Storia della Chiesa. Cristianesimo e mondo romano
Le convergenze. Le divergenze. L’espansione del Cristianesimo nell’Impero Romano

Gli Apostoli avevano ricevuto da Cristo la missione di annunciare e di testimoniare il messaggio evangelico «fino agli ultimi confini della terra» (Atti degli Apostoli 1,8). Nella prima festa di Pentecoste era apparso chiaro che il Cristianesimo non poteva essere una Chiesa nazionale giudaica, ma doveva diventare una Chiesa universale, veramente cattolica, capace cioè di abbracciare tutti i popoli (Atti degli Apostoli 2,9-11).

Se l’incontro Cristianesimo-Giudaismo aveva messo in luce l’aspetto universalistico presente nella Chiesa primitiva, l’incontro con il mondo romano pose in evidenza il problema della libertà e della tolleranza religiosa.

Per comprendere meglio il rapporto tra Cristianesimo e Impero Romano nei primi tre secoli, sia sul piano storico che dottrinale, va precisato il significato dei due termini. Cristianesimo viene qui inteso come dottrina cristiana e come Chiesa di Cristo, portatrice del messaggio evangelico. Romanesimo significa la civiltà romana come complesso di idee, di vita e di orientamenti, caratteristici del genio romano, e anche l’Impero Romano nella sua organizzazione politica.[1]

Nello stesso tempo è possibile considerare i loro rapporti come uno dei momenti importanti nella storia delle relazioni tra Chiesa e Stato, tra Dio e Cesare.

È utile, quindi, esaminare all’inizio le convergenze esistenti tra Cristianesimo primitivo e Romanesimo, dal punto di vista storico e dottrinale. Poi questo studio focalizzerà le divergenze, e infine saranno esaminati alcuni aspetti della diffusione del Cristianesimo nell’Impero Romano.[2]


Convergenze. Sul piano storico

Sono molteplici i fattori positivi che facilitarono l’affermazione e la diffusione del Cristianesimo nell’ambito dell’Impero Romano. Tra queste condizioni favorevoli si citano solitamente le strutture politico-sociali, poste in essere dal genio legislativo e organizzativo dei Romani. In particolare:

• l’unificazione politica del mondo antico a opera degli Imperatori: i Paesi dell’area mediterranea (dalla Siria alla Spagna, dal Nilo al Danubio) erano confluiti in un grande organismo statale, facendo cadere le barriere di confine tra popoli che prima erano divisi e nemici fra loro;

• all’interno dell’Impero Romano vigeva lo stesso ordinamento giuridico e amministrativo; si erano diffuse ovunque la medesima lingua e cultura, creando così una unità nelle condizioni di pensiero e di vita;

• tali condizioni offrivano alla Chiesa nascente i mezzi concreti per il suo sviluppo e per la sua organizzazione; una formula valida di adattamento alla realtà e un materiale legislativo al quale ispirarsi;

• l’intenso e sicuro commercio, con le sue vie di comunicazione per terra e per mare, rendeva possibile un rapido scambio di beni e di idee che facilitavano la crescita di una mentalità comune;

• il sistema assai sviluppato delle associazioni, grazie alla libertà accordata a tutti, aiutava certamente la nascita e il propagarsi delle comunità cristiane;

• per merito dell’Imperatore Cesare Ottaviano Augusto[3], quando nacque Gesù (tra il 7 e il 6 avanti Cristo) l’Impero godeva un periodo di pace e di tranquillità: situazione ideale per poter svolgere una missione storica di ordine universale. L’«Ara Pacis», consacrata l’anno 9 avanti Cristo, era il simbolo più significativo della «pax romana» che regnava ovunque.


