Colonizzatori ed eroi nella storia d’Italia
Roasio e dintorni (Vercelli): un caso
esemplare
Nel corso di un secolo di vita (1861-1960) il colonialismo italiano ha posto in evidenza diversi caratteri affini a quelli altrui, ma non ha mancato di attirare giuste attenzioni su talune differenze fondamentali, come quelle in materia umanitaria e civile, che vivono tuttora in parecchi grandi nomi storici, a cominciare dalle premesse che risalgono alla seconda metà dell’Ottocento, per finire all’amministrazione fiduciaria della Somalia, negli anni Cinquanta del successivo «secolo breve». Come da espressione cara a diversi pionieri, l’Italia sarebbe stata a più forte ragione «felice» nella misura in cui avesse voluto adeguarsi al ruolo storico di grande civilizzatrice[1].
Nell’ambito dei tanti precursori, c’è soltanto l’imbarazzo della scelta. Si pensi a Guglielmo Massaja, vessillifero della penetrazione cristiana in terra d’Africa Orientale; a Vincenzo Gioberti, che muovendo da analoghe valutazioni cattoliche aveva parlato della necessità di espandersi «anche per la felicità altrui» da cui sarebbe dovuto discendere un imperativo categorico per gli uomini e soprattutto per gli Stati; a Gerolamo Boccardo, che nel 1864 avrebbe definito il fenomeno delle prime colonie quale fatto naturale e civile; a Leone Carpi, che dopo dieci anni avrebbe considerato l’espansione oltremare alla stregua di una necessità «per i popoli progrediti» onde fronteggiare gli aumenti demografici in un quadro cooperativo; ad Attilio Brunialti che negli anni Ottanta dell’Ottocento volle vedere nello sviluppo coloniale una «lotta nobile ed elevata» e una «leva importante del progresso»; a Pasquale Turiello, che sul finire del secolo, muovendo da una concezione positivistica dei rapporti internazionali, parlava di quanto fosse necessario per gli Stati, e in primo luogo per l’Italia, manifestare la propria saggia «virilità» anche nel campo delle colonie[2].
Già nel 1871, Giuseppe Mazzini aveva parlato di un’attività agricola e industriale a tutto campo, anche fuori dei confini d’Italia, vista quale nuova «trasformatrice del mondo», mentre Tullio Massarani, quattro anni dopo, aveva rievocato i fasti delle Repubbliche Marinare nell’ambito di una «perspicace magnanimità che costituiva le colonie sul tipo della madrepatria a libero reggimento». Il pensatore più profondo in materia fu comunque Pasquale Stanislao Mancini, che sin dal 1851 si era schierato apertamente a favore del principio di nazionalità, e che molto più tardi sarebbe diventato Ministro degli Esteri dell’Italia unita. Infine, lo stesso Mancini, dopo avere condannato la durezza di varie esperienze coloniali altrui, ebbe premura di spiegare che l’espansione si doveva «fondare sui bisogni delle popolazioni locali e sull’interesse umanitario e sociale di tutti, coloni e colonizzati: non schiavi questi e non dominatori quelli, ma amici, a guidare i nostri nuovi concittadini a miglioramenti compresi e desiderati» (Camera dei Deputati, Roma 1882).
A questo tipo di colonialismo umanitario e collaborativo, pur nelle terribili condizioni dei primordi e di talune vicissitudini più recenti, è congruo fare riferimento a proposito di talune esperienze dell’emigrazione italiana, considerate ingiustamente minori, come quella in lunga e continua partenza dal comune vercellese di Roasio: un fenomeno le cui lontane origini risalgono addirittura agli inizi dell’Ottocento, per finire con i tristissimi eventi della decolonizzazione sopravvenuta dopo la Seconda Guerra Mondiale, non senza la tragedia personale di parecchi coloni.
