Sacra Sindone: un falso d’autore?
«La Sindone è un documento sconvolgente:
se è autentica, è frutto di un amore sovrumano; se non è
autentica, è frutto di un genio sovrumano» (Emanuela
Marinelli)
È la più famosa reliquia della Cristianità, un telo che da secoli suscita la pietà dei fedeli, l’ammirazione degli artisti, la perplessità degli scienziati – un oggetto che «non dovrebbe esistere». È la Sacra Sindone.
La Sacra Sindone è un lenzuolo di lino di colore giallo ocra, tessuto a mano con trama a spina di pesce, conservato nel Duomo di Torino, sul quale è visibile l’immagine di un uomo che porta segni di torture, maltrattamenti e crocefissione: un uomo che è stato flagellato, coronato di spine, crocifisso con chiodi e trapassato da una lancia romana al costato; nessuno ha mai potuto spiegare come si sia formata quell’immagine. La tradizione popolare identifica l’uomo con Gesù Cristo e il lenzuolo con quello usato per avvolgerne il corpo, nel sepolcro; la Chiesa, invece, sempre molto cauta quando si grida al miracolo, parla semplicemente dell’«Uomo della Sindone» senz’altra specificazione. Le due immagini presenti sulla Sindone ritraggono un corpo umano nudo, a grandezza naturale, l’una di fronte e l’altra di schiena; sono allineate testa contro testa, e di colore più scuro di quello del telo. Appare dunque chiaro che l’Uomo della Sindone fu adagiato sulla metà inferiore del telo, e fu ricoperto con l’altra metà ripiegata su di lui. Il corpo raffigurato appare quello di un maschio adulto, con la barba e i capelli lunghi, che presenta numerose ferite: le più evidenti sono le ferite ai polsi e agli avampiedi, compatibili con l’ipotesi che vi siano stati piantati dei grossi chiodi, e una larga ferita da taglio al costato. Il tutto corrisponde alla tradizionale iconografia di Gesù e al resoconto evangelico sulla crocifissione.
I Cristiani – è bene precisarlo – non fondano la loro fede sulla Sacra Sindone, anche se, indubbiamente, essa rappresenta, se non una prova, quanto meno un suggestivo indizio della Risurrezione di Cristo.
Fotoriproduzione in grandezza naturale della Sacra Sindone esposta alla Basilica di Desio (Italia); fotografia di Simone Valtorta, 2010
Nel Nuovo Testamento la Sindone viene citata in occasione della deposizione di Gesù nel sepolcro: secondo i racconti dei Vangeli, dopo la Sua morte il corpo di Gesù fu deposto dalla croce, avvolto in un lenzuolo (sindone) con bende e deposto nel sepolcro. Della Sindone non viene fornita alcuna descrizione circa dimensioni, forma, materiale; viene però indicato che fu utilizzato un telo per il corpo e un fazzoletto (sudario), separato, per la testa.
Si potrebbe ipotizzare (se essa fosse autentica) che, dopo la Resurrezione di Gesù, la Sacra Sindone sia stata conservata e venerata dalla primitiva comunità cristiana di Gerusalemme come ricordo della Passione di Gesù.
Nel II secolo il Vangelo degli Ebrei, uno scritto apocrifo diffuso tra i Giudeo-Cristiani in Palestina e andato perduto, accenna fugacemente alla Sindone: «Il Signore, dopo aver dato la Sindone al servo del sacerdote, apparve a Giacomo». Sempre nello stesso periodo il Vangelo di Nicodemo accenna alla Sindone e al sudario che sono detti presenti nel sepolcro dopo la Resurrezione.
Il Vangelo di Gamaliele, conservato indirettamente tramite un manoscritto etiope del V-VI secolo, nomina sedici volte le «bende» di Gesù. Nel testo, Pilato si reca al sepolcro dopo la Resurrezione, «prese le bende mortuarie, le abbracciò e, per la grande gioia, scoppiò in lacrime quasi che avvolgessero Gesù». Grazie alle bende un soldato recupera miracolosamente la vista e il «buon ladrone» viene resuscitato. Divengono oggetto di culto: «Tutto il popolo, quelli della regione di Samaria e i pagani volevano vederle». In questo caso, al di là della improbabile storicità dei resoconti, il testo è importante in quanto testimonia l’esistenza di bende funebri di Gesù e il culto ad esse attribuito.
