Anna Margaretha Zwanziger
La prima avvelenatrice della Baviera
Un personaggio che ha fatto parlare molto di sé nella Baviera Tedesca del XIX secolo, e non certo in bene, è stata una donna, di nome Anna Margaretha Schönleben, nata a Norimberga il 7 agosto 1760, in una famiglia, se non ricca, sicuramente benestante, in quanto possedeva una locanda, denominata «Zum Schwarzen Kreuz» («Alla Croce Nera»), che le consentiva di tirare avanti dignitosamente. Rimase orfana abbastanza presto, purtroppo, e fu accolta in diverse famiglie, sfortunatamente senza il calore dell’affetto dei suoi cari.
A dieci anni, fu affidata alla custodia di un commerciante di Norimberga, che prese a ben volere quella bambina, comportandosi in modo ineccepibile, trattandola come una di famiglia e dandole una buona istruzione, fondata principalmente sulla letteratura, sulla scrittura e sul calcolo; oltre a ciò, le fece impartire una buona educazione religiosa e, nel frattempo, lei imparò gli elementi fondamentali della lingua francese. Insomma, la sua educazione fu una delle migliori per quell’epoca.
All’età di quindici anni, fu promessa in sposa al notaio Zwanziger, allora trentenne e, dopo il rifiuto iniziale, anche per la pressione da parte della famiglia di adozione si rassegnò al grande passo. È bene chiarire subito che non si trattava di una grande bellezza, tutt’altro: in effetti una sua descrizione la definisce brutta, rachitica, con il viso, la figura e la parola per nulla attraenti. Così, il 5 ottobre 1778, divenne la signora Zwanziger. Però, fin dall’inizio della convivenza, le cose non andarono nel giusto verso, giacché il marito, un bullo, non solo la trascurava, ma per di più indulgeva nell’uso esagerato di sostanze alcoliche. Tale situazione la faceva intristire e avvilire e solamente nella lettura di libri di letteratura trovava un minimo di conforto; anzi, leggendo Die Leiden des Jungen Werther (I Dolori del Giovane Werther) di Johann Wolfgang von Goethe, andò talmente in depressione che pensò perfino di lasciare anzitempo questo mondo suicidandosi con un colpo di pistola che, secondo lei, non l’avrebbe fatta soffrire: e meno male che di pistole non ne aveva sotto mano.
Comunque, mugugnando e sopportando dispiaceri, Anna Margaretha, che intanto aveva messo al mondo due figli, giunse ai ventuno anni e finalmente poté accedere all’eredità del padre, che le consentì di cambiare tenore di vita. Però passò sulla sponda dei benestanti in modo irragionevole, dandosi alla pazza gioia, organizzando feste e banchetti, spendendo e spandendo denaro a piene mani, ostentando quella ricchezza che ben presto si affievolì per sparire del tutto. Per tutto questo, per poter continuare a vivere decentemente e per coprire i debiti che il marito accumulava per soddisfare i suoi bisogni di alcol, iniziò la professione della prostituta offrendosi a conoscenti e notabili. Ci fu un momento in cui le finanze migliorarono con il successo che il marito ebbe in una lotteria di orologi, ma, quando questi scoprì che la coniuge se la faceva con ufficiali dell’esercito, andò su tutte le furie. Dico io, possibile che Zwanziger non si fosse reso conto del fatto che, se si tirava avanti, lo si doveva in gran parte alle scappatelle extraconiugali della moglie? In ogni modo, il matrimonio era a rischio, ma si tirò avanti fino a quando pure i proventi della lotteria furono esauriti. E la natura decise per conto suo: nel 1796, il vizio per la bottiglia portò il poveretto alla tomba.
Anna Margaretha, con i pochi denari che le erano rimasti, si trasferì a Vienna, dove riuscì ad avviare una pasticceria; ma gli affari non andarono bene, tanto che, per sopravvivere, decise di offrirsi come donna di servizio presso famiglie benestanti. In quel periodo, incontrò un addetto all’Ambasciata Ungherese, che la piantò subito dopo averla messa incinta; e il bambino, quando nacque, fu immediatamente abbandonato in un orfanotrofio, dove poco tempo dopo morì.