In questo senso, una testimonianza molto esauriente e commendevolmente oggettiva è quella di Rosa Maria Gualinetti (Rosy) nata a Elizabethville nel 1953 ed esule dal Congo[3] nel corso degli anni Sessanta, in concomitanza con i moti successivi all’indipendenza e con la «cacciata» dei bianchi, che ha coordinato una coinvolgente silloge degli apporti proposti da un gruppo di tredici concittadini, quale campione rappresentativo dei colonizzatori che avevano affermato non soltanto in Africa, ma anche in Europa e in altri continenti la dignità del lavoro italiano, e che avevano dato un contributo talvolta molto ragguardevole allo sviluppo altrui[4].
Rosy mette subito in luce il grande quadro di una vicenda storica che ha affratellato nel lavoro, nel sacrificio e nella diuturna lotta per la vita un’intera «comunità d’affetti» che ha coinvolto parecchie generazioni, e che ha pagato duramente senza alcuna colpa propria le conseguenze di un regime particolarmente duro, se non anche disumano, come quello instaurato nel territorio della colonia che a suo tempo era stata «fondata» come proprietà personale di Leopoldo II del Belgio, all’insegna di una lunga serie di agghiaccianti efferatezze compiute in Congo, a cominciare dal mondo della gomma, che avrebbe indotto grandi fortune al prezzo di tanti delitti.
La lettura di queste testimonianze è davvero illuminante, e conferma la priorità etica e politica di una filosofia operativa come quella vivamente umanitaria, e nemica di ogni violenza, tipica del Ministro Pasquale Stanislao Mancini, alla cui epoca del tardo Ottocento risale l’inizio della grande emigrazione da Roasio e dintorni. Tale flusso in uscita si sarebbe indirizzato dapprima verso i Paesi Europei contigui, con particolare riguardo a Francia e Svizzera, e poi a quelli lontani, con riferimento specifico all’Africa: nell’ordine delle prime destinazioni, Congo Belga, Nigeria, Ghana, Sudafrica, Zimbabwe, e man mano, almeno altri venti Paesi del Continente Nero. A conti fatti, viste le cifre analitiche proposte dalla Gualinetti, quasi metà dell’emigrazione roasiana considerata nel suo complesso scelse proprio l’Africa, mentre oltre un terzo rimase in Europa, con una larghissima maggioranza diretta in Francia. La quota a saldo compete all’America, e in primo luogo agli Stati Uniti, mentre quelle che si diressero in Asia, Australia e Nuova Zelanda furono marginali.
La semplice ripartizione delle destinazioni induce qualche riflessione non effimera. A esempio, il fatto che i Paesi Africani siano stati notevolmente preferiti non può essere attribuibile soltanto alle tradizioni e al passaparola, ma è suscettibile di qualche motivazione integrativa facilmente intuibile, alla luce dei criteri per lo meno restrittivi con cui i Paesi maggiormente sviluppati gestivano le strategie d’immigrazione.
Basti rammentare che nello scalo di «Ellis Island», la celebre porta d’ingresso negli Stati Uniti davanti a New York, i controlli erano rigidamente impietosi: ciò, fino al punto da imporre il rientro al Paese di provenienza a quanti non erano in regola con le norme di entrata, a cominciare da quelle riguardanti lo stato di salute dei migranti. Non a caso, secondo la straziante testimonianza di Ferruccio Micheletti, riportata nel volume, nel corso degli anni si sarebbero avuti circa 200.000 «respingimenti» (sia pure a fronte di parecchi milioni d’ingressi) con il tragico corollario di 3.000 suicidi durante la quarantena[5].