Convergenze. Sul piano dottrinale

Sul piano dottrinale si incontrano convergenze anche più profonde nel genio caratteristico del mondo romano:

• prima di tutto il senso della concretezza e del realismo. A questa mentalità concreta il Cristianesimo non presenta una dottrina astratta, ma una Persona che si è incarnata in un determinato ambiente e periodo storico; non presenta una filosofia, ma una vita;

• in secondo luogo, il senso della storia: l’uomo non è più visto succube di qualche destino o del fatale ritorno della natura, ma come artefice della propria vita, costruttore del proprio futuro. Due opere dell’arte romana evidenziano tale mentalità: la Colonna Traiana, che celebra le vittorie dell’Imperatore Traiano[4], e l’Eneide, in cui il poeta Virgilio[5] glorifica i valori romani tradizionali, e legittima la dinastia Giulio-Claudia come discendente dei fondatori comuni (eroi e dèi) di Roma e Troia;

• terzo elemento convergente, anche se in forma limitata, è il senso della personalità, a cui è strettamente unito il concetto di libertà. Nel diritto romano, «persona» è il soggetto libero, mentre lo schiavo è considerato una «res». Il Cristianesimo fa scoprire all’essere umano la libertà, «libera la libertà», cioè rende l’essere umano cosciente della sua realtà interiore, non statica ma in perenne dinamismo;

• altra nota distintiva del mondo romano è la tolleranza religiosa. Si sa che i Romani conquistatori non abolivano le divinità dei popoli sottomessi con le armi, ma le accoglievano nella religione statale: gli dèi stranieri trovavano posto nel Pantheon romano.


Conseguenze storiche

Per questi motivi, malgrado le persecuzioni dei primi secoli, l’apologetica cristiana elaborò e diffuse l’idea della «provvidenzialità» dell’Impero Romano nella storia. Il Vescovo Melitone di Sardi[6] scriveva, nel 175, che il Cristianesimo e l’Impero Romano erano apparsi quasi nello stesso tempo e si erano sviluppati l’uno accanto all’altro.[7] E Origene[8] osservava nel 248: «Dio preparò i popoli e fece in modo che l’Imperatore Romano dominasse il mondo intero... perché l’esistenza di molti Regni sarebbe stata di ostacolo alla propagazione della dottrina di Dio sulla terra».[9]


L’uso di categorie romane

Il Cristianesimo si servì di categorie romane per presentare la sua dottrina alla gente, usando una catechesi vicina alla realtà sociale e al senso esistenziale della vita. Si spiega così come la forza conquistatrice e la novità del Cristianesimo delle origini abbiano segnato molte aree del mondo antico. Lo scrittore Tertulliano[10] poteva affermare, nel 197: «Noi siamo di ieri, e già riempiamo il mondo intero e tutte le vostre località, le città, le isole, le fortezze, i municipi, i borghi, gli stessi accampamenti, le tribù, le decurie, la Corte, il Senato, il foro... Non vi abbiamo lasciato che i templi».[11]

Forse si può aggiungere che, con il progredire del tempo, la Chiesa si identificò anche troppo con le strutture giuridiche del mondo romano; ma è da notare che, all’inizio, era necessario assumere gli strumenti e i modi che il diritto romano le offriva.


Divergenze

Le divergenze tra Cristianesimo e mondo romano sono riducibili al contrasto di fondo tra una concezione di vita orientata alla trascendenza e al soprannaturale, e una dottrina d’indole immanentistica e naturalistica. In particolare, mentre il primo afferma l’idea monoteistica e il regno spirituale, il secondo presenta una civiltà fondata sul politeismo e la statolatria.

Il politeismo è inteso come dottrina religiosa di una trascendenza non autentica, come potenziamento e sublimazione dell’umano, personificazione delle forze naturali, in cui fattezze, tendenze e azioni degli dèi altro non sono che proiezioni delle fattezze, tendenze e azioni degli esseri umani. In definitiva, il politeismo romano equivale alla chiusura della realtà e della vita negli orizzonti cosmico-umani.

