Un «giallo» dell’Età del Rame: il «caso» di
Ötzi
Una precisa e minuziosa indagine: il primo
caso documentato di omicidio nella Storia umana
Quello che proporrò in questo contributo è un vero e proprio «giallo», nel senso classico della parola: una storia che potrebbe essere uscita dalla penna di Agatha Christie, ma che è molto più avvincente di qualsiasi suo romanzo... perché è una storia accaduta realmente!
È il 19 settembre del 1991 e una coppia di turisti tedeschi di Norimberga, Herbert ed Erika Simon, sta facendo un’escursione sulle Alpi Venoste vicino al rifugio Similaun a 3.210 metri di altezza; i due si trovano nel ghiacciaio di Schnalstal, presso il Passo Hauslabjoch. Nella primavera, scura sabbia sahariana portata dai venti ha ricoperto il manto nevoso facilitando in estate l’assorbimento dei raggi solari e lo scioglimento del ghiaccio. All’improvviso, abbandonando il sentiero marcato in cerca di una scorciatoia, gli escursionisti vedono affiorare dal ghiaccio qualcosa di glabro e tondo, una testa e una spalla, che a prima vista sembrano appartenere a una bambola. Ma guardando meglio si accorgono che si tratta di resti umani essiccati: una mummia!
I due pensano che si tratti di un altro escursionista caduto in un crepaccio, una delle tante vittime del ghiacciaio, e si affrettano verso la baita più vicina per segnalare il ritrovamento. Il custode della baita, incerto se il corpo si trovi in territorio italiano o austriaco, avverte sia i carabinieri italiani che la gendarmeria austriaca.
Entrambi se la prendono comoda, ed è solo dopo molte ore che un elicottero austriaco arriva, passa senza problemi il confine (la mummia si trova infatti in territorio italiano, anche se per poche decine di metri) e ne discende un poliziotto. E qui comincia lo scempio!
Dapprima l’uomo tenta di liberare il corpo usando una specie di martello pneumatico, che per fortuna si blocca quasi subito. Nel frattempo sono giunti altri escursionisti, che scattano fotografie e, a colpi di piccozza, cercano di liberare la mummia e intanto prelevano qualche oggetto che l’uomo portava con sé. Finché il 23 settembre giunge da Innsbruck un medico legale.
I maltrattamenti alla mummia non sono finiti: nell’obitorio della città austriaca l’Uomo del Similaun, come è chiamato, in un’affollata conferenza stampa viene mostrato ai giornalisti, che hanno il permesso di scattargli foto col flash, alitargli sul corpo e persino toccarlo. Solo con l’arrivo del Professor Konrad Spindler, direttore dell’Istituto di Preistoria dell’Università di Innsbruck, il reperto – sul quale è già comperso un fungo – viene protetto e refrigerato, eccezion fatta per i brevi periodi necessari alle TAC e agli esami di laboratorio.
Ai primi di ottobre l’Italia rivendica la proprietà della mummia, che gli esami topografici mostrano sia affiorata nel Belpaese. Dapprima gli Austriaci si rifiutano di cederla, poi si arriva a un accordo che prevede che Ötzi (così l’hanno battezzato i Tedeschi, prendendo spunto dalle Alpi dell’Ötztal) venga ceduto alle autorità altoatesine il 19 settembre 1994: in realtà, gli Austriaci lo terranno fino al gennaio del 1998, dopo aver fatto tutte le indagini ritenute necessarie. Attualmente, l’Uomo del Similaun riposa – si spera per sempre – al Museo Archeologico dell’Alto Adige di Bolzano, disteso nella semioscurità del primo piano, interamente dedicato all’Età del Rame: fascino, meraviglia e una certa commozione colgono il visitatore che si trova a tu per tu con questo testimone del nostro lontanissimo passato.