Le tristi storie dell’emigrazione, compresa quella da Roasio, hanno le proprie brave eccezioni negli esempi di quanti riuscirono a costruire importanti fortune. In proposito, un caso tipico è quello di Desiderio Iorio, emigrato in Francia da ragazzo, poi agente doganale, quindi dirigente francesizzato della «Compagnie Générale Transatlantique» che gestiva quote maggioritarie dell’emigrazione oltre oceano, e infine banchiere, albergatore e uomo di molteplici affari, scomparso prematuramente nel 1924 all’età di 62 anni, in tempo per non vedere il tracollo delle sue imprese conclusosi nel 1935 con la chiusura della Banca omonima. Ecco una storia capace di illustrare quanto possano essere labili anche le grandi fortune, non appena venga meno la «volontà che veramente vuole» tipica di un pioniere illuminato e laborioso.
Nello stesso tempo, furono tanti i Roasiani, compresi parecchi minorenni, che conobbero il duro lavoro dell’emigrante, come quanti trovarono ampio collocamento nel complesso siderurgico di Le Creusot, sempre in Francia, dove furono occupati circa 100 manovali e quasi 40 minatori italiani, come da testimonianza della stessa Rosy Gualinetti: in quali condizioni, non è difficile comprendere.
Una pagina particolarmente coinvolgente del suo Paese con la valigia è quella in cui Rosy illustra con accenti sempre commossi ed emozionali la vicenda della partenza dal Congo del suo nucleo familiare, alla metà degli anni Sessanta, nella terrificante condizione di un Paese in preda alla rivoluzione, davanti ai mezzi militari che «trasportavano decine di soldati di colore ubriachi e drogati, eccitati, inebriati dalla guerra, le frasche sull’elmetto mimetico, le armi alte». Non c’era da perdere un solo minuto: fra quelle «grida feroci e disumane» Rosy chiude in tutta fretta la sua valigia, sale sull’auto, e via all’aeroporto, a sua volta in preda a «confusione e grida», imbarcandosi alla svelta sul volo per Atene, e quindi per Roma, dove la famiglia Gualinetti avrebbe trovato soltanto gli zii, e come fatto particolarmente amaro, «non un’autorità, [non] una rappresentanza qualsiasi dell’Italia venuta ad accogliere i suoi figli profughi»[6].
Purtroppo, il dramma non era finito. Non bastava aver «lasciato tutto e perduto tutto», a cominciare dal «povero Congo dimenticato, il Congo incantato» della prima infanzia, dove Rosy non sarebbe tornata mai più: dopo pochi mesi perse anche il padre, vittima della disperazione «per aver buttato via una vita di lavoro».
E come se tutto ciò non bastasse, «la svalutazione della moneta ha prosciugato i risparmi in banca e il blocco dei beni ha fatto il resto», senza sovvenzioni, senza risarcimenti, senza radici, con l’anima lacerata, «sempre con la valigia in mano e i sogni chiusi dentro»[7]. Qualcosa di positivo, tuttavia, è rimasto pur sempre in fondo al cuore, come emerge da una lucida e matura consapevolezza non certo scontata a priori: «Non dandoci mai garanzie di stabilità, l’Africa ci ha cambiato: siamo gente libera, orgogliosa, indipendente, indomita, coraggiosa fino all’audacia, rispettosa dell’autorità ma un poco insofferente, perché abituata a far da noi, a sbrogliarcela da soli, a non chiedere».
«Abbiamo obbedito troppe volte», afferma Rosy Gualinetti a conclusione della sua nobile «arringa», e proprio per questo non abbiamo alcuna intenzione di «continuare a farlo». Si tratta di una lezione davvero probante, di grande dignità morale, di coscienza civile e di profonda fedeltà ai celebri «Valori non negoziabili» della fede cristiana, di cui al celebre pensiero del Santo Padre Benedetto XVI.