La statolatria è la consacrazione dello Stato come assoluta divinità, che si incarna nell’autocrazia dell’Imperatore o nella democrazia oligarchica. Lo Stato gode di una preminenza indiscutibile sugli individui: per i Romani, esso è il fine a cui tendere, per cui agire, in cui affermarsi. La «salvezza» di ogni soggetto è la stessa «salvezza» dello Stato, e la salvezza dell’essere umano è nello Stato e per lo Stato.

Da ciò deriva la fortissima coscienza civica del Romano, la sua volontà di sacrificio per lo Stato, il suo ardore nel percorrere la carriera pubblica, la sua vocazione guerriera, l’attaccamento al diritto come formula risolutrice dei conflitti della convivenza. È la «virtù» caratteristica del cittadino romano.

Nel Cristianesimo, invece, l’individuo non è visto solo nella realtà terrena, ma è considerato in un orizzonte ultraterreno; assume un valore preminente su qualsiasi esperienza di ordine cosmico e naturale. La trascendenza di Dio e il soprannaturale potenziano l’ origine stessa e il fine dell’essere umano, il cui destino non si conclude nell’ambito del tempo. La personalità di ogni soggetto e la sua spiritualità emergono sul mondo della natura e dello Stato; la persona è colei che costruisce la città terrena in vista della città celeste.

Al «civis romanus» che nasce soldato per il trionfo dello Stato, il Cristianesimo oppone la «dignitas christiana», capace di realizzare la pace e la carità nella fratellanza umana.


Le criticità

A causa di tali divergenze profonde, era ovvio che l’Impero avversasse il Cristianesimo nella sua dottrina e nelle sue istituzioni, anche se il popolo mostrava la sua disponibilità. Ecco perché i Romani, pur essendo molto tolleranti in campo religioso, attivarono azioni persecutorie contro i Cristiani. Le persecuzioni testimoniano la netta opposizione di principio tra l’ideologia romana e la dottrina cristiana. Pur essendo sudditi e cittadini devoti dell’Impero, i Cristiani erano spiritualmente estranei alla sua anima, soprattutto non potevano condividere la romana assolutezza dello Stato.

All’Impero politico e militare dei Romani, il Cristianesimo contrapponeva il suo Regno spirituale, al Campidoglio il Calvario, al realismo di Roma la spiritualità di Cristo: «Il mio Regno non è di questo mondo» (Vangelo secondo Giovanni 18,36).

Felicemente, l’anonimo autore della Lettera a Diogneto[12] riassume la differenza profonda nei principi religioso-morali: «I Cristiani dimorano sulla terra, ma sono cittadini del cielo... Per dirla in breve, i Cristiani svolgono nel mondo la stessa funzione dell’anima nel corpo».[13]


Espansione del Cristianesimo nell’Impero Romano

La rapida diffusione dei Cristiani in molte zone dell’Impero Romano, che si constata già alla fine del I secolo, non deve far dimenticare gli ostacoli e le difficoltà che il Cristianesimo dovette superare; né far gridare al miracolo tanto facilmente.

Infatti, il numero dei Cristiani, rispetto alla popolazione totale, fu esiguo. Se all’inizio del IV secolo si aggira probabilmente intorno al 10% degli abitanti dell’Impero, è ovvio che alla fine del I secolo la cifra doveva essere di gran lunga inferiore. Del resto, nelle regioni dell’Occidente, inclusa l’Italia Settentrionale, la presenza cristiana si fece consistente solo dal V secolo in poi.

Nella diffusione del Cristianesimo si verificò dunque una gradualità, sia numerica che spaziale. Dato che il punto di partenza fu la Palestina, è chiaro che attorno a questa regione ebbe inizio l’irradiazione del messaggio evangelico.

