La fine in Francia della Repubblica Consolare
Né Cesare né Cromwell: osservazioni
dall'opera di Bronislavw Baczko, Napoleone e Washington,
Donzelli editore
Napoleone non fu, stando alle parole dello storico Branislaw Baczko, né Cesare né Cromwell. I due condottieri infatti, a differenza del Bonaparte, non si misurarono con quel particolare spirito camaleontico che fu proprio del grande Córso.
Cesare rimase essenzialmente un condottiero. Fu «barbaramente» ucciso e finì in questo modo la sua carriera politica. Dunque l’esercito e le imprese militari di Cesare non furono del tutto risolutive dentro le istituzioni romane. Cromwell morì di morte naturale, salvo poi venir giustiziato con riesumazione postuma.
Napoleone ebbe come obiettivo principale il porsi in continuità politica col passato, ed allo stesso tempo come rottura verso il precedente sistema rivoluzionario francese, ma sempre in un’ottica di continuità con questo. Ciò fece da sfondo all’intera sua vicenda militare e politica.
Napoleone fu un uomo nuovo, non d’apparato. Proveniva dalle file dell’esercito rivoluzionario. Mise in luce da subito le sue qualità militari e l’attitudine strategica del suo operato, senza mai disdegnare fino in fondo quello stesso apparato che lo aveva creato come figura, ma sempre cercando una sua distinta identità. Non tutto fu farina del suo sacco.
Un personaggio in quel preciso momento di passaggio politico campeggia nella vita dell’allora Generale Bonaparte: Pierre Louis Roederer, figura senza dubbio interessante.
Dichiarava Roederer in un suo scritto: «Quali sono le istituzioni adatte a fondare la morale di un popolo?».
Roederer si presentò, oltre che come economista, anche come giurista e costituzionalista. Il 13 marzo del 1798 a un pranzo in casa di Talleyrand egli venne presentato a Napoleone, il quale così si espresse per l’occasione: «Ho piacere di conoscervi; ho potuto fare esperienze del vostro talento in un articolo che avete scritto contro di me circa due anni fa». Due intelligenze, le loro, per certi aspetti vicine e distanti. Capaci di ascoltare, anche di ascoltarsi, ma soprattutto di gestire in modo autonomo il potere.
Dopo aver pronunciato la frase riportata su Roederer, Napoleone Bonaparte si servì di lui per il colpo di stato del 18 brumaio dell’anno VIII che l’uomo politico francese organizzò col concorso di Talleyrand, Regnand de Saint-Jeans d’Angel e Volney per l’allontanamento di Paul visconte di Barras.
Il discorso ai Parigini, con il quale Napoleone annunciava il cambiamento di regime, fu redatto dallo stesso Roederer.
Quest’ultimo, pur facendo una brillane carriera, prima nel Consiglio di Stato come Presidente di sezione, poi come Ministro Plenipotenziario per l’Olanda e per la Svizzera, fu redarguito dallo stesso Talleyrand: «Il Primo Console [Napoleone] mi ha incaricato di farvi le sue rimostranze poiché è da due mesi che non gli rivolgete la parola» (siamo in data 3 gennaio 1800).
Due personalità con alcuni, paradossalmente, punti in comune, quella di Napoleone e di Roederer. Una certa autonomia di pensiero, l’essere sprezzanti e non sempre in linea col protocollo.
Del resto entrambi, ma soprattutto il Primo Console, non erano sicuramente, concordo con lo storico Bronislaw Baczko, né Luigi XVI, né Barras.
Le mezze misure non furono il loro forte, fotografavano la realtà e facevano dell’azione un’arma inesauribile di reazione politica.
Francamente non so se esistono studi specifici comparati tra Roederer e Napoleone; posso solo osservare che quanto lo storico Baczko enuncia descrive sorprendentemente proprio tale singolare legame. C’è poi l’aspetto propagandistico. Come non osservare in Napoleone Bonaparte il primo grande precursore della propaganda politica che inondò sia il XIX che il XX secolo? Ogni costituzionalismo, in specifico quello all’inglese, sarebbe apparso agli occhi di Bonaparte come un elemento di disturbo, foriero di immense sciagure per il potere in Francia, ed in specifico per il suo potere personale in divenire.
