La legge sul sacrilegio nella Restaurazione
Francese
Spunti teocratici nella politica
controrivoluzionaria durante il regno dell’ultimo Sovrano di
diritto divino (Carlo X di Borbone)
L’Anno Santo del 1825, indetto da Papa Leone XII, fu il ventesimo della serie, ma nello stesso tempo, l’unico dell’Ottocento. Il Giubileo non si celebrava da mezzo secolo, ed anche per questo seppe attirare a Roma, secondo valutazioni ufficiose, circa 375.000 pellegrini, che costituiscono una cifra indubbiamente ragguardevole laddove si tenga conto delle condizioni economiche, dello stato dei trasporti e delle tante carenze infrastrutturali.
La Restaurazione sembrava avviata al trionfo dovunque, ed in primo luogo in Francia, dove il partito ultrarealista non perdeva occasione per ribadire la propria fedeltà ai principi dell’Antico Regime: dopo la morte di Luigi XVIII, avvenuta nello scorcio conclusivo del 1824, era salito al trono, col nome di Carlo X, il fratello Conte d’Artois, leader dell’opposizione legittimista già durante il lungo esilio nell’epoca napoleonica, che non aveva mancato di confermare immediatamente le sue vocazioni controrivoluzionarie, a cominciare dal pronto ripristino della tradizionale, solenne incoronazione nella Cattedrale di Reims, avvenuta nel maggio di quello stesso 1825.
Un mese prima era stata promulgata la legge sul sacrilegio, che parve tradurre in pratica le attese della reazione più spinta, nel quadro di una sintesi di Trono ed Altare conforme ai principi dell’ortodossia cattolica più rigida, in cui le reminiscenze della Santa Inquisizione riuscivano a coniugarsi anche con l’etica giansenista, dando luogo ad originali manifestazioni di rinnovata intransigenza.
La motivazione contingente di quella legge, che avrebbe suscitato un dibattito a tratti acceso, era stata tratta dalla proliferazione dei furti di oggetti sacri nelle chiese, che nell’ultimo quadriennio erano stati oltre 500: un autentico scandalo, tanto più condannabile nell’età della Restaurazione, con l’ovvia esigenza di intervenire in maniera specifica nei confronti di siffatto reato.
Il progetto di legge, predisposto dalla maggioranza ultrarealista, prevedeva tre pene diverse, ed in ogni caso eccezionalmente pesanti, secondo la tipologia del sacrilegio: i lavori forzati a vita, se il fatto era avvenuto in assenza del Santissimo; la morte, qualora il furto avesse interessato la pisside delle ostie consacrate; e pur sempre la ghigliottina, ma preceduta dal taglio della mano in analogia a quanto prescritto dalla normativa penale sul parricidio, nel caso in cui la profanazione avesse coinvolto direttamente il Sacramento.
Si trattava di punizioni tanto dure da far quasi impallidire quelle della Controriforma, ma ampiamente relativizzate dal fatto che, per la sussistenza effettiva del sacrilegio, il reato doveva «essere commesso volontariamente, pubblicamente, ed in odio o disprezzo della religione». In altri termini, la possibilità di provare incontestabilmente il fatto diventava senza dubbio ardua, quasi a mitigare, in qualche misura, una pena altrimenti irreversibile.
La discussione fu appassionata, sia alla Camera dei Pari che nell’ambito dei Deputati.
Da una parte, gli ultras si affidarono all’eloquenza del visconte di Bonald e dell’Abate di Lamennais, ancora lontano dalle successive conversioni liberali, se non anche libertarie: il primo mise in evidenza che la Rivoluzione, iniziata con la Dichiarazione dei diritti dell’uomo, avrebbe dovuto concludersi con quella dei diritti di Dio, mentre il secondo pose in luce come la religione cattolica fosse l’unica da doversi ritenere vera, aggiungendo che, se lo stato professa l’indifferenza, esilia il divino e diventa ateo.
Gli interventi dell’opposizione ebbero espressioni significative nelle parole di Chateaubriand, secondo cui la religione avrebbe dovuto essere pacificatrice, e non punitrice, in quanto deve le sue vittorie alla misericordia e non ai patiboli; nell’affermazione del duca di Broglie, rivolta a prevenire l’intolleranza delle coscienze e la «vis» persecutoria; e soprattutto, negli eloquenti pensieri di Royer-Collard, che pose in evidenza come la legge sul sacrilegio introducesse nell’ordinamento giuridico non tanto un nuovo reato, quanto un nuovo ordine di reati: quelli soprannaturali. Ed allora, si chiedeva il massimo esponente del movimento dottrinario e del cosiddetto «giusto centro», dov’è la reciproca indipendenza di religione e società civile? I Governi sono forse i successori degli Apostoli? Si vuole una teocrazia in cui il sacerdote abbia poteri sovrani? La classe politica, concludeva lo stesso Royer-Collard, non ha ricevuto l’incarico di stabilire ciò che sia vero e falso in fatto di religione!