Esami condotti in Austria, in Germania (anche dal Bundeskriminalamt, il laboratorio centrale della polizia tedesca) e in Italia arrivano a datare la mummia a un’età di circa 5.300 anni; a quel tempo in alcune zone del Medio Oriente e a Gerico esistono già grandi città, in Egitto vige la mummificazione rituale dei defunti mentre l’Italia – e non solo la Penisola, ma la maggior parte del pianeta – sembra immersa in una lunga preistoria. Quando è morto, Ötzi ha circa 45 anni, è alto un metro e 60 centimetri e pesa una cinquantina di chili; ha capelli di colore castano scuro, lunghi fino alle spalle e ondulati, probabilmente portati sciolti, e la barba; una fossetta sul lobo dell’orecchio destro fa pensare alla presenza di un orecchino, che però non ci è stato conservato. Possiamo immaginarlo come un individuo temprato dalla vita all’aperto, con la pelle bruciata dal sole solcata da rughe e cicatrici, il viso scarno, gli occhi infossati, i capelli lunghi e arruffati. In un giorno di primavera o d’inizio estate (nel suo intestino si sono trovati pollini di prugnola, che si raccoglie tra luglio e novembre, e di carpinella, che fiorisce solo fino a giugno), Ötzi si ferma a riposare presso dei massi, ormai allo stremo delle forze, nel mezzo di un passo alpino spazzato da un vento gelido. Sotto di lui ci sono le foreste, abitate da lupi e orsi, e più oltre ancora, verso Sud, le valli coi loro villaggi protetti da palizzate di legno. Apre la borsa di corteccia dove tiene avvolti in foglie verdi alcuni pezzi di carbone di legna, ma il passo è troppo alto per trovarvi i ramoscelli e la paglia necessari ad alimentare un fuoco; impugna l’ascia dalla lama di rame, depone tutt’intorno a sé i suoi averi, si corica sul fianco sinistro e posa il capo sul suolo. Si addormenta e non si sveglierà più. I venti alpini, particolarmente freddi, provocano la rapida deidratazione del corpo accelerando il processo di mummificazione naturale, mentre un’abbondante nevicata lo protegge dagli attacchi degli animali necrofagi e dalla decomposizione.
Ötzi, secondo alcuni studi condotti sui marcatori genetici del suo cromosoma Y, era discendente da contadini originari del Medio Oriente. Confrontando i minerali accumulati nel suo smalto dentario con campioni di terreno prelevati nelle regioni limitrofe al suo luogo di ritrovamento, gli esperti sono giunti alla conclusione che era cresciuto in Val d’Isarco (Alto Adige); sono stati accertati stretti contatti con la cosiddetta «cultura di Remedello», insediata sul versante alpino meridionale e sulle Alpi Lombarde, che fabbricava asce, pugnali e punte di freccia uguali a quelle dell’Uomo del Similaun; anche i reparti lignei, fatti con specie arboree tipiche del bosco misto che predomina in Val Venosta, e i pollini di carpinella, trovati nell’intestino di Ötzi, testimoniano una sua permanenza in Val Venosta 12 ore prima della sua morte... secondo la ricostruzione di molti scienziati, Ötzi sarebbe stato di Bressanone. Altoatesino, quindi, ma – a giudicare dagli studi condotti sul suo DNA e dalla mappa genetica ottenuta da un gruppo internazionale dell’Accademia Europea di Bolzano – molto più simile a Sardi e Córsi piuttosto che agli Altoatesini di oggi. Il suo gruppo sanguigno era 0.
Una domanda s’impone: che cosa ci faceva, Ötzi, lassù?
Per rispondere si è studiato il corredo che l’uomo aveva con sé, fatto di materiali che in genere non si conservano, come per esempio l’ascia, un coltellino, delle frecce, tutti immanicati. Era perfettamente equipaggiato per l’alta montagna: aveva una sopravveste di pelliccia per proteggersi dal freddo e dal vento, un berretto di pelliccia d’orso provvisto di stringhe di pelle come sottogola (il più antico del genere trovato in Europa), gambali che gli consentivano di muoversi liberamente, una stuoia d’erba da gettarsi sulle spalle in caso di pioggia o neve perché le gocce scorressero via senza inzuppare i sottostanti indumenti di pelliccia (insomma, un vero e proprio poncho); i vari tipi di pelle erano stati conciati con il grasso e in parte affumicati per aumentarne l’impermeabilità. Ötzi aveva anche un fungo da usare come miccia naturale per accendere il fuoco che custodiva all’asciutto in una taschina di pelle applicata alla cintura, e un contenitore in cui trasportava le braci dell’ultimo focolare, grazie alla quali poteva accendere più rapidamente nuovi fuochi. Un contenitore in corteccia di betulla, morbido e leggero, era utilizzato per conservare le provviste di viaggio: vicino al corpo di Ötzi sono stati trovati due chicchi di grano, delle susine, diverse specie di erbe e dei piccoli funghi commestibili. Molti oggetti sono incredibilmente simili a quelli che usiamo noi: le calzature di Ötzi erano costituite da una scarpa esterna e una interna, con stringhe di pelle che s’incrociavano sotto le suole per assicurare una buona tenuta sui terreni impervi, come le moderne scarpe da montagna; annodato alla cintura portava un pugnale di selce per tagliare, praticare incisioni o fare a pezzi le prede, e anche oggi si sa che in montagna è sempre bene tenere a portata di mano un coltellino da tasca; né mancava il pronto soccorso, una piccola «farmacia da viaggio», dato che Ötzi aveva con sé due palline di poliporo di betulla, un fungo con proprietà disinfettanti e antiemorragiche in uso fino agli inizi del XX secolo (gli antiemorragici sono consigliati anche ai giorni nostri a chi va a fare escursioni in alta quota).