«Non omnis moriar». Il celebre aforisma di Orazio si addice perfettamente a quest’opera plurima che si legge di getto, in una continua sequenza di coinvolgenti immagini, di personaggi e di «egregie cose» compiute dagli umili emigranti, al pari di quanti hanno onorato l’Italia nel mondo, che il volume intende onorare in una coinvolgente serie d’immagini. Tra gli esempi più ragguardevoli, ecco Aldo Gualinetti, a Eisabethville con Re Baldovino del Belgio, quando fu posata la prima pietra della Cattedrale cattolica (1955); ecco Valerio Micheletti ad Accra con il Presidente della Repubblica del Ghana, Kwame Nkruma, e con il Ministro degli Esteri Kbobo Edusei in occasione di analoghe cerimonie (1960); ecco Carlo Cappa con l’Imperatore d’Etiopia Hailé Selassié ad Addis Abeba per un toccante incontro con gli Italiani (1964); ecco Papa Giovanni Paolo II durante la visita pastorale in Nigeria (1982).
Si tratta di memorie certamente commendevoli che è cosa buona e giusta tramandare ai posteri, ma prima ancora, di momenti egregiamente cooperativi cui è sempre congruo fare riferimento. Ciò, nell’auspicio di una «nuova era di pace, di prosperità e di progresso», secondo il grande auspicio espresso da Pio XII per l’apertura di un Anno Santo molto speciale come quello del 1950: se non altro per la trepida speranza che l’ultimo conflitto mondiale si potesse chiudere davvero col ripudio della guerra voluto anche dalla Costituzione italiana. Ecco una «lieta speranza» tuttora insoddisfatta, ma sempre viva, a più forte ragione, nel cuore degli uomini e delle donne di buona volontà.
1 Un grande affresco di permanente valore storiografico circa le vicende coloniali italiane dell’Ottocento, dai sogni pionieristici degli inizi, come quelli di Carlo Piaggia, Giovanni Miani e Romolo Gessi, al primo, sofferto insediamento ufficiale di Assab, fino alla tragica svolta di Adua (1896) in un’epoca fatta soprattutto di utopie ma nello stesso tempo di complesse velleità risorgimentali, è quello disegnato nella grande opera di Roberto Battaglia, La prima guerra d’Africa, Einaudi Editore, Torino 1958, 820 pagine. In effetti, a prescindere dal titolo in apparenza riduttivo, l’opera spazia esaurientemente dai presupposti politici, economici e psico-sociali del fenomeno coloniale alle loro conseguenze militari spesso infauste, come quelle più note di Dogali e della stessa Adua, che insegnarono, al pari di tante altre, quanto sia infondata l’antica tesi secondo cui la storia sarebbe maestra di vita.
2 Per un esame del pensiero italiano e di quelli altrui nel periodo in esame confronta Carlo Curcio, Corso di storia e legislazione coloniale, Università degli Studi, Facoltà di Scienze politiche e sociali «Cesare Alfieri», Firenze 1955, 304 pagine (con esauriente bibliografia). Un utile approfondimento per opera dello stesso Autore, con particolare riguardo alle relazioni «euro-africane» degli ultimi 200 anni, e più specificamente del cosiddetto «secolo breve», è quello di Carlo Curcio, L’idea d’Europa tra Ottocento e Novecento, Bulzoni Editore, Roma 2017.
3 Oggi, la Repubblica Democratica del Congo, la cui indipendenza risale al 30 giugno 1960, è il più grande dei 54 Stati Africani quanto a superficie, con oltre 2,3 milioni di chilometri quadrati, e il terzo quanto a popolazione, dopo la Nigeria e l’Etiopia. Più specificamente, come da informazioni dell’Annuario Geografico De Agostini, la sua estensione territoriale copre il 7,8% di quella dell’intero continente africano, mentre l’insediamento umano si ragguaglia al 6,9%. Giova aggiungere che il 99,1% dell’intera superficie africana appartiene ai 54 Stati indipendenti di cui sopra, che vi esercitano la propria sovranità, mentre la quota a saldo riguarda le Terre Australi Francesi (Mayotte e Réunion) oltre ai Territori «esterni» della stessa Francia, del Regno Unito e della Spagna. Dal 1960, quando l’esercizio del potere congolese fu conferito al nuovo Governo presieduto da Patrice Lumumba, la storia di questo Paese è stata contraddistinta da una forte instabilità: tra i momenti salienti, devono essere ricordati almeno il colpo di Stato del 1965, con la conquista del potere da parte di Sese Mobutu che lo mantenne fino al 1997, momento in cui gli sarebbe subentrato, al termine di una lunga guerra civile, Laurent-Desiré Kabila, a sua volta ucciso nel 2001 e sostituito per acclamazione dal figlio Joseph, eletto anche nel 2011 alla guida di uno Stato che continua a essere dilaniato da forti contrapposizioni di natura post-tribale, senza dire di quelle con una decina di Stati confinanti, e con particolare riguardo a quelli delle frontiere orientali.