Si fa menzione della Sindone anche in due distinte omelie del IV secolo di Cirillo di Gerusalemme. Nella Catechesi quattordicesima si legge: «Molti sono i testimoni della Risurrezione... la roccia del sepolcro... gli angeli di Dio... Pietro, Giovanni e Tommaso, insieme agli altri Apostoli, dei quali alcuni accorsero al sepolcro; i lini della sepoltura, coi quali fu prima avvolto, che giacenti dopo la Risurrezione... le fasce sepolcrali e il sudario che lasciò risorgendo... i soldati...». Nella Catechesi ventesima: «Vera la morte di Cristo, vera la separazione della Sua anima dal Suo corpo, vera anche la sepoltura del Suo santo corpo avvolto in un candido lenzuolo».
Nel VII secolo Braulione, Vescovo di Saragozza, nella lettera 42 all’Abate Tajo cita i lini e il sudario evangelico, ipotizzando che questo sia stato conservato dagli Apostoli.
Nell’opera De locis sanctis, scritta dal monaco Adamnano nel 698, è descritto il pellegrinaggio del monaco e Vescovo Arculfo compiuto a Gerusalemme attorno al 670. Il pellegrino descrive il ritrovamento del sudario di Cristo («quello che era stato posto sul Suo capo nel sepolcro») e il culto ad esso attribuito. Secondo il racconto di Arculfo, il sudario era stato prelevato dal sepolcro di Gesù da un anonimo giudeo ed era stato tramandato come patrimonio di famiglia. Tre anni prima era sorta una disputa sul possesso del sudario: il Re dei Saraceni Navias aveva chiamato i due gruppi di contendenti e buttato il lino in un fuoco, ma questo era rimasto sospeso sulle fiamme volando poi di fronte ad un pretendente. Il lino era custodito in uno scrigno e venerato dal popolo, Arculfo stesso l’aveva baciato. Misurava «quasi otto piedi in lunghezza», cioè circa 2,3 metri.
Nello stesso periodo si parla anche (per la prima volta) della presenza di immagini sulla Sindone: nel Rito Mozarabico, in un passo che si ritiene risalire al VI secolo, si afferma che Pietro e Giovanni videro le «impronte» del Risorto sui lini, mentre Papa Stefano II (752-757) scrive che la figura del volto e dell’intero corpo di Gesù è stata «divinamente trasferita» sul lenzuolo.
Un’ipotesi interessante mira ad identificare la Sacra Sindone col Mandylion, un fazzoletto che recava un’immagine del volto di Gesù ritenuta miracolosa: si diceva che Cristo si fosse asciugato il volto con un fazzoletto e in questo modo vi fosse rimasta impressa la Sua immagine. Custodito dapprima a Edessa, nel 944 il Mandylion fu trasferito a Costantinopoli; dopo il saccheggio della città avvenuto nel 1204 ad opera dei Crociati se ne persero le tracce. Comunque, vi sono documenti che citano la Sindone e il Mandylion come reliquie distinte, e conservate in luoghi differenti.
Nel periodo bizantino si affermano canoni di raffigurazione di Gesù che presentano elementi riconducibili direttamente alla Sindone di Torino: dopo i primi secoli del Cristianesimo nei quali Gesù era spesso dipinto come un giovane imberbe, simile alle divinità pagane, si impone la raffigurazione ancora oggi tradizionale di Cristo coi capelli lunghi e la barba, oltre ad altre diverse caratteristiche tipiche delle icone bizantine, che corrispondono precisamente a particolari dell’immagine della Sindone di Torino.
Il volto nella Sacra Sindone, fotoriproduzione esposta alla Basilica di Desio (Italia); fotografia di Simone Valtorta, 2010
La prima notizia riferita con certezza alla Sindone che oggi si trova a Torino risale al 1353: il 20 giugno il cavaliere Goffredo di Charny, che ha fatto costruire una chiesa nella cittadina di Lirey dove risiede, dona alla collegiata della stessa chiesa un lenzuolo che, per sua dichiarazione, è la Sindone che avvolse il corpo di Gesù. Egli non spiega però come ne sia venuto in possesso. In un medaglione votivo ripescato nel secolo scorso nella Senna, conservato al Museo Cluny di Parigi, sono raffigurati la Sindone (nella tradizionale posizione orizzontale), le armi degli Charny e quelle dei Vergy, il casato di sua moglie Giovanna.
