Naufragio della Mèduse
L’orrore della disperazione
Dopo la fine di Napoleone e la restituzione del trono francese ai Borbone nella figura del Re Luigi XVIII, il Congresso di Vienna del 1814-1815 impose all’Inghilterra, fra l’altro, la restituzione della colonia del Senegal alla Francia con l’ordine dello sgombero immediato.
Per assicurarsi che gli Inglesi se ne fossero veramente allontanati o, casomai, avessero cambiato idea, la Francia inviò la fregata ammiraglia Mèduse per verificare la situazione. In effetti, dovendo trasportare un Governatore, la nave doveva essere di un certo prestigio, ma essendoci difficoltà economiche, per il momento la flotta, messa male a causa delle batoste subite durante la guerra, non era rinnovabile, e pertanto il Ministro della Marina e delle Colonie, visconte di Bouchage, dovette abbozzare, ricorrendo a ciò che gli rimaneva a disposizione: la Mèduse, appunto.
Al suo comando mise il capitano Hugues Duroy de Chaumareys, che da almeno 25 anni non navigava e che, secondo il parere di molti, non aveva l’esperienza di navigazione adatta per affrontare l’Oceano Atlantico; era di origine aristocratica e fedelissimo alla Corona Francese; questo non bastava per governare una grossa nave e lui, conscio di ciò, aveva rifiutato l’incarico, ma fu obbligato ad accettarlo. Sicuramente era lontano dal Ministro il pensiero che la scelta fosse tanto sbagliata da fargli prima perdere il dicastero e di essere poi nel mirino dell’opinione contraria del popolo.
Così, nel mese di giugno del 1816, la flotta formata dalla Mèduse, dal vascello Loire, dal brigantino Argus e dalla corvetta Echo, salpò dal porto francese di Rochefort, situato sulla costa atlantica, con meta il porto di Saint-Louis in Senegal. A bordo erano militari, funzionari civili e coloni con le loro famiglie e il neo Governatore della colonia Julien-Désiré Schmaltz con la consorte Reine.
Essendo la Mèduse più veloce delle altre navi, andò avanti per conto suo per giungere in Senegal quanto prima, e ben presto parecchi chilometri la separavano dalle altre navi. E, sprovvisto di carte aggiornate com’era e sordo alle raccomandazioni di altri ufficiali di stare alla larga dalla costa africana, il capitano deviò verso la stessa e il 2 luglio successe il patatrac. I marinai dissero, poi, che secondo loro ci si stava avvicinando troppo alle secche sabbiose, anche perché si vedevano chiaramente branchi di pesci che sfrecciavano sul fondo, mentre il sondaggio con il filo a piombo inizialmente non segnava più di 10 metri di profondità, per passare a 9, a 7, a 5 e, quando si tentò di riprendere la via verso Ovest, la frittata era già stata fatta: la Mèduse era incagliata nelle secche del Banc d’Arguin, situate a circa 160 chilometri dalla Mauritania.
Furono fatti tutti i tentativi possibili per disincagliarla, ma le difficoltà oggettive, unite alla scarsa, se non nulla, competenza tecnica del capitano, furono senza successo e perciò era indispensabile affrontare l’abbandono della nave.
Per cominciare, ci si rese conto che le scialuppe in dotazione alla fregata erano insufficienti ad accogliere i 400 passeggeri, fatto inaccettabile, perché in caso di naufragio, dovrebbe essere garantito un posto a tutti sulle stesse. Non restò altro da fare che costruire una grossa zattera sulla quale imbarcare i passeggeri in eccedenza. Furono caricate circa 250 persone sulle sei scialuppe in dotazione alla nave, mentre le restanti furono alloggiate sulla zattera di fortuna, escluse 17 che non vollero abbandonarla, delle quali solamente tre furono trovate vive al momento del loro ritrovamento da parte di un’imbarcazione di salvataggio. Il 3 luglio, quella popolazione di disperati prese la decisione di abbandonare la nave e di dirigersi verso la costa, che era a Est. Era intenzione del capitano e dei passeggeri quella di trainare la zattera con le scialuppe, alle quali era legata con lunghe funi, ma lo sforzo era immane, insostenibile a causa della resistenza al moto di quel natante improvvisato, oltretutto mezzo affondato per il peso dei naufraghi, tanto che le cime si spezzarono e, pertanto, non potendo fare diversamente, la zattera con il suo triste e disperato contenuto fu abbandonata al suo destino. Immediatamente, sulla stessa successe di tutto e di più. Per cominciare, 20 persone non videro l’alba del giorno successivo. Il cibo mancava e al nono giorno molte persone erano entrate nel mondo dei più o perché vinte dalla fame o perché per disperazione si erano buttate in mare per fare cessare le sofferenze; e in quell’occasione ci furono coloro che iniziarono a mettere in atto le pratiche del cannibalismo. Alla fine, il 26 agosto, i superstiti furono raccolti dal brigantino Argus, uno dei componenti della flotta.
In questo caso non si può fare a meno di notare una triste vena di cinismo: infatti, l’Argus se si trovava da quelle parti era perché il capitano de Chaumareys non l’aveva inviato per soccorrere i naufraghi, bensì per recuperare un forziere pieno d’oro che era rimasto nella stiva della Mèduse. I superstiti erano solamente 15, ma cinque morirono non appena raggiunta la costa.
Naturalmente, quando la notizia divenne di pubblico dominio, soprattutto dopo che il dottor Savigny, uno dei pochi superstiti del disastro avvenuto sulla zattera, raccontò l’intera faccenda al «Jornal des Debats» che la pubblicò, emozionò tutti coloro che la leggevano, facendoli rabbrividire per la crudezza dell’avvenimento e per la dovizia di particolari tragici e bestiali rivelati.
Fu un disastro che divenne di fama internazionale, che ispirò scrittori e poeti, ma soprattutto diede il destro al pittore Théodore Géricault di dipingere un’opera su quanto avvenne sulla zattera talmente realistica che, presentata dopo tre anni all’esposizione del Salon di Parigi, fu accolta con emozione, ma pure con un certo senso di orrore per quanto successo.
Jean Louis Théodore Géricault, La zattera della Méduse, 1818-1819, Museo del Louvre, Parigi (Francia)