Ebbe una relazione con un barone amico del marito, che, insieme con la produzione di giocattoli e di lavoretti saltuari, le consentì di sbarcare il lunario.
Però, la donna iniziò a dare segni di fragilità psicologica e spesso navigava nella sua fantasia: si potrebbe dire che le era impossibile riconoscere la differenza fra la realtà e il suo mondo onirico.
Stanca del barone, lo mollò e si trasferì a Francoforte, dove prestò servizio presso una ricca famiglia che, però, soltanto dopo tre mesi dall’assunzione, la licenziò perché era insoddisfatta del suo lavoro, della sua cucina e del trattamento che riservava agli altri membri della servitù. Entrò in un’altra casa, ma siccome brontolò perché non le era stato riconosciuto il grado promessole, anche da là fu cacciata.
Che cosa fare? Ritenne che la soluzione migliore sarebbe stata quella di ritornare dal barone, che nel frattempo si era sposato, e così fece: ritornò a Norimberga, dove ridivenne la sua amante. Naturalmente si attirò le ire della legittima consorte, per cui, fra l’altro, dopo aver avuto un aborto, si ritrovò ancora una volta in mezzo a una strada; e intanto aveva superato i 42 anni.
Era in uno stato pietoso di disperazione, come dimostra il suo tentato suicidio, gettandosi nel fiume Pegnitz; ma fu salvata (contro la sua volontà) da due pescatori del luogo. Il barone, venuto a sapere del fatto, le impose di togliersi dai piedi e allontanarsi da quella città. Vista la mala parata, Anna Margaretha si recò prima a Regensburg, poi a Vienna, indi a Norimberga e infine in Turingia, dove prese servizio nella casa del ciambellano locale. Essendo sottopagata, pensò bene di arrotondare lo stipendio appropriandosi di gioielli di famiglia e fuggì per trovare rifugio a Mainbernheim, presso una delle figlie, che aveva sposato un legatore; quando questi venne a sapere che sul capo della suocera vi era un mandato di cattura, avvertì le autorità che intervennero immediatamente, ma troppo tardi, perché Anna fu più veloce, prendendo il volo per raggiungere Würzburg. Qui, per evitare di essere riconosciuta, cambiò nome, diventando Nannette Schönleben, nata Steinacker, e potè entrare in una casa come domestica.
Nel 1805, a Neumarkt nell’Oberpfaltz, trovò lavoro come sarta e conobbe un anziano Generale di Monaco, con il quale ebbe una breve relazione; poi, questi la lasciò per tornare a Monaco dalla moglie. Andò anche lei in quella città, ma lui non volle saperne.
Che altro fare? Le restava solamente da offrirsi per lavorare come domestica, anche perché, nella sua testolina un po’ in disordine, un’idea aveva cominciato a mulinare. Infatti, lei aveva pensato che si doveva presentare a un uomo che fosse ricco e solo e, forte delle sue capacità di casalinga e di buona cuoca, farsi infine sposare. Il suo programma consisteva innanzitutto nell’avvelenare il marito con piccole dosi, poi risanarlo con la riduzione graduale delle dosi guadagnandone così la gratitudine.
Quando, nel 1808, fu assunta da Wolfgang Conrad Glaser, un ricco giudice cinquantenne nella città di Kasendorf, provò a mettere in pratica la sua teoria. Poiché l’uomo era ancora sposato, seppure separato, Anna (ormai Nannette) cominciò le sue mosse, tentando di far riappacificare i coniugi, scrivendo a lei delle lettere e sollecitandola a tentare un approccio, coinvolgendo a tal fine anche loro amici e il prete cattolico, invogliandolo a intervenire con donazioni. Alla fine, il 22 luglio, la donna accettò la riconciliazione e tornò a casa del marito. Per quell’occasione Nannette organizzò un ricevimento di lusso con tutto quanto è necessario, cioè fiori, addobbi, rinfreschi.