Nel 1453 Margherita di Charny, discendente di Goffredo, vende la Sindone ai duchi di Savoia, che la portano a Chambéry, loro capitale, dove nel 1502 fanno costruire una cappella apposita. Ma, la notte tra il 3 e il 4 dicembre 1532, la cappella in cui la Sindone è custodita va a fuoco, e il lenzuolo rischia di essere distrutto: un consigliere del duca, due frati del vicino convento e alcuni fabbri forzano i cancelli e si precipitano all’interno, riuscendo a portare in salvo il reliquiario d’argento che era già avvolto dalle fiamme. La Sindone è affidata allora alle suore clarisse di Chambéry, che la riparano applicando dei rappezzi alle bruciature più grandi e cucendo il lenzuolo su una tela di rinforzo.
Dopo aver trasferito la capitale del ducato da Chambéry a Torino nel 1562, nel 1578 il duca Emanuele Filiberto decide di portarvi anche la Sindone: da allora, la reliquia resterà sempre a Torino, salvo brevi spostamenti. Nel 1694 viene collocata nella nuova cappella appositamente costruita, edificata tra il Duomo e il Palazzo Reale dall’architetto Guarino Guarini: questa è tuttora la sua sede.
In occasione dell’ostensione pubblica del 1898, l’avvocato torinese Secondo Pia, appassionato di fotografia, ottiene dal Re Umberto I il permesso di fotografare la Sindone. Il Pia esegue due fotografie e al momento dello sviluppo si manifesta un fatto sorprendente: l’immagine della Sindone sul negativo fotografico appare «al positivo», vale a dire che l’immagine stessa è in realtà un negativo. La notizia accende l’interesse degli scienziati sulla Sindone, iniziando un periodo di studi che ancor oggi non si è concluso.
Nel 1988 viene eseguita la datazione radiometrica con la tecnica del Carbonio 14, ritenuta inadeguata dall’ideatore dall’esame stesso, il chimico americano Willard Frank Libby, poiché la Sindone era troppo contaminata da agenti esterni. La prestigiosa rivista scientifica «Nature» già l’anno successivo mette in luce gli errori statistici del Carbonio 14, mentre il fisico Harry Gove, il padre della moderna datazione radiocarbonica, in un lavoro pubblicato su «Nuclear Instruments and Methods in Physics Research» ammette che la presenza di funghi e batteri può aver contaminato il campione sindonico. Comunque, il Carbonio 14 data la realizzazione della Sindone in un intervallo di tempo compreso tra il 1260 e il 1390 col 95% di probabilità. Raymond Rogers, invece, ha proposto un metodo chimico di datazione basato sulla misura della vanillina presente nel tessuto: secondo la sua stima, la datazione della Sindone sarebbe compresa all’incirca tra il 1000 avanti Cristo e il 700 dopo Cristo. Inoltre, la Sindone presenta diverse analogie col cosiddetto Sudario di Oviedo (un telo che sarebbe stato usato per avvolgere il capo di Gesù dopo la sua morte e sino all’arrivo al sepolcro), che risale sicuramente a non dopo il VII o l’VIII secolo: esso presenta macchie di sangue perfettamente sovrapponibili a quelle presenti sulla Sacra Sindone, e dello stesso gruppo sanguigno, mentre non vi è alcuna immagine che derivi da alcunché di diverso dal contatto tra telo e sangue.
Oltre ai problemi di datazione, non c’è accordo tra gli studiosi nemmeno su come si sia formata l’immagine visibile sulla Sacra Sindone. Alcune ipotesi sono basate su fenomeni naturali spontanei. Qualcuno sostiene che i vapori della decomposizione del corpo avrebbero interagito con il tessuto e con gli aromi di cui esso era impregnato; tuttavia, poiché il vapore diffonde in tutte le direzioni, appare impossibile che questo meccanismo possa produrre un’immagine netta e dettagliata come quella della Sindone. Si è allora ipotizzato un lampo di luce o un fascio di particelle (protoni o neutroni) che avrebbe impresso l’immagine, ma nessuno però ha potuto fornire una spiegazione credibile della causa che avrebbe sprigionato questa radiazione. Esperimenti effettuati con la tecnica dell’effetto corona (un particolare tipo di scarica elettrica) hanno prodotto immagini superficiali simili a quella sindonica, però non è chiaro come potrebbe essersi generato il campo elettrico necessario a indurre la scarica.