4 Confronta Il paese con la valigia: l’emigrazione roasiana nei secoli XIX e XX, a cura di Rosy Gualinetti e dell’Associazione «Museo dell’Emigrante», seconda edizione, Tipolitografia di Borgosesia 2013 (ultima ristampa), 256 pagine (con ricca documentazione iconografica comprensiva di circa 80 immagini, tre cartine geografiche, due tavole analitiche dei Paesi destinatari dell’emigrazione, e un elenco allegato [32 pagine] dei 1.196 emigranti censiti ufficialmente dal 1830 in poi, con planisfero parimenti accluso dei 42 destinatari dell’emigrazione in parola. In effetti, le cifre rilevate assommano a 1.461, con un’eccedenza di 18 punti percentuali, perché alcuni soggetti sono stati presenti in Paesi diversi, fino a un massimo di sei nel caso dell’emigrante Secondo Beretta [classe 1897] che è stato in Angola, Congo Belga, Ghana, Nigeria, Guinea e Spagna). Al lavoro italiano si deve il primo intervento agricolo di tipo industriale: al riguardo, confronta Carlo Montani, Iniziative coloniali e impegno sociale nell’Italia dell’Ottocento. Leopoldo Franchetti e la sperimentazione agraria in Eritrea, in «Rivista della Cooperazione Giuridica Internazionale», anno XX, numero 57, Edizioni Aracne, Roma 2017, pagine 210-215 (il tentativo, dopo i successi iniziali, non sarebbe andato a buon fine, in specie a causa degli eventi bellici succedutisi nella fase iniziale del «secolo breve» e della tragica scomparsa di Franchetti – già attivo anche nel ruolo di Parlamentare – in concomitanza col dramma di Caporetto).
5 Nel solo trentennio compreso fra il 1892 e il 1924 Long Island vide transitare non meno di 20 milioni di immigranti, comprensivi di donne e bambini. Poi, il Congresso degli Stati Uniti pose un limite agli arrivi, e assegnò precise quote percentuali alle singole provenienze, assai penalizzante per l’Italia, cosa poi consolidata con una legislazione «punitiva» come quella del 1924, abbandonata soltanto un quarantennio più tardi (confronta Il paese con la valigia, pagina 114). In realtà, Ellis Island, al pari di altri approdi statunitensi, fu un luogo da incubo: come ha scritto Pier Francesco Gasparetto, ricordando la testimonianza di Alberto Giovanetti, osservatore permanente del Vaticano in quel luogo di dolore, «decine di funzionari [erano] pronti a incolonnare gli sbarcati, a spingerli a gomitate, farli sfilare prima davanti ai medici, poi davanti agli ispettori dell’emigrazione, i quali spesso perdevano la pazienza, schernivano chi non capiva e vedendo la baraonda urlavano: «Stay in line, you bastard!» (Ibidem, pagina 46).