Intanto iniziò a mettere in atto il suo progetto a partire dal 13 agosto 1808, aggiungendo un cucchiaino di arsenico nel tè. A proposito di questo veleno, per Nannette era «l’amico più vero». Si deve ricordare che, a quei tempi, non era complicato trovare quel veleno, perché era ampiamente utilizzato nella preparazione degli insetticidi. Due giorni dopo, ci provò con un cucchiaio di veleno per topi, con la convinzione che la dose sarebbe stata sufficiente per ottenere lo scopo desiderato. Infatti la donna iniziò a stare male e, alla fine, le sue pene cessarono con la morte avvenuta il giorno 26 di quello stesso mese.
A tal punto il posto di moglie era libero, ma il giudice nicchiò. Questa freddezza, che per lei era un atto di menefreghismo, la irritò al punto che per ripicca tentò di avvelenare alcuni ospiti dell’uomo, ma la dose fu scarsa e, pur essendo stati veramente male, essi la scamparono. Che nessuno abbia pensato che la causa dei malori potesse essere stata un’aggiunta impropria al cibo forse è un fatto grave, ma così è stato.
Nannette comprese che non avrebbe raggiunto lo scopo che si era proposta, si licenziò e si diede da fare per trovare un altro lavoro. Lo trovò presso l’impiegato del tribunale Gruhmann, un prestante trentottenne. Nannette, pur avendo una decina di anni in più, si innamorò di lui e sperò di essere ricambiata. Per raggiungere il suo scopo, iniziò a mettere in pratica ciò che aveva maturato nella sua testa. Innanzitutto, somministrò veleno a due domestici che avevano il torto di essere in disaccordo con lui perché bevevano troppo. Ma andò male, perché entrambi superarono indenni l’avvelenamento; affermarono, comunque, che nella birra avevano riscontrato un sapore insolito. Questa bevanda fu servita qualche giorno dopo a diversi ospiti del Gruhmann, che furono colpiti da malesseri, nausee, crampi. Poi toccò al giudice Christopher Hoffmann, ospite del padrone di casa, che dopo qualche tempo ebbe convulsioni e accusò dolori atroci.
Intanto iniziò a propinare all’uomo dosi di veleno in basse quantità, che gli procurarono dolori che si aggiunsero a quelli di cui lui già soffriva a causa della gotta e di altri problemi di salute. Malgrado il suo stato fisico non fosse al massimo, egli si fidanzò con la figlia del giudice Hergott di Dachsbach, naturalmente attirandosi addosso le ire di Anna, che pubblicamente si lamentò, in primo luogo perché sarebbe stato meglio che lui pensasse alla sua salute e poi perché lui non si era dimostrato riconoscente per tutte le cure da lei prestategli; tutto questo fu reso noto agli amici di Gruhmann e alla sua sorella, nonché a lui stesso. Ciò lo indusse a parlarne con gli amici, ribadendo anche il fatto che la donna non era per nulla attraente; d’altra parte, come si è detto un precedenza, Nannette era tutt’altro che una bellezza.
La donna cominciò a controllare tutta la posta, sia in arrivo sia in uscita, tanto che Dachsbach si confidò con madame Schell, un’amica che era sopravvissuta, naturalmente a sua insaputa, a un caffè all’arsenico, convinto che Anna cercasse di trovare una qualche cosa che riguardasse il matrimonio. Comunque, lui andò avanti e fece le pubblicazioni di matrimonio, mentre preparava il tutto per ricevere la promessa sposa in casa dopo una settimana. Subito dopo il suo ingresso, la donna fu colpita da diarrea, dolori atroci, problemi all’intestino, tanto da dover rimandare la data delle nozze; ma l’8 maggio 1809, solamente dopo undici giorni, Dachsbach morì: quella volta Nannette aveva avuto la mano pesante, facendogli gustare una tazza di zuppa bavarese.
Ancora una volta la donna la passò liscia, anche perché i medici affermarono che c’era da aspettarselo, essendo la salute dell’uomo da tempo compromessa. Lei dimostrò un dolore poco genuino, ma tant’è.