Markus Egg, archeologo del Romisch-Germanisches Zentralmuseum di Magonza in Germania, nega che Ötzi fosse salito in montagna, come si potrebbe credere in un primo momento, per cacciare: sue prede erano probabilmente i cinghiali, gli stambecchi e i cervi, oltre agli orsi, agli uccelli e agli uri (grossi buoi selvaggi dalle lunga corna, oggi estinti); gli animali venivano utilizzati in ogni loro parte, le carni come cibo, le pelli per confezionare gli abiti, le ossa e le corna per fabbricare utensili, i tendini per cucire e per le corde degli asrchi, le piume per le estremità delle frecce. Ma l’arco che Ötzi aveva con sé, in legno di tasso, non era finito (mancavano gli incavi per fissare la corda e poter tirare le frecce), la faretra era rotta e le frecce che aveva con sé erano per lo più rotte e riparate; impossibile cacciare con quelle armi! Non stava cercando minerali, mancando gli attrezzi adatti a quell’attività, non era un contadino perché non avrebbe potuto assentarsi per troppo tempo dai suoi campi o dai suoi animali di allevamento, non era un mercante perché non aveva nulla da offrire come merce di scambio, non era uno sciamano perché non indossava alcuna veste cerimoniale[1]. Doveva essere un pastore nomade, come ipotizzato da un gruppo di ricercatori dell’Università del Saarland in Germania, anche se sui suoi abiti non c’è traccia di peli di pecora, capra o cane: sin dal Neolitico, gli alpeggi di alta montagna dell’Ötzal Superiore erano utilizzati per il pascolo e ancor oggi i pastori della Val Venosta conducono le pecore oltre confine fino agli alpeggi dell’Ötzal percorrendo la stessa strada che aveva fatto Ötzi prima di morire. Ma per l’archeologo e storico Paul Gleirscher, questa ipotesi non sarebbe coerente con il valore delle armi trovate accanto al suo corpo: oltre all’arco e alla faretra con le frecce, Ötzi aveva con sé anche un’ascia di rame, metallo particolarmente prezioso all’epoca (il ritrovamento dell’ascia ha permesso di retrodatare l’inizio dell’Età del Rame; in Italia la metallurgia era un’attività fiorente e sarebbe rimasta all’avanguardia per diversi secoli): un dettaglio, quello dell’ascia, che farebbe pensare a una sua appartenenza a qualche famiglia nobiliare, dato che asce e pugnali di metallo, come ci mostrano delle figure di pietra istoriata tipiche del periodo, indicano guerrieri e capi di comunità. Di certo, Ötzi sapeva districarsi in molte attività: sapeva accendere il fuoco del bivacco, fabbricarsi da solo le armi per procurarsi il cibo, riparare attrezzi e indumenti, scegliere i materiali di volta in volta più adatti e impiegarli sfruttandone al meglio le caratteristiche.
Ma se era così preparato, perché è morto?
