Bicentenario della Santa Alleanza
Il tentativo di cancellare l’esperienza
napoleonica e di restaurare l’Antico Regime in un mondo
ormai irreversibilmente mutato
Il 1815, conclusa l’esperienza napoleonica, fu un anno fondamentale per la determinazione dei nuovi equilibri europei, nell’ambito di un assetto che secondo i suoi ispiratori avrebbe dovuto essere definitivo. Il 9 giugno, il Congresso di Vienna, forse la più importante assise internazionale dai tempi del trattato di Westfalia (1648), approvò l’Atto finale che ribadiva il principio di legittimità, e sanciva, pur con talune importanti eccezioni, una Restaurazione dell’Antico Regime fondato sul diritto divino, matrice di un ordine comune all’insegna della tradizione: l’idea dello Stato restava improntata al carattere patrimoniale, senza concessioni di sorta al principio di nazionalità, né tanto meno, a quello di autodecisione dei popoli.
La Germania venne confederata in un sistema di 39 realtà statuali presieduto da Vienna, creando il presupposto di un’istanza nazionale tedesca i cui effetti sarebbero stati di lunga durata. Per l’Italia accadde di peggio, perché il principe di Metternich, tra i massimi protagonisti del Congresso, si oppose in nome dell’Austria ad una soluzione non dissimile da quella messa a punto per la Germania, con la conseguenza di confermare la piena sovranità dei vecchi Stati, fatta eccezione per le Repubbliche di Venezia e di Genova che scomparvero dalla carta geografica, assieme ad altre realtà minori come il Principato di Piombino e lo Stato dei Presidi. Dal canto loro, la nobiltà ed il clero si videro riconoscere cospicui indennizzi a fronte degli espropri rivoluzionari e napoleonici, anche se in diverse occasioni il reintegro ebbe carattere parziale.
In settembre, venne stipulato il trattato istitutivo della Santa Alleanza, firmato da Austria, Prussia e Russia con l’intento esplicito di «proteggere religione, pace e giustizia», mentre il 20 novembre fu allargato all’Inghilterra, non senza prevedere lo svolgimento di ulteriori Congressi di verifica, consultazione ed ottimizzazione delle intese: il primo fu quello che si tenne ad Aquisgrana nel 1818, quando la Francia, grazie alle esperienze della Restaurazione e del «terrore bianco», venne riammessa tra i Grandi dell’epoca.
Non mancarono deroghe ai «sacri principi» quasi a sottolineare che l’Antico Regime non avrebbe potuto più essere quello di prima. Ad esempio, nella stessa Francia, nei Paesi Bassi ed in alcuni Stati Tedeschi vennero concesse costituzioni che intendevano coniugare il legittimismo più ortodosso con alcune libertà di espressione: caso tipico quello francese, con la celebre «Carta» concessa da Luigi XVIII nonostante la presenza di una Camera talmente reazionaria da essere definita «introvabile».
In altri termini, l’unione del Trono e dell’Altare, che nelle intenzioni del Congresso di Vienna avrebbe dovuto costituire l’asse portante di un assetto definitivo dell’Europa, se non anche del mondo, trovava ostacoli ormai irreversibili nell’affermazione del principio di nazionalità, quale corollario degli ideali rivoluzionari migliori, diffusi in misura accelerata da Napoleone e dalle sue armate, ma certamente idonei a trovare terreno fertile nella mente e nel cuore dei patrioti. Le autocrazie non lo compresero, o non vollero comprenderlo.
Si diceva dell’Italia e delle sue mutazioni strategiche, finalizzate a garantire prioritariamente il già palese primato austriaco nella gestione degli affari politici nella Penisola, cominciando dalla definitiva fagocitazione della Serenissima e dalle presenze di guarnigioni strategiche come quelle di Ferrara, Piacenza e Comacchio. La Repubblica di Venezia aveva una lunghissima tradizione e non aveva fruito a caso del titolo di «Dominante» dell’Adriatico, le cui possibili nostalgie dovevano essere esorcizzate. Il Lombardo-Veneto, con circa cinque milioni di abitanti, divenne la prima compagine del sistema italiano, dietro il Regno delle Due Sicilie, che ne aveva sette, ma dove la presenza legittimista sembrava particolarmente solida, al pari dello Stato della Chiesa, in cui l’Antico Regime poteva contare su garanzie massime e su consuetudini ancora più lunghe, nonostante la discussa origine del potere temporale, che nel giro di pochi decenni avrebbe concluso la sua parabola, non senza il ripensamento di taluni ambienti cattolici più avanzati.
Quanto a Genova, che al pari di Venezia poteva contare sulla tradizione marinara e su autonomie plurisecolari non meno significative, il suo trasferimento al Regno di Sardegna parve corrispondere al duplice scopo di azzerare i possibili conati rivoluzionari di un popolo tradizionalmente fiero della propria individualità, e di soddisfare le attese dei Savoia, anche nell’ottica di realizzare una contiguità territoriale meno precaria fra il Piemonte e la stessa Sardegna.
In altri termini, le innovazioni volute dal Congresso di Vienna e consolidate nella Santa Alleanza cancellarono, soprattutto in Italia, esperienze sovrane di alto livello politico, civile e mercantile, ma nello stesso tempo diedero origine al rifiuto degli assolutismi, nel segno del nuovo verbo dell’Ottantanove che Napoleone aveva diffuso nel mondo, quale effetto meno effimero delle sue conquiste, ed anzi, destinato a durare irreversibilmente.
Il bicentenario di quegli eventi lontani, ma decisivi per la storia d’Italia dell’Ottocento e per le conseguenze che ne sono derivate fino ai giorni nostri, cade a proposito per sottolineare la precarietà, o meglio la velleità del disegno politico che stava alla base della Santa Alleanza e che ebbe proprio in Metternich il suo massimo ideatore; ma nello stesso tempo, per sottolineare la nobile opposizione dei patrioti italiani che sin dai primordi seppero sfidare gli assolutismi, a cominciare da quello asburgico, combattendo una battaglia che sulle prime parve impari e velleitaria, ma che in meno di mezzo secolo avrebbe fatto della vecchia «espressione geografica» uno Stato unitario, sicuro del suo buon diritto e dei valori umani e nazionali su cui, pur fra tanti limiti, e nonostante parecchie contraddizioni, era stato costruito. Uno Stato, in buona sostanza, capace di coltivare le speranze dei suoi cittadini migliori e di guardare al futuro con la matura consapevolezza di attese condivise.