A questo punto, si è passati ad ipotesi basate su procedimenti artificiali, che sono le più interessanti: l’ipotesi del dipinto, l’ipotesi del bassorilievo riscaldato e l’ipotesi della fotografia. Vediamole più nei dettagli.
Il principale sostenitore dell’idea che la Sacra Sindone sia un dipinto è il chimico americano Walter McCrone. Egli affermò di aver riscontrato in alcune fibre tratte dalla Sindone la presenza di proteine, di ossido di ferro e di solfuro di mercurio (cinabro): ne trasse la conclusione che la Sindone è un dipinto, in cui l’artista avrebbe usato delle proteine come legante sia per il pigmento di ossido di ferro con cui realizzò l’immagine, sia per il miscuglio di cinabro e ossido di ferro con cui dipinse il sangue; il legante sarebbe poi ingiallito con il tempo. Però complessi test dimostrarono che le macchie rosse sono costituite da sangue intero coagulato di gruppo AB (un gruppo estremamente raro), con attorno aloni di siero. Il sangue si è coagulato sulla pelle di una persona ferita e successivamente ha macchiato la stoffa quando il corpo fu avvolto nel lenzuolo; impossibile ottenere macchie simili applicando sangue fresco con un pennello. Inoltre, analisi chimiche hanno mostrato l’assenza di leganti di pittura e pigmenti; il cinabro non può essere responsabile della colorazione delle macchie rosse, peraltro certamente composte da sangue, semplicemente perché non c’è. È da tener presente che molti artisti hanno copiato dal vero la Sindone, e quindi la presenza occasionale di pigmenti da pittore non è inaspettata, anche perché quasi sempre le copie venivano messe a contatto con l’originale per renderle più venerabili.
Due professori dell’University of Tennessee (Stati Uniti), Emily Craig e Randall Breese, affermano che l’immagine della Sindone si può realizzare usando un pigmento di ossido di ferro in polvere distribuito con un pennello o premuto con la parte piatta di un cucchiaio di legno, con l’aggiunta di collageno che viene poi sciolto dal vapore di una pentola d’acqua in ebollizione. Ma i risultati delle analisi chimiche contraddicono anche questa teoria. Per la realizzazione artistica esistono, inoltre, tali e tanti problemi pratici da renderla impossibile. Per tentare di realizzare l’opera, l’artista dovrebbe salire su una scala alta circa quattro metri e mezzo, posta a cavallo del modello, in modo da averne una veduta completa guardando in basso. In questa scomoda posizione, però, l’artista può comporre un’opera di proporzioni limitate. E come rappresentare l’immagine dorsale di un uomo in posizione supina? Il modello andrebbe posto in alto su uno spesso ripiano di plastica, che non esisteva nel Medioevo! Ed un vetro si romperebbe. Inoltre, nel tempo di cui l’artista avrebbe bisogno per completare l’opera, sarebbe cessato il «rigor mortis» ed iniziata la putrefazione. «Esistono limiti insormontabili – ricorda una nota artista americana, Isabel Piczek – quanto alla dimensione dell’opera d’arte che un artista può produrre. Nessun artista, in nessuna epoca, ha realizzato un dipinto lungo 4,36 metri che presentasse le qualità visive dell’immagine della Sacra Sindone». Inoltre, come fa notare il famoso scrittore Italo Chiusano, la figura umana visibile sull’antico lino conservato a Torino non rientra in alcuno stile artistico di nessuna epoca.