Come si dice, la Zwanziger (che si presentava sempre come Schönleben) si trovò una volta ancora in braghe di tela e dovette cercare un altro lavoro, che trovò il 13 maggio 1809 presso il giudice Richter Gebhard, che aveva bisogno di una domestica per curare il bambino, nato il giorno stesso dell’assunzione. Ma egli non si dimostrò contento della donna, che fra l’altro era una spendacciona. Ciò la indispettì e quattro giorni dopo aggiunse arsenico a un barilotto di birra e, per non sbagliare, veleno per topi in un altro. La moglie, malata da tempo, bevette birra all’arsenico dal primo barilotto e fu colta da fortissimi dolori che, però, riuscì a superare; quando sembrava in fase di ripresa, la birra al veleno per topi fece il resto, procurandole atroci dolori allo stomaco. La signora morì, ma fece in tempo a esprimere il dubbio di essere stata avvelenata.
Ancora una volta ad Anna andò dritta, giacché i medici ritennero che ciò fosse stato dovuto al parto: pertanto, l’unico dubbio sull’avvelenamento restò quello della povera defunta. Non contenta, Nannette usò la mano pesante nei confronti di diversi domestici, che sopravvissero; lo stesso non avvenne per il bambino, che non riuscì a digerire un biscotto «all’arsenico». I servitori insistettero affinché il giudice facesse analizzare il cibo e il risultato fu che questo era contaminato da arsenico.
Alla fine si cominciò a fare due più due, e iniziarono a circolare voci secondo le quali Nannette era una iettatrice, che attirava guai nelle case dove entrava. Queste dicerie giunsero pure alle orecchie di Gebhard, ma la necessità che qualcuno pensasse al bambino gli consigliò di ignorarle e di non cacciarla.
Nell’agosto 1809, due servitori si erano presentati a casa del giudice con un messaggio. Secondo Nannette, si erano dimostrati bruschi e scortesi, per cui erano da punire; così, a Rosenhauer servì vino bianco avvelenato e all’altro, il diciannovenne Johann Krauss, offrì un brandy al veleno di topi; come detto, si trattava di una punizione, per cui, pur essendo stati malissimo, sopravvissero. Per la stessa ragione, fu trattata in questo modo la cameriera Barbara Waldmann.
Non era passato molto tempo (infatti era il 1° settembre 1809), quando due amici del giudice, il negoziante Beck e il dipendente del tribunale Alberti, dopo aver assaggiato birra proveniente dal barilotto al veleno per topi, durante una visita al giudice, stettero veramente male. Era la reazione della Zwanziger all’antipatico comportamento di Beck nei suoi confronti; era presente pure la signora Alberti, alla quale Nannette suggerì di non bere quella birra, ma non fu ascoltata.
Il giudice affrontò aspramente la donna, ma questa si proclamò del tutto estranea al fatto. Tuttavia, egli non era tranquillo, per cui pensò di liberarsi di quell’incomodo e, per meglio convincerla ad andarsene, le fornì una lettera di referenze da presentare a un potenziale datore di lavoro.
Ormai i dubbi sulla sua attività criminale si stavano sciogliendo, perché il tutto aveva cominciato a essere troppo evidente e alla fine, il 18 ottobre 1809, Nannette fu arrestata. Essa resistette a lungo a ogni tipo di interrogatorio, ma dopo sei mesi crollò e confessò tutto quanto aveva combinato. La sua conclusione fu che, sì, aveva ucciso tutti coloro che le erano capitati a tiro, ma anche che ne avrebbe uccisi molti di più, se le fosse stato consentito. Il verdetto fu di condanna a morte per decapitazione.
Del resto, ormai la testa della donna non funzionava bene proprio per nulla, giungendo al punto di confessare che il dolore causato dalle sue malefatte, secondo lei giustificate, le dava piacere e non ci pensava due volte a somministrare veleno, seppure in piccole dosi, a tutti coloro che frequentavano quella casa, oltreché al personale di servizio; ciò perché tutti erano meritevoli di una punizione!
Dichiarò, fra l’altro, che il suo amico più vero e sincero era l’arsenico.
Non si dimostrò mai pentita per tutte le malefatte da lei commesse e la morte alla quale era stata condannata non la preoccupava più di tanto. Ai suoi carnefici commentò il suo operato, concludendo lapidariamente, una volta ancora, che tutto sommato era giusto che lei fosse eliminata, giacché il suo desiderio di avvelenare la gente non si era per nulla sopito.
Così, nel mese di luglio 1811, Nannette concluse la sua vita da avvelenatrice, lasciando il capo sul ceppo del boia.