La replica di Bonald fu secca: se la fede cattolica ordina all’uomo di perdonare, il potere ha l’obbligo di reprimere e di punire. A quel punto, il dibattito si concluse con l’approvazione di un solo emendamento, secondo cui il taglio della mano nella terza ipotesi di reato sarebbe stato sostituito da una forte multa: cosa abbastanza paradossale, visto che il reo era destinato comunque alla ghigliottina. Naturalmente, la maggioranza prevalse, ma non in misura schiacciante, come le forze della reazione avrebbero auspicato: alla Camera bassa, con 210 voti contro 95, ed in quella dei Pari con 127 contro 92.
A conferma del suo carattere sostanzialmente strumentale, la legge non venne mai applicata. I suoi presentatori e sostenitori si accontentarono di avere dato un messaggio di fedeltà all’Altare, e quindi al Trono, secondo il principio fondamentale della Restaurazione, ma nello stesso tempo si resero conto che l’associazione di fede e patibolo avrebbe restaurato i ricordi più sinistri dell’Inquisizione. In buona sostanza, l’Illuminismo e la Dichiarazione dei diritti dell’uomo non erano passati invano nemmeno per le forze della reazione. D’altra parte, è pur vero che una legge tanto punitiva costituiva un indubbio deterrente, se non altro in una coscienza popolare molto sensibile all’entità della pena, ma meno attenta alle possibili interpretazioni del provvedimento in senso favorevole all’imputato.
L’Anno Santo del 1825 si concluse a Roma con l’esecuzione capitale dei carbonari Angelo Targhini e Leonida Montanari, avvenuta in Piazza del Popolo il 23 novembre, tra l’indifferenza generale, in applicazione di una condanna per il delitto di lesa maestà. Paradossalmente, proprio lo Stato Pontificio affermava ancora una volta l’impossibilità politica di coniugare il diritto e la misericordia, mentre a Parigi si metteva all’indice il sacrilegio ma nella sottintesa presunzione che la nuova legge, a parte il deterrente nei confronti di un reato comunque odioso per la maggior parte degli uomini e donne dell’epoca, intendeva esprimere un chiaro messaggio politico senza bisogno di essere applicata; anzi, introducendo nel suo stesso articolato gli strumenti idonei a renderla sostanzialmente inapplicabile. Pochi anni dopo, la caduta di Carlo X e della monarchia di diritto divino avrebbe fatto il resto.
Nella nostra epoca, il riferimento alla legge francese sul sacrilegio imposta dalla Restaurazione non è privo di una sconcertante attualità. Da un lato, le garanzie giuridiche di base, e prima ancora la coscienza civile, fanno parte di un patrimonio ormai scontato nelle democrazie moderne, ma negli stati in cui vige la subordinazione della politica a forti vincoli religiosi, se non addirittura teocratici, i principi fondanti di quella legge sono sempre presenti, e tragicamente attivi: oltre tutto, senza il «contemperamento» che nell’anno di grazia 1825 era stato introdotto prescrivendo criteri di verifica del sacrilegio obiettivamente rigidi, e tali da rendere quanto meno problematica la prova del reato (senza dire delle ovvie difficoltà di catturare il colpevole).
La cooperazione internazionale è diventata un fattore di sviluppo economico di notevole rilievo, anche alla luce dei trattati e dei conseguenti impegni finanziari da parte dei Paesi «leader»; ma i suoi limiti permanenti di carattere giuridico sono evidenziati in modo palese dalla sostanziale indisponibilità dei sistemi teocratici ad accogliere l’idea di una politica che non sia subordinata «tout court» alle fedi religiose.
In questo senso, la legge sul sacrilegio promossa dalla Restaurazione Francese, al cospetto di quanto accade in una parte del mondo islamico all’inizio del terzo millennio, appare paradossalmente liberale, o quanto meno, piuttosto lontana da suggestioni teocratiche di forza tale da negare a priori qualsiasi diritto dell’imputato. E quindi, fornisce alcuni spunti per una riflessione non effimera.
Jean Henry Lespagnon, La loi du sacrilège, F. Loviton, Paris 1935
G. de Bertier de Savigny, La Restauration, Collection l’Histoire, Flammarion, Paris 1955
Georges Weill, L’èveil des nationalitès et le mouvement liberal (1815-1848), Collection Peuples et Civilisations, Alcan, Paris 1930
Dominique Bagge, Les idèes politiques en France sous la Restauration, Presses Universitaires de France, Paris 1952.