Naturalmente nella propagazione della fede ebbero un ruolo importante le situazioni politiche, sociali, economiche e culturali. L’unità linguistica, realizzatasi in Oriente mediante il greco e in Occidente attraverso il latino, facilitò anche la comprensione del messaggio di Cristo, subito tradotto in queste nuove categorie intellettuali. Il notevole sistema viario dei Romani contribuì ad accelerare le comunicazioni tra i popoli. È certo che il Cristianesimo, pur essendo sorto alla periferia del mondo greco-romano, contò maggiori aderenti nell’Impero Romano che non in altre formazioni statali, come l’Impero Persiano, più vicine alla Palestina. Si diffuse così, fin dall’antichità, l’affermazione della «provvidenzialità» dell’Impero Romano.

Tuttavia si deve rilevare che questi furono fattori esterni, validi anche per le altre confessioni religiose del tempo. Ci si domanda allora: come mai queste correnti non ebbero tanta diffusione quanto il Vangelo? Bisogna rispondere che il Cristianesimo si è presentato al mondo come religione interiore, come concezione totale della vita, come un’impostazione pacifica e rivoluzionaria insieme della persona e della società. Attribuire il successo a fattori linguistici o a elementi organizzativi significa fermarsi a considerazioni di superficie. Gli uomini che aderirono al Cristianesimo fecero una scelta coraggiosa e dovettero superare un ambiente che, per mentalità e per costumi, non era sulla linea del messaggio evangelico.


È il contenuto del Cristianesimo che si è imposto

Occorre quindi accogliere il fatto che è stato il contenuto del Cristianesimo ad affermarsi e a essere accolto. Lo stimolo alla conversione non venne certo dalla speranza di un successo umano, né dalla presentazione di un facile ideale di vita; al contrario: il nuovo Cristiano doveva operare un rinnovamento interiore profondo e condurre una vita piena di austerità.

Va aggiunto che l’ambiente politico, culturale e popolare dell’Impero non mostrò una particolare simpatia verso il Cristianesimo. Le persecuzioni dei Giudei, quelle successive dello Stato, l’ostilità degli intellettuali, le accuse infamanti da parte della «plebs» furono realtà più dirette ad allontanare che ad avvicinare alla fede. Pertanto chi arrivava a chiedere il Battesimo doveva spesso compiere un atto eroico per vincere i pregiudizi dell’ambiente.

La stessa dottrina cristiana presentava insegnamenti misteriosi e sconcertanti, come l’incarnazione di Dio, l’unità e la trinità divina, l’amore e il perdono ai nemici... E affermava principi non in sintonia con la cultura e con gli usi tradizionali del mondo greco-romano, nel quale le concezioni religiose erano distanti dalla Rivelazione.

Pur ammettendo un influsso della diaspora giudaica, e pur constatando un’ansia di rinnovamento spirituale in soggetti illuminati, la stragrande maggioranza della popolazione aveva una visione di Dio, del mondo, dell’essere umano, del male, molto diversa e lontana dalla «novità» presentata dal messaggio cristiano.

È un contrasto ben individuabile nelle pagine del Vangelo, dove si legge: «Fu detto agli antichi... Ma io vi dico...» (Vangelo secondo Matteo 5,21.27.33); «Vi do un comandamento nuovo» (Vangelo secondo Giovanni 13,34). Le otto «beatitudini» e l’appello alla «conversione» personale sono un segno del nuovo linguaggio religioso che i discepoli trasmettevano al mondo pagano; certe affermazioni suonarono inaudite e incredibili all’orecchio degli uditori, come quando Paolo annunciò ad Atene la risurrezione di Cristo, e fu deriso dai filosofi (Atti degli Apostoli 22-31).

Tutta l’apologetica del II secolo è una dimostrazione della concezione innovatrice del Cristianesimo, del contrasto tra il monoteismo e il politeismo, tra la morale cristiana e quella pagana. Così lo intesero anche Cornelio Tacito[14], Gaio Svetonio[15] e Plinio il Giovane[16], che definirono il nuovo culto una «superstitio nova et malefica».