Con la morte di Georges Washington, nel 1799, la figura del grande Generale e primo Presidente Statunitense, si creò un parallelismo tra i due personaggi. L’«emergente» Generale Francese fu più volte paragonato al «grande Vecchio» della politica americana. Egli veniva visto come una sorta di Cincinnato moderno. Per i Francesi, che non avevano conosciuto Washington da vicino, poiché mai si era recato in Francia, gli Stati Uniti avrebbero potuto mantenere la loro libertà ed identità repubblicana solo grazie ad un continuum coi valori dell’austerità dei costumi, della frugalità, pur nella consapevolezza della presenza attiva dei traffici commerciali e della rappresentanza indiretta, che le democrazie dell’antichità mai avevano conosciuto. «L’immagine di Washington – scrive Baczko – risente della duplice rappresentazione del Generale come di un antico tra i moderni, capace di combattere per generare una nuova nazione. La sua carica militare Washington l’ha ricevuta dal popolo e l’ha rimessa al Congresso. Washington ha preferito la libertà repubblicana a qualsiasi ambizione personale».
All’inizio questo parallelismo lusinga il giovane Console Bonaparte. Se, dopo il 18 brumaio, Napoleone non appare più, come ricorda Baczko, né come Cesare, né come Cromwell, tanto meno come Luigi XVI o Barras, allora può davvero interpretare in qualche modo il «Washington francese»?
In proposito è interessante una frase del Generale Bonaparte, ormai Primo Console, quando proprio con Roederer si apprestò a raggiungere les Tuileries.
Roederer gli fece notare le vecchie e cupe tappezzerie, dicendo: «Qui è triste, Generale!». Napoleone dette una risposta che aveva davvero poco di Georges Washington: «Sì, come la grandezza!».
Più francamente, e con uno stile più diretto, sempre il Generale Bonaparte confidò a Bourrienne: «Non basta essere alle Tuileries; bisogna restarci!».
Da questo punto di vista è esemplare la conflittualità che si creò tra lo stesso Generale Bonaparte ed il fratello Luciano, che si considerava il vero artefice del colpo di stato del 18 brumaio. Napoleone del fratello, seppur molto amato, minimizzava le prodezze, che invece Luciano teneva in gran conto; Napoleone si attribuiva di quel colpo di stato il ruolo principale e non riconosceva in alcun modo i propri momenti di debolezza, sui quali tuttavia Luciano porta una testimonianza realistica; riconosceva al massimo che Luciano era stato «utile» quando non lo aveva fatto mettere fuori legge dal Consiglio. Quando Napoleone, subito dopo il colpo di stato, governava, Luciano era impelagato nel far redarre una nuova Costituzione dal Consiglio dei Cinquecento, e dunque paralizzato in questo compito, senza alcuna possibilità di rendersi utile a livello governativo. In un certo senso Luciano non riteneva utile il Governo di Napoleone come Primo Console. E Napoleone si fece così aiutare dal fratello maggiore Giuseppe, anche per convincere Luciano dopo tempestosi colloqui. Pur sostenendo in ultimo il fratello, Luciano non era disposto a fare solo il «parente» di Napoleone, ma voleva un suo potere personale, una sua personale visibilità.
Dobbiamo anche ammettere che fino alla battaglia di Marengo del 1800, Napoleone non si sentì appieno investito della Missione di Primo Console, che divenne poi Regia ed Imperiale. Le vicende italiane lo posero nella condizione di sentirsi parte attiva di un processo inarrestabile; anzi il primo ed unico elemento di quell’inarrestabile processo politico scaturito dalla Rivoluzione. Napoleone apparve con fragore luminoso che nulla poteva avere a che fare con Cromwell, così carceriere e subdolo dei propri nemici. Anche in questo concordo con lo storico Baczko. Un parallelo allora con Luciano che in quella fase venne ribattezzato come il «Bruto» di Cesare? Un testo che creò quest’ultimo parallelismo e che pare fosse opera dello stesso Luciano Bonaparte rese furioso Napoleone. Luciano riferì che il fratello ne era perfettamente a conoscenza e che ne aveva lui stesso corretto le bozze. Tra i due fratelli in quel periodo non correva certamente buon sangue. Napoleone minacciava di farlo arrestare e Luciano di rovesciarlo con un nuovo colpo di stato. Luciano non si allontanò mai del tutto dal fratello il quale, nonostante le diatribe, lo nominò ambasciatore a Madrid, quando Luciano lasciò l’incarico di Ministro. Sulle vicende sono singolari alcune affermazioni dello stesso futuro Imperatore proprio a Roederer, nel momento in cui quest’ultimo lo sollecitò a creare un sistema ereditario: «Ne avevo dato io stesso l’idea, per rispondere alle calunnie inglesi. Ma le due ultime pagine erano folli: l’ereditarietà non è mai stata istituita. Essa si è affermata da sola. È troppo assurda per essere accettata come Legge. E poi l’autore ha insultato Sieyès, un uomo di talento, un uomo puro».
Concordava col fratello per l’ereditarietà. Rimproverava a quest’ultimo di aver bruciato le tappe. Nell’opuscolo brillava l’assenza di Washington come metro di paragone. L’opuscolo segnò la fine della Repubblica Consolare.