Joe Nickell, un ex-prestidigitatore americano, afferma che per fabbricare la Sacra Sindone il falsario avrebbe usato un bassorilievo strofinato e ricoperto di ossido di ferro con tracce di acido solforico, su cui avrebbe applicato il lenzuolo (sebbene i già citati risultati delle analisi chimiche condotte sulla Sindone contraddicano anche questa teoria). Nickell trova impossibile che il sangue sia così rosso e definisce i rivoli di sangue «rivoletti molto artistici che scendono graziosamente dalle ferite» (che cosa ci sia di artistico e di grazioso nelle colate sanguigne sulla Sindone lo sa solo lui, e comunque il loro rosso è stato spiegato dagli scienziati con l’abbondante presenza di bilirubina, testimone delle sevizie subite da quel corpo). Un’altra difficoltà opposta da Nickell è la presunta assenza di deformazioni nell’immagine; ma un’osservazione non superficiale della Sindone rileva invece che le deformazioni, dovute all’avvolgimento di un vero corpo umano in un lenzuolo, ci sono e non sono poche.
È senz’altro da escludere anche l’ipotesi che l’immagine sia stata prodotta con un bassorilievo riscaldato a 220 gradi centigradi da un falsario che avrebbe poi applicato il sangue con un pennello. Questa teoria, sostenuta da un antropologo di Bari, Vittorio Pesce Delfino, si basa su alcune somiglianze esistenti fra le leggere strinature e l’immagine sindonica, che è dovuta alla ossidazione, disidratazione e coniugazione della cellulosa componente il lino. Sull’immagine sindonica sono assolutamente assenti pigmenti, colori o tinture. Il colore giallo delle fibre è dovuto ad una trasformazione del lino stesso.
La teoria del bassorilievo riscaldato presenta innanzitutto problemi di esecuzione, dato che si sarebbe dovuto operare con un lungo lenzuolo su un bassorilievo di oltre quattro metri. C’è poi il diverso comportamento sotto radiazione ultravioletta: l’immagine della Sindone non emette fluorescenza, a differenza delle strinature che risultano fluorescenti. Di più, l’immagine sindonica è estremamente superficiale, interessa solo due o tre fibrille del filo; invece quella ottenuta con il bassorilievo passa da parte a parte ed è visibile anche sul retro della stoffa; nonostante questo, tende a scomparire nel volgere di pochi mesi! Il falsario, inoltre, avrebbe dovuto aggiungere il sangue successivamente sull’immagine ottenuta; ma questa operazione presenta varie altre difficoltà. Anzitutto, l’immagine sindonica si vede solo da lontano; il pennello avrebbe dovuto essere lungo almeno due metri per mettere il sangue nelle zone giuste! E questo sangue doveva essere posto in punti anatomicamente corretti, senza lasciare tracce di pennellate. Doveva inoltre essere sangue coagulato con attorno aloni di siero invisibili ad occhio nudo, il che testimonia il contatto del lenzuolo con un vero cadavere. Infine, gli scienziati hanno scoperto che le fibrille insanguinate della Sindone non sono ingiallite sotto la patina rossa del sangue: il sangue ha «protetto» le fibrille sottostanti mentre si formava l’immagine del corpo; il falsario avrebbe dovuto mettere prima il sangue nei punti opportuni e poi applicare il lenzuolo sul bassorilievo caldo. Ma, in questo caso, oltre la difficoltà di far combaciare le macchie di sangue sui punti giusti, ci sarebbe l’inevitabile alterazione del sangue a diretto contatto con il bassorilievo riscaldato a 220 gradi centigradi. Inoltre, il falsario avrebbe dovuto mettere sulla Sindone alcuni particolari invisibili ad occhio nudo, come alcuni segni di flagello sottili come graffi e il terriccio ai talloni, alle ginocchia e al naso; avrebbe dovuto spargere sul telo pollini di piante inesistenti in Europa, ma presenti in Palestina, aloe e mirra; e tracce degli aromi usati per la sepoltura. Alcuni indizi, come ad esempio la manifattura rudimentale della stoffa della Sindone, la torcitura in senso orario dei fili, la presenza di tracce di cotone egizio antichissimo, la presenza di aragonite simile a quella ritrovata nelle grotte di Gerusalemme rendono verosimile l’origine del tessuto nell’area siro-palestinese del I secolo. Avrebbe inoltre, questo falsario, immaginato i fori dei chiodi nel palmo della mano, come sempre hanno raffigurato gli artisti, e non nei polsi come si osserva sulla Sindone; non avrebbe pensato ad una corona di spine a casco, al trasporto del solo patibulum (la trave orizzontale della croce) invece dell’intera croce, al corpo nudo, all’assenza del poggiapiedi – tutti particolari in contrasto con l’iconografia medievale. Nell’immagine ci sono poi molte asimmetrie e deformazioni, come si può osservare, ad esempio, nella mano destra con le dita apparentemente troppo lunghe o nell’immagine frontale delle gambe, che sembrano sproporzionatamente lunghe fra le ginocchia e le caviglie. Solo l’avvolgimento di un vero corpo in un lenzuolo con le relative pieghe può spiegare le apparenti anomalie. Impossibile, infine, l’applicazione differenziata di sangue venoso ed arterioso nei punti anatomicamente giusti sulla fronte e di sangue post-mortale nella ferita del costato e ai piedi. Anche l’ipotesi del falsario che opera con un bassorilievo riscaldato è dunque insostenibile.