Ötzi non era in buona salute: aveva le articolazioni logorate, le arterie indurite, calcoli biliari, un’escrescenza sul quinto dito del piede, la pancia piena di uova di parassiti; era privo dei denti del giudizio e della dodicesima coppia di costole; tra i capelli sono stati rinvenuti resti di mosca cavallina, un insetto che si nutre succhiando il sangue dell’organismo ospite. Doveva soffrire terribilmente. Nel suo organismo erano inoltre presenti tracce di arsenico ben sopra i livelli di guardia (segno che aveva partecipato, anche solo passivamente, all’estrazione e alla lavorazione dei metalli), era intollerante al lattosio, aveva la predisposizione alle malattie cardiovascolari, l’«helicobacter pylori» e, probabilmente, anche la malattia di Lyme. Negli ultimi mesi di vita aveva sofferto di un forte stress immunitario. Per curarsi, oltre alle erbe, utilizzava una forma primitiva di agopuntura a scopo terapeutico (almeno 2.000 anni prima di quella che fino a oggi veniva considerata la sua nascita): sul suo corpo sono stati trovati circa 50 tatuaggi di colore blu, ottenuti non con degli aghi ma con tagli sottili sotto la pelle, poi strofinata sul carbone; i segni si trovano in particolare in corrispondenza delle parti del corpo più delicate, come le giunture, e sulle linee meridiane usate dalla tradizionale agopuntura cinese. Ma Ötzi non è morto di malattia.
Dalla frattura di tre coste avvenuta prima della sua morte, da una profonda ferita da taglio sulla mano destra e dallo stato di frecce e faretra, Spindler ha dedotto che l’Uomo del Similaun fosse un fuggitivo, un sopravvissuto a uno scontro in cerca di scampo, un reietto, ipotesi che cozza però col fatto che fosse nei pressi di un valico molto frequentato a quei tempi. Nella primavera del 2001 si sono prelevati dalla mummia alcuni campioni per ulteriori indagini scientifiche: durante la radioscopia, eseguita con un tomografo computerizzato e un apparecchio a raggi X, i medici dell’Ospedale Regionale di Bolzano hanno notato la presenza di una punta di freccia vicino alla spalla sinistra[2]: la freccia è stata scagliata da qualcuno che si trovava alle spalle di Ötzi, un po’ più in basso e a sinistra, e si è fermata nella gabbia toracica a 15 millimetri dal polmone. L’uomo è riuscito a strapparsi via la freccia, ma la punta è rimasta confitta nel corpo; Ötzi è morto a causa di un’emorragia. Si tratta del più antico delitto – documentato in modo inoppugnabile – nella storia dell’umanità.
Altre domande rimangono senza risposta: perché l’Uomo del Similaun fu ucciso? Per rubargli qualcosa di prezioso, magari un gregge di pecore? O si trattò di una lotta per il potere? Probabilmente, l’autore dell’omicidio rimarrà per sempre sconosciuto.
Vorremmo concludere questo breve articolo con la notizia che Ötzi non è realmente morto del tutto: tempo fa, molte testate giornalistiche hanno pubblicato i risultati di una ricerca della Medical University di Innsbruck che, come ha spiegato Walter Parson dell’istituto di medicina legale, ha scoperto 19 persone (su un campione di 4.000) con marcatori genetici presenti nel cromosoma sessuale maschile dell’Uomo del Simualun; in comune con lui hanno una rara mutazione genetica nota come G-L91, e non si sono nemmeno spostati di tanto dalla sua casa, trattandosi di abitanti del Tirolo Austriaco. Dire, però, che sono diretti discendenti di Ötzi è una forzatura: una ricerca del 2011 dell’EURAC di Bolzano ha rilevato una frequenza molto elevata di G-L91 nelle popolazioni del Nord della Sardegna e in Corsica (25%). Lo stesso EURAC sta portando avanti l’esame del DNA mitocondriale: almeno finora, però, la linea genetica mitocondriale riscontrata nella mummia non è stata rinvenuta in alcun individuo moderno. Insomma, anche se è morto da oltre 5.000 anni, è come se Ötzi ci continuasse a parlare. E volesse essere ascoltato.
1 Forse l’idea che Ötzi fosse uno sciamano ha
dato linfa alla credenza dell’esistenza di una maledizione
diretta contro chiunque avesse avuto a che fare con lui o,
meglio, avesse tentato di trarre profitto dalla sua scoperta.
Vi sono varie morti «strane» legate all’Uomo del Similaun, a
cominciare da Rainer Henn, un patologo legale dell’Istituto di
Medicina Legale dell’Università di Innsbruck: fu a capo della
squadra che esaminò il corpo di Ötzi, sollevò egli stesso il
corpo della mummia a mani nude e lo depose in un sacco per
cadaveri. Morì a causa di uno scontro frontale in auto nel
luglio 1992, mentre si stava recando a una conferenza per
presentare nuove ricerche proprio su Ötzi. Aveva 64 anni.
