Il pessimismo di Arthur Schopenhauer
Un pensatore «triste», per il quale il
mondo è cattivo e dominato da una forza cieca ed oscura
Jules Lunteschütz, Arthur Schopenhauer, 1855
Filosofo tedesco, nacque a Danzica nel 1778, da agiata famiglia olandese.
Avviato alla carriera commerciale dal padre, alla quale non era portato, dopo la morte del genitore (1805) si diede agli studi filosofici e letterali verso i quali aveva vera passione. Fece il ginnasio a Gotha, poi proseguì a Weimar, indi passò all’Università di Gottinga (dove lo Schulze gli fece conoscere Platone) ed a Berlino dove seguì le lezioni di Fichte, rimanendone disgustato.
Nel 1813 ottenne il dottorato in filosofia dall’Università di Jena, con la tesi sulla: Quadruplice radice del principio di ragion sufficiente. Risedette a Weimar, per un certo periodo, con la madre Johanna Trosieuer, donna letterata ed amica di Goethe.
Nel 1814 Schopenhauer si ritirò a Dresda, ove compose il suo capolavoro: Il mondo come volontà e come rappresentazione, edito nel 1818. Fece viaggi in Italia e a Berlino tentò, senza successo, di iniziare la carriera universitaria come libero docente, ove Hegel esercitava un dominio assoluto.
Disgustato, nel 1831, si trasferì a Francoforte sul Meno, dove si stabilì, definitivamente, dal 1833 e vi morì nel 1860.
Qui visse vita ritirata, da «pessimista epicureo», componendo varie opere nelle quali veniva sviluppando ed illustrando la dottrina già esposta nel suo capolavoro. L’ultimo periodo della sua vita ebbe una vasta pubblicità, anche se tardiva.
Schopenhauer si riallaccia alla dottrina di Kant, in modo particolare per quanto riguarda la sua «gnoseologia». Secondo Kant la «cosa in sé» e cioè la realtà come è in se stessa, rimane ignota e umanamente inconoscibile. Però Schopenhauer si distacca dal pensiero di Kant e sostiene la possibilità di conoscerla per una specie d’intuizione immediata, che in essa soggetto ed oggetto fanno tutt’uno. Qui il motivo fondamentale (che ritorna in tutti i suoi scritti) del «pessimismo» schopenhaueriano.
La realtà intima dell’universo, l’unica genuina «realtà in sé», è una volontà cieca, inconsapevole, irrazionale, senza ragione e senza scopo. La volontà suscita la conoscenza (l’intelletto) come suo strumento, e di regola, la conoscenza rimane asservita alla volontà. Solo eccezionalmente si sottrae a questo doloroso servaggio, in qualche istante privilegiato della vita di quelli che il Filosofo chiama «geni», nel senso romantico di questo termine. In primo grado di questa limitazione l’individuo riconosce negli altri una volontà e, quindi, rispetta il loro diritto: cioè la condotta umana è «giusta». In secondo grado riconosce negli altri la sua propria (l’unica) volontà, ed allora la condotta umana è «buona».
Ma, la liberazione definitiva si ottiene quando la volontà diviene «nolontà», non con il suicidio, ma con l’indifferenza verso la vita e la morte, estinguendo in sé ogni desiderio, e col desiderio il dolore: «santità».
Schopenhauer introdusse il pessimismo nel linguaggio filosofico in contrapposizione all’ottimismo leibniziano, senza sostenere che questo mondo sia il peggiore possibile, ma soltanto «cattivo».
Tipico pessimismo filosofico è la sua dottrina, che fa derivare tutto il reale e tutti gli accadimenti da una forza cieca ed oscura. La «volontà» mossa da perenne insoddisfazione non può produrre che perenne dolore. L’unico argine a così sconfinato oceano di mali è la negazione della volontà di vivere, da realizzarsi in una vita ascetica che condurrà al suicidio, non dell’individuo (che sarebbe inutile), ma della specie umana.