovane è considerato «rinato» o «nato per la seconda volta». Completati gli studi, l’uomo vive un periodo come «padre di famiglia»: si sposa, ha figli, frequenta le funzioni religiose, compie i suoi doveri di casta e gode dei piaceri della vita. Questa fase dura finché i suoi nipoti cominciano a crescere. A quel punto egli entra nella «fase contemplativa» della sua vita; da solo o con la moglie si ritira in un luogo appartato, che in passato era spesso un bosco e che oggi è per lo più un convento o un centro religioso («ashram»).

Il quarto ed ultimo stadio è quello dell’ascetismo vero e proprio. Il vecchio si priva di tutto ciò che possiede e inizia a vagabondare senza fissa dimora; vive di elemosina e si dedica interamente alla conoscenza di sé. I doveri di casta e tutti i legami terreni sono sciolti, e in lui prende dimora «il divino».

Anche per quanto riguarda la concezione della donna e il suo ruolo nella società e nella religione, l’India è il continente dei grandi contrasti. Nei Veda è detto che uomo e donna hanno pari valore, «come le due ruote di un carro». Questo concetto, però, raramente è stato tradotto in pratica. In un codice di leggi indiano di 2.000 anni fa si legge, a proposito del ruolo della donna: «Ciò che per il fanciullo è lo studio e il servizio nella casa del maestro, deve essere per la fanciulla abitare presso il marito, assisterlo nei suoi doveri e ricevere i suoi insegnamenti. Custodire il fuoco sacro, così come il suo sposo le insegna, corrisponde al servizio del fanciullo presso il fuoco sacrificale del maestro».

In India le donne sono spesso considerate «proprietà» del marito. Una donna non sposata gode di uno status inferiore, e una donna sposata senza figli vive in una condizione precaria.

D’altro canto l’India è stato uno dei primi esempi di Stato governato da una donna. Molte donne hanno una grande influenza pubblica, e in nessun altro Paese del Terzo Mondo le donne che lavorano fuori casa sono così numerose. In questo contesto, l’appartenenza ad una casta può avere un’importanza decisiva. Anche il culto di numerose divinità femminili può contribuire a rafforzare l’autoconsiderazione delle donne.

(febbraio 2016)

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