Leopoldo II del Belgio
Un campione di ambiguità
Il 9 aprile 1835, Luisa, la seconda moglie del Re del Belgio Leopoldo I, diede alla luce Leopoldo che, essendo morto il fratello maggiore, Luigi Filippo, ancora prima della sua nascita, divenne di fatto il primogenito. Il titolo di duca di Brabante gli fu conferito nel 1844. Quando ebbe raggiunta l’età di vent’anni, entrò nella vita politica come membro del Senato. Volle conoscere il mondo, facendo viaggi in India, Cina, Egitto e altri Paesi del Nord Africa.
Già nel 1853 aveva sposato Maria Henriette d’Austria, una signora molto bella, che gli diede tre figlie e un figlio: quando quest’ultimo morì prima del tempo, fra i due coniugi scoppiarono antipatici e velenosi battibecchi che, divenuti sempre più pesanti, sfociarono nella conseguente logica separazione.
Del resto, Leopoldo era un uomo esuberante, che divideva le sue scappatelle con diverse amanti, fra le quali emerse una ragazza (forse sarebbe meglio chiamarla ancora una «bambina») di nome Caroline Lacroix, che il Re conobbe nel 1899, quando lei era solamente sedicenne, mentre lui aveva già compiuto 64 anni. Comunque, la trattò bene e la lasciò veramente ricca quando, il 17 dicembre 1909, morì: insomma, fu un sostanzioso modo per ringraziarla per avergli donata la sua gioventù.
Egli salì al trono alla morte del padre, che avvenne il 10 dicembre 1865, succedendogli con il nome di Leopoldo II. Subito, ebbe campo libero per realizzare i grandi progetti che covava dentro di sé da almeno una decina di anni e, per di più, era sua intenzione portare avanti grandi riforme. Erano intendimenti ragionevoli, puntati all’emanazione di leggi che si opponessero, giustamente, al lavoro minorile, al divieto di utilizzare la manodopera femminile in lavori pericolosi e pesanti e, inoltre, imponeva che i lavoratori colpiti da incidenti fossero indennizzati. Insomma, un vero padre per i suoi sudditi!
Allora, i Paesi Ruropei che avevano territori oltremare, occupati senza nessun diritto, se non quello del più forte, con in una mano la croce e nell’altra il bastone, erano l’Olanda, la Francia, la Gran Bretagna, il Portogallo. Leopoldo II, probabilmente si chiese: «E io, chi sono? Non potrei pure io avere qualche colonia?» Con il mappamondo in mano, cominciò a rimuginare dove puntare l’indice, indeciso se rivolgersi all’Asia oppure all’Africa. Iniziò con diversi tentativi di acquisire aree sui due continenti, ma andarono tutti falliti. Allora cambiò tattica, cercando di superare lo scoglio, trasformando le sue intenzioni di acquisto in interventi umanitari concentrati sull’Africa Centrale, sul Congo per la precisione, fondando allo scopo, nel 1876, un’associazione scientifica e filantropica internazionale, denominata International African Society (IAA). Per nascondere i suoi progetti, li aveva mascherati, proponendoli come orientati verso la soppressione della tratta degli schiavi nell’Africa Equatoriale, l’unione degli indigeni, la loro modernizzazione e i conseguenti miglioramenti economici, l’istruzione.
E quando, finalmente, due anni dopo, ottenne il consenso ed ebbe modo di iniziare quanto aveva in cantiere, assunse il famoso esploratore Henry Morton Stanley affinché esplorasse il Congo e predisponesse la fondazione di una colonia nel nome dell’Associazione stessa. Stanley ebbe diversi contrasti con negrieri arabi, ma conoscendone uno, Tippo Tib, un feroce negriero del Mozambico, si associò con lui; così, entrambi traevano benefici dall’alleanza, perché, mentre Stanley abbisognava di mezzi e di uomini per le sue esplorazioni, che Tippo gli procurava, quest’ultimo si sentiva tranquillo, giacché l’Europeo gli garantiva il mantenimento del controllo dei territori dove vertevano i suoi interessi nel commercio di uomini e avorio. Per premiarlo, Leopoldo lo nominò governatore delle aree interne del Congo con un ottimo stipendio.