6 Confronta Il paese con la valigia, pagine 49-52, capitolo 5 (Valigia in mano e sogni chiusi dentro). Il testo in questione è integralmente dedicato alla coinvolgente anabasi della famiglia Gualinetti in uscita dal Congo durante la violenta rivoluzione «decolonizzatrice» successiva all’uccisione di Lumumba, e la rapida «cacciata» dei bianchi nel corso degli anni Sessanta. A ben vedere, questo testo costituisce un contributo idoneo ad approfondire, anche sul piano psicologico, la condizione esule considerata nel suo complesso, che a conti fatti avrebbe coinvolto quasi mezzo milione di Italiani (Venezia Giulia e Dalmazia, Africa, Albania, Dodecaneso e via dicendo) inducendo – fra l’altro – la tragedia di non pochi suicidi: triste epilogo di tante vite stroncate nell’infruttuosa ricerca della libertà, sia dal bisogno, sia dalle tirannie. Va da sé che la piccola Rosy, nativa della colonia, abbia avvertito questo dramma con animo particolarmente commosso.
7 Il numero dei profughi italiani dal Congo fu naturalmente ristretto, pur comprendendo anche alcune decine di nati in colonia, tra cui la stessa Rosy Gualinetti. Anche per questo, ebbero la sorte oltremodo amara dell’oblio, analoga a quella riservata agli altri profughi dall’Africa, con particolare riguardo numerico a quelli provenienti da Eritrea ed Etiopia, e soprattutto dalla Libia in diverse riprese, tra cui la «cacciata totalitaria» disposta da Muammar Gheddafi a carico di 20.000 Italiani, dopo la sua ascesa al potere (novembre 1969). A ogni modo l’esperienza di Roasio e della sua gente resta un episodio di forte rilievo nella storia italiana del colonialismo e dell’emigrazione: da una parte, per l’ampio ventaglio delle destinazioni, e dall’altra, per la triste «specialità» di quella congolese.
Bruno Francolini, L’Africa: Geografia fisica, Regioni naturali, Geografia etnica, economica e politica, Società Editrice Universitaria, Firenze 1953, 162 pagine (a parte le informazioni sui singoli territori, ne emerge che, all’epoca, gli Stati indipendenti costituivano una piccola minoranza). Dopo pochi anni, la realtà sarebbe stata nettamente diversa: al riguardo, confronta Aldo Caioli, Africa: mito di ieri, realtà di oggi, Grafica Niccolai, Pistoia 1964, 52 pagine (con approfondimenti specifici dedicati alla questione congolese, dallo spietato regime «personale» di Leopoldo II alle violenze indiscriminate avvenute dopo l’indipendenza, a cominciare dall’uccisione del primo Presidente Patrice Lumumba, e con decisive responsabilità non soltanto locali, estese alle grandi Compagnie minerarie, e prima ancora, al sostanziale disimpegno dell’Occidente)
Franco Bandini, Gli Italiani in Africa (1882-1943), con 160 tavole e carte fuori testo, Editore Longanesi, Milano 1971, 578 pagine (utile ricostruzione storica della presenza italiana nel continente africano, con particolare riguardo a quella militare [ma non solo] e con ampio supporto bibliografico). Ne emerge, fra l’altro, che il colonialismo italiano si è distinto da quelli altrui soprattutto per il carattere umanitario (un’interpretazione generalmente opposta è quella di cui alla grande panoramica di Angelo Del Boca, Gli Italiani in Africa Orientale, 4 volumi, Mondadori Storia, Milano 1975-1992; e dello stesso Autore, oltre ad altri testi divulgativi, Gli Italiani in Libia, 2 volumi, Mondadori Storia, Milano 1996)
Hosea Jaffe, Africa: movimenti e lotte di liberazione, con prefazione di Richard Pankhurst e con centinaia di documenti e illustrazioni, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1978, 344 pagine. Per quanto riguarda le vicende congolesi, è di specifico rilievo il discorso pronunciato da Patrice Lumumba, primo Presidente della nuova Repubblica indipendente (Ibidem, pagine 181-183) alla Conferenza Panafricana di Léopoldville.