Recentemente Luigi Garlaschelli, docente di chimica organica all’Università di Pavia nonché membro del Cicap, il Comitato Italiano per il Controllo delle Affermazioni sul Paranormale, ha annunciato trionfalisticamente di aver riprodotto la Sacra Sindone («provando», così, che si tratterebbe di un falso), sebbene egli ammetta di non aver mai avuto modo di analizzare in prima persona il telo: si sarebbe attenuto a delle semplici fotografie. Inoltre, ha sempre sottratto il suo manufatto a qualsiasi tipo di analisi. Si è servito, dice, di un bassorilievo sul quale è stata applicata della vernice a secco… peccato che la teoria del bassorilievo, riscaldato, strofinato o verniciato, sia stata esclusa, giudicata impraticabile e quindi abbandonata da almeno tre decenni dopo che gli scienziati statunitensi dello Shroud of Turin Research Project hanno pubblicato dettagliatamente i loro risultati su prestigiose riviste internazionali. Egli, invece, ha preferito fare annunci ad effetto celebrati con favore dai mass media ma sostanzialmente privi di qualsivoglia valenza sperimentale.
Una teoria che gode di grande popolarità oggi è quella che vede l’autore della Sindone nientepopodimeno che in Leonardo da Vinci: due scrittori inglesi, Clive Prince e Lynn Picknett, ne sono certi, anche perché a dirlo è stato… lo stesso Leonardo, durante una seduta spiritica (non sapevo che lo spiritismo fosse una scienza empirica, ma evidentemente mi sbagliavo). Vero è che, quando la Sindone viene consegnata alla famiglia Savoia (22 marzo 1453), Leonardo era ancora nella culla e il lenzuolo, con tanto di immagine sopra, era in giro per la Francia da un secolo. Ma i due Inglesi aggirano la difficoltà della domanda affermando che il telo non sarebbe lo stesso: si sarebbe trattato di un banalissimo lino dipinto in malo modo, una specie di «crosta». Fra l’arrivo della Sindone, proveniente da Lirey, nelle mani dei Savoia, e la pubblica esposizione avvenuta a Vercelli nel 1494 ci sarebbero circa 40 anni di nascondimento. Il famoso lino sarebbe nientemeno che un autoritratto di Leonardo da Vinci, fabbricato su commissione della Chiesa per avere una falsa Sindone: Giuliano de’ Medici, per cui Leonardo lavorava, era sposato con Filiberta di Savoia, ed era anche fratello di Papa Leone X; inoltre, il genio toscano intratteneva una corrispondenza con uno studioso arabo dedito a studi sull’ottica. Certo, ogni epoca ha i suoi «miti» di riferimento: fino a qualche anno fa, andavano di moda gli extraterrestri; adesso, Leonardo. Il quale, è bene ammetterlo, è stato in vita un personaggio davvero eccezionale: pittore, scrittore, ingegnere, studioso dell’anatomia e dell’ottica; sembra essersi occupato dell’intero sapere accumulato dal genere umano prima di lui, cercando di organizzarlo e in alcuni casi di svilupparlo. Il riprodurre la propria faccia sul lino che migliaia di persone avrebbero adorato, ritenendolo il simulacro di Dio, sarebbe stato, secondo gli studiosi, un motore più che sufficiente per spingere l’ironico e orgoglioso protetto mediceo ad immortalarsi sulla stoffa. Esisteva, nel castello di Fontanellato, una primitiva «camera obscura», ovvero una stanza nella quale l’unica luce disponibile passava attraverso un foro nella parete, dove era stata collocata una rudimentale lente di ingrandimento: in questo modo si potevano vedere, riflesse sulla parete opposta, le immagini capovolte di quanto accadeva all’esterno di quel muro. Se quindi Leonardo avesse messo a punto un processo chimico in grado di fissare in