Stanley navigò lungo tutto il corso del fiume Congo, incontrò tanti capitribù, con i quali stipulò centinaia di contratti fittizi, e avviò la formazione di stazioni di raccolta di ciò che le foreste offrivano per caricarle su natanti aventi per meta i porti sulla foce del fiume, dal quale poi partivano per l’Europa.
Leopoldo si dimostrava un vero filantropo: infatti, sempre con la scusa che tutto quanto faceva aveva come fine unico il miglioramento della vita delle popolazioni locali, mise in atto punti di commercio, collegandoli fra di loro con strade. La sua condotta rispetto l’ambiente e le popolazioni locali fu tale da indurre i loro capi a firmare trattati con il Belgio che, però, sotto sotto, erano redatti «pro domo sua».
Durante la Conferenza di Berlino, tenuta nel biennio 1884-1885, il nostro, con la sua parlantina e con l’appoggio di Stanley, riuscì a convincere ben 14 Stati Europei e gli Stati Uniti che tutto il suo operato nel Congo era indirizzato al miglioramento della vita degli indigeni e al loro benessere. Pertanto, fu riconosciuto capo indiscusso del territorio da lui occupato e il 5 febbraio 1905 fu istituito lo Stato Libero del Congo, un territorio circa 76 volte più vasto del Belgio, controllato dal suo esercito personale, denominato Forza Publique.
Ormai, libero di muoversi e agire a suo piacimento, dopo il «placet» di chi avrebbe potuto opporsi, cominciò a mostrare il vero e peggiore lato della sua natura.
Si guardò attorno e concentrò la sua attenzione alle risorse minerarie, che si dimostravano promettenti e redditizie, per cui ne iniziò lo sfruttamento.
Nel frattempo, aveva avviato un intenso commercio dell’avorio, che gli imbottì ben bene le ampie tasche. Si riporta che, fra il 1884 e il 1904, più di 44.000 zanne furono commercializzate, naturalmente a seguito del sacrificio di oltre 200.000 elefanti: sembrava che la strage di persone non bastasse.
Successivamente, i suoi interessi si allargarono alle piantagioni degli alberi della gomma. Era a conoscenza delle piantagioni di alberi della gomma nella città di Manaus nell’Amazzonia Brasiliana e dei ricavi che se ne potevano trarre, volle anche lui tentarne la produzione, importando le piante necessarie. E, al solito, fece lavorare i nativi e fece installare grandi impianti per la sua produzione, essendo molto redditizia, al fine di accelerarne la produzione, giacché temeva la concorrenza che poteva venire dalle piantagioni inglesi della Malesia; leggermente in ritardo, cominciò a pretendere sempre di più dai suoi lavoratori, fino al punto di schiavizzarli nel vero senso della parola, trattandoli in maniera brutale e disumana. Essi erano ridotti in schiavitù e condizioni miserevoli, obbligati a orari impossibili (12, 14 o 16 ore al giorno, mentre quel po’ di riposo consentito avveniva in strutture segregate, assimilabili ai lager o ai gulag di cattiva memoria) e, se non producevano quanto da loro richiesto, erano ricattati con le minacce di maltrattamenti riservati alle loro donne e ai loro figli. Per i lavoratori che si ritenevano svogliati o che combinavano guai perché incompetenti, le punizioni erano pesanti, quando non sfociavano nel taglio della mano destra, o di un piede, pena estensibile pure alle mogli cui, talora, tagliavano le mammelle, e ai figli. Chi tentava di fuggire ed era ripreso, se non solo malmenato, era ucciso. Non c’è che dire: si trattava veramente di un incomprensibile e imperdonabile affronto alla vita umana, come lo dimostrano i circa dieci milioni di vittime della sua ferocia. Patimenti e malnutrizione favorivano l’insorgere di malattie che la facevano da padrone; ma non era da sottovalutare la fame, perché le punizioni, in caso di scontento per la scarsa produzione, erano trasferite anche all’incendio dei villaggi degli indigeni e alla distruzione delle coltivazioni dalle quali, faticosamente e scarsamente, traevano gli alimenti. Comunque, quello che interessava a Leopoldo era la produzione, tanto che, se nel 1887 questa fu di 30 tonnellate, nel 1903 raggiunse la più che ragguardevole cifra di 5.900.