L’anno successivo a morire fu Kurt Fritz (52 anni), un esperto
scalatore, travolto da una valanga in una regione con cui
aveva familiarità. Aveva ricevuto finanziamenti e organizzava
dei giri turistici al luogo del ritrovamento di Ötzi.
Rainer Hoelzl, di 47 anni, fu la terza vittima. Era un
giornalista che aveva filmato un documentario esclusivo sulla
rimozione del corpo di Ötzi dal ghiaccio per la televisione
austriaca; alcuni mesi più tardi contrasse una malattia, forse
un tumore al cervello, e morì tra atroci sofferenze, nel
febbraio 2004.
Helmut Simon era il turista che aveva scoperto il corpo di
Ötzi. Tornò sulle Alpi da solo nell’ottobre 2004, per
festeggiare la vittoria di una battaglia legale che gli aveva
riconosciuto la somma di 50.000 sterline come scopritore della
mummia. Quando non fece ritorno, furono allertati i soccorsi.
Le condizioni del tempo erano peggiorate e avevano fatto
precipitare Simon in un crepaccio profondo quasi 100 metri. Il
suo corpo fu trovato tre settimane dopo, coperto di ghiaccio
come la «sua» mummia, a circa 200 metri dal punto in cui era
morto Ötzi. Non aveva ancora firmato i documenti legali per
l’assegnazione della somma, così sua moglie non ricevette mai
quel denaro. Aveva 67 anni. (Il suo caso, a ben vedere, è un
po’ insolito: secondo i soccorritori si verificano appena uno
o due incidenti mortali all’anno in quella zona e le tormente
sono abbastanza rare in quel periodo dell’anno; ma resta il
fatto che Simon camminò fuori dal sentiero).
Il capo della squadra di soccorritori che aveva cercato Simon
era la quarantacinquenne Dieter Warnecke: morì d’infarto,
sebbene fosse in perfetta salute, meno di un’ora dopo la
sepoltura di Simon.
La sesta vittima fu il professor Friedrich Tiefenbrunner,
morto nel gennaio 2005 durante un’operazione a cuore aperto.
Aveva scoperto un metodo per proteggere la mummia contro gli
attacchi di funghi e batteri.
Konrad Spindler (66 anni) era un esperto di primo piano di
Ötzi; era stato il primo a ispezionare il corpo della mummia.
Soffriva di sclerosi laterale amiotrofica. Della presunta
maledizione, diceva: «Penso che sia un mucchio di spazzatura.
È solo una gonfiatura mediatica. Di sicuro ora diranno che io
sarò il prossimo». Nell’aprile del 2005 le sue condizioni si
aggravarono e lo portarono alla morte.
Tom Loy fu l’ultima vittima «ufficiale» di Ötzi. Aveva 63
anni. Era il direttore dei Laboratori di Scienze archeologiche
all’Istituto di Bioscienza Molecolare dell’Università del
Queensland. In molte occasioni era entrato in contatto fisico
con la mummia, aveva identificato residui di sangue umano
sulla mantella di pelliccia di Ötzi e sangue di qualche
animale sulle sue frecce. Poco dopo le analisi condotte
sull’Uomo del Similaun, gli fu diagnosticata una patologia
pregressa del sangue. Morì nel novembre del 2005; stava
terminando di scrivere un libro su Ötzi, che i familiari
avrebbero voluto veder pubblicato, ma di cui non sono riusciti
a trovare il manoscritto.
In tutte queste morti si riscontrano senz’altro elementi che
riconducono al concetto e all’immaginario delle maledizioni,
primo fra tutti il fatto che tutte le vittime erano entrate in
contatto con la mummia, ma molti studiosi hanno eseguito
analisi ed esami sul corpo di Ötzi senza aver avuto
conseguenze. L’archeologa Angelika Fleckinger, Direttore del
Museo Archeologico dell’Alto Adige di Bolzano, in cui è
conservata la mummia, ribadisce che «la gente muore, è un
fatto normale. Più di 150 scienziati sono entrati in contatto
con la mummia e la maggior parte di loro sta assolutamente
bene». Come stanno bene i 250.000 turisti che visitano la
mummia di Ötzi ogni anno.
2 Gli Austriaci avevano notato il foro di entrata della freccia ma non vi avevano dato importanza, pensando che fosse stato provocato da una piccozza durante le maldestre operazioni di recupero del corpo.