Per questo nuovo modo di vivere la fede religiosa, il Vangelo incontrò difficoltà nell’ambiente del paganesimo. Preconcetti, legami a vecchie tradizioni, usi nazionali, costituirono ragioni di aperta opposizione alla novità cristiana. Per vari secoli rimase una resistenza nelle vecchie classi della nobiltà romana, fedeli alle patrie tradizioni, come tra i ceti rurali, incolti e tradizionalisti.


Una sottolineatura

Per coloro che oggi vivono, malgrado i processi di secolarizzazione, in un clima che richiama in più occasioni il Cristianesimo, rimane difficile comprendere l’impegno che dovettero assumere i primi Cristiani, presenti in un ambiente ostile e circondati da una mentalità essenzialmente pagana, per coinvolgere il mondo romano. Per questo motivo occorre riflettere sulle caratteristiche del periodo antico per meglio comprendere il significato della «sequela Christi».


Alcune indicazioni bibliografiche

AA.VV., Le origini del Cristianesimo, a cura di R. Penna, Carocci, Roma 2004

G.R.P. Arca, La grande storia della diffusione del Cristianesimo nell’Impero Romano nei primi suoi tre secoli di vita, Arkadia Editore, Cagliari 2015

G. Jossa, I Cristiani e l’Impero Romano, Carocci, Roma 2000

M. Simonetti, Il Vangelo e la storia. Il Cristianesimo antico (secoli I-IV), Carocci, Roma 2010

P. Siniscalco, Il cammino di Cristo nell’Impero Romano, Laterza, Roma-Bari 2021 (ristampa)

M. Sordi, I Cristiani e l’Impero Romano, Jaca Book, Milano 2023 (nuova edizione).


Note

1 Tra le molte pubblicazioni confronta anche: V.A. Sirago, Romanesimo. Fondamenta e retaggio della civiltà romana, Arte Tipografica Editrice, Napoli 2002.

2 P. Siniscalco, Il cammino di Cristo nell’Impero Romano, Laterza, Bari-Roma 2007.

3 Cesare Ottaviano Augusto: nato nel 63 avanti Cristo. Primo Imperatore Romano dal 27 avanti Cristo al 14 dopo Cristo.

4 Traiano (53-117). Regnò dal 98 fino alla sua morte.

5 Publio Virgilio Marone (70 avanti Cristo-19 avanti Cristo).

6 Melitone di Sardi (morto verso il 190; Santo). Vescovo di Sardi, in Lidia. Padre della Chiesa. Apologista del II secolo. Considerato una notevole autorità nella Chiesa primitiva.

7 Melitone di Sardi, Apologia indirizzata all’Imperatore Marco Aurelio. È conosciuta grazie a tre frammenti citati da Eusebio di Cesareain, Historia Ecclesiastica, IV, 26.

8 Origene di Alessandria (detto Adamanzio; «resistente come il diamante»; 185-254). Teologo e filosofo.

9 Origene, Contra Celsum, 2,30.

10 Quinto Settimio Fiorente Tertulliano (155 circa-230 circa). Avvocato, scrittore, apologista.

11 Tertulliano, Apologeticum, 36.

12 Il testo risale probabilmente alla seconda metà del II secolo.

13 Lettera a Diogneto, V,9 e VI,1.

14 Cornelio Tacito (55 circa-117/120 circa). Storico, oratore, Senatore.

15 Gaio Svetonio Tranquillo (70 dopo Cristo circa-deceduto dopo il 122 dopo Cristo). Storico e biografo.

16 Caio Plinio Cecilio Secondo (61/62 circa- 114 circa) esercitò l’avvocatura. Fu uno scrittore e un magistrato. È conosciuto come Plinio il Giovane per distinguerlo dallo zio materno Plinio il Vecchio. Autore di varie opere; di queste rimangono il Panegirico di Traiano e un epistolario in 10 libri. Con riferimento ai Cristiani confronta la «Lettera di Plinio a Traiano» (Epistularum, X, 96).

(ottobre 2024)

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