L’avidità di Leopoldo non aveva limiti e così si buttò pure sulla produzione intensiva di caffè e palmito (olio di palma), imponendo la coltivazione di monocolture e, naturalmente anche in questo caso, il trattamento era disumano, basato su un numero di ore lavorative esagerato e con pagamento pari a zero, il tutto condito con pesanti punizioni corporali e, se si incontravano lavoratori poco ben disposti o pasticcioni, eliminazione fisica. E alla fine – quello che conta – i guadagni, non essendo previsto il pagamento della manodopera, si dimostrarono enormi. Si ritiene che in decennio le sue entrate siano state almeno di cinquanta milioni di franchi in oro. Del resto, le entrate dalle sue esportazioni superavano di gran lunga le spese delle importazioni.
In ogni modo, il numero delle vittime della strage non dovrebbe sorprendere, considerando il comportamento del padrone assoluto e dei suoi aguzzini, appartenenti al suo esercito personale. Si trattava di uno sterminio di massa perpetrato dal Re Leopoldo II del Belgio nei suoi possessi personali, a cavallo fra il XIX e il XX secolo. Effettivamente, Leopoldo fu un esempio di un uomo ricco di principi profondamente... umanitari, non c’è che dire!
Fino al compimento della sua opera, continuò la sua malvagità rispetto alla povera popolazione locale che ancora era rimasta in vita.
Egli sperava che l’eco delle sue imprese non uscisse dai confini del Congo, ma le notizie girano e raggiungono ogni parte del pianeta, per cui, come era immaginabile, gli Europei e gli Americani iniziarono a chiedersi come bloccare quella furia omicida, senza far scoppiare una guerra, e a spingere il mondo intero a tentare di bloccare quell’assurda pretesa di manodopera e quella conseguente orrenda eliminazione in massa di vite umane. Già nel 1890, George Washington Williams, che con il permesso statunitense era andato a fare un viaggio in Congo per rendersi conto di quanto di vero ci fosse nelle dicerie che circolavano, concluse che laggiù dominava un Sovrano senza morale, che teneva i nativi incatenati, comprava schiavi a tre lire e importava donne a fini immorali. Forse fu una delle prime dimostrazioni che il regime di Leopoldo fosse al di fuori della normalità. A rincarare la dose, fu il rapporto del 1903-1904 del Console Britannico in Congo, Roger Casement, nel quale si raccontò ciò che avveniva laggiù, insistendo sul comportamento di chi aveva il potere (soldati e ufficiali bianchi), che si traduceva in sfruttamento disumano, infanticidi, stupri, mutilazioni, eliminazioni. Divenne un grido di protesta che trovò il consenso di gruppi politici, quali socialisti e progressisti, cui si associarono giornalisti, artisti, letterati, scienziati eccetera.
E pure il Governo Belga cominciò a domandarsi quale fosse la ragione per la quale si concedeva al Re di spadroneggiare nel Congo, quando avrebbe potuto lui, direttamente, sfruttarlo, magari con una ferocia inferiore e una parvenza maggiore di umanità.