qualche modo la luce sul lino, sarebbe (forse) stato in grado di realizzare qualcosa di vagamente simile al misterioso telo che ancor oggi affascina gli studiosi di mezzo mondo. Secondo Prince e la Picknett, Leonardo avrebbe impiegato una tela «sensibilizzata» con urina: poi, 6-12 ore di esposizione di fronte ad un modello illuminato con lampade per simulare «il caldo sole italiano» e il gioco è fatto; si lava la tela in acqua fredda, si espone al calore, poi si lava in acqua calda e detergente. Qualche ritocco di sangue completa l’opera. Come sempre, i «moderni falsari» mostrano quello che hanno ottenuto, più o meno somigliante alla Sindone: ovviamente all’apparenza, da verificare in laboratorio.
Secondo Nicholas Allen, professore di Belle Arti dell’Università sudafricana di Port Elisabeth ed esperto di fotografia, l’immagine della Sindone si potrebbe realizzare con una «lente al quarzo, nitrato d’argento e luce solare naturale». La lente sarebbe stata posta a metà strada tra il corpo e il lenzuolo, che doveva essere ad otto metri di distanza. Allen ritiene che Leonardo potrebbe aver appeso sotto il sole, in posizione verticale, un manichino o un cadavere dipinto di bianco «per un numero non specificato di giorni» di fronte ad una rudimentale camera oscura contenente un lenzuolo opportunamente trattato con nitrato d’argento. L’ipotesi di un cadavere appeso per giorni al sole è assurda, non fosse altro perché il «rigor mortis» non sarebbe durato così a lungo. Ma anche un manichino non è proponibile: nel Medioevo nessuno avrebbe potuto realizzare una statua così corretta dal lato anatomico. Inoltre, le macchie di sangue e di siero presenti sul lenzuolo sono irriproducibili con mezzi artificiali: è sangue coagulatosi sulla pelle di un uomo ferito e ridiscioltosi a contatto con la stoffa umida; si tratta di sangue umano maschile di gruppo AB che all’analisi del DNA è risultato molto antico. Quindi, Leonardo – o chi per lui – avrebbe dovuto trovare una vittima il cui volto fosse congruente in diverse decine di punti con le icone di Cristo diffuse nell’arte bizantina, pestare a sangue l’uomo in maniera adeguata, in modo da ottenere determinati gonfiori del viso riprodotti nelle icone, procurare alla vittima una ferita nel costato con una lancia romana, facendone uscire sangue e siero separati, mantenere il cadavere avvolto nel lenzuolo per una trentina di ore impedendo il verificarsi del fenomeno putrefattivo, prevedere che da un cadavere si potesse ottenere un’immagine così ricca di particolari come quella della Sindone, togliere il corpo dal lenzuolo senza il minimo strappo o il più lieve spostamento che avrebbero alterato i contorni delle tracce di sangue. La realizzazione artificiale della Sindone è impossibile ancora oggi.
Dove ci conduce tutto questo? Semplicemente ad ammettere che la Sacra Sindone, ammirata da secoli, da secoli mantiene intatto il suo fascino e il suo mistero. L’uomo di scienza china il capo di fronte alla sua inesplicabilità. Il Cristiano più maturo poco si cura di tutte le dispute e il chiasso intorno alla Sindone: sa bene che, anche se si provasse che è un falso, la sua fede non ne verrebbe minimamente scalfita – significherebbe semplicemente che quello non è il telo in cui fu avvolto Gesù. Per lui, la Sindone è essenzialmente «icona della Passione», reliquia che parla al cuore di un amore sovrumano, un amore che accetta il dolore e il sacrificio supremo per la salvezza degli altri. Questo è il messaggio più autentico e più vero della Sacra Sindone!