E nemmeno la stampa umoristica si lasciò scappare l’occasione di distribuire disegni e figure caricaturali che mostravano il Re circondato da teschi oppure che, con le sembianze di un serpente, strangolava il Congo: un esempio si ritrova in una copia del giornale satirico inglese «Punch» del 1906.
Anche Mark Twain, confermando la cifra dei nativi uccisi, ebbe a rabbrividire nel sentire quanto stesse succedendo nel Congo Belga. Egli, con il sottile spirito umoristico-sarcastico che era una sua dote naturale, volle esprimere, in un ipotetico soliloquio del Re, quale sarebbe potuta essere una sua autodifesa: «Solo calunnie, e di nuovo calunnie, ancora calunnie e sempre calunnie! Ma anche se fossero vere, allora? Sarebbero lo stesso calunnie quando rivolte a un Re».
Fra parentesi, se si volesse polemizzare, si potrebbe rimarcare la dose affermando che anche gli altri Stati Colonialisti non si comportarono proprio da... agnellini! Ma andiamo avanti!
La faccenda andò troppo per le lunghe, per cui, purtroppo, continuarono le angherie di ogni tipo cui erano soggetti i Congolesi e le loro famiglie; solamente nel 1908, gli Stati di maggior prestigio, che si erano interessati al fatto, alzarono la voce ed ebbero successo: così, il Congo, da Stato Libero del Congo di proprietà privata di Leopoldo II, fu trasformato, sempre con lo stesso nome, ma con principi assolutamente diversi, in uno Stato a regime parlamentare. Leopoldo II, essendo il Belgio uno Stato piccolo dal punto di vista territoriale e soprattutto da quello politico, non dovette far altro che… ingoiare l’amara pillola.
Leopoldo morì l’anno successivo: chissà se sia stata la conseguenza dell’affronto subito da parte di Stati, attori, personaggi famosi e da tanti altri; certo è che, secondo molti giornalisti dell’epoca, fu proprio la perdita del Congo che lo fece morire.
Dopo la sua morte, il Governo Belga prese le redini del controllo di quel Paese Africano, sempre come Stato Libero del Congo, migliorando la situazione, ma... non troppo.
Gli intenti della nuova organizzazione statale erano lodevoli: eliminazione del lavoro forzato, limitazione nell’espropriazione dei terreni di proprietà degli indigeni, eliminazione dei monopoli sulla produzione agricola, minore sfruttamento dei lavoratori. Ma, poiché molti territori erano rimasti sotto il controllo di imprese sia finanziarie sia minerarie, ben poco cambiò in meglio.
Comunque, dopo il 1919, con buone produzioni di caffè, gomma, olio di palma, con lo sfruttamento dei depositi diamantiferi e del giacimento di rame del Katanga, si poté pensare di attuare sensibili miglioramenti nella vita dei locali particolarmente in merito alla salute, alle abitazioni e all’istruzione. Però, questi buoni intendimenti rimasero chiacchiere, giacché ancora nel 1950 l’analfabetismo era pressoché totale; si ricorda, a questo proposito, che nel 1953 c’era solamente una scuola secondaria ogni 870 scuole elementari. E pure era evidente la diversità di trattamento fra bianchi e neri, come l’obbligo per i locali di vivere in zone a loro riservate, di non usare alcolici, di non partecipare alla vita dello Stato, di non concedere gradi ai soldati, tanto per citare alcune delle discriminazioni che non potevano che essere definite razziali.
Naturalmente, le popolazioni indigene ne avevano fin sopra i capelli della prepotenza belga, per cui ci furono diverse rivolte che il Re Baldovino tentò inutilmente di sedare, finché, nel giugno 1960, ci furono le elezioni, che diedero la maggioranza al Mouvement National Congolais (MNC-L), a seguito della quale il 30 giugno il Governo nominò Primo Ministro Patrice Emery Lumumba e Presidente Joseph Kasavubu e lo Stato divenne la Repubblica Democratica del Congo: finalmente, il Congo Belga aveva perso la connotazione di colonia europea.