La Natività di Gesù
Sulle tracce del Vangelo secondo Luca, tra
storia, archeologia e teologia
Come ogni anno, all’approssimarsi del Natale, le città ed i paesi cominciano a «cambiarsi d’abito»: già dalla fine d’ottobre, nei negozi hanno iniziato a far capolino pandori e panettoni, poi vengono gli addobbi, le luminarie variopinte, le vetrine si fanno festose, si riempiono gli abeti di palle colorate e figuranti vestiti da Babbo Natale cominciano ad aggirarsi per le strade, mentre dai megafoni si spargono le note di nenie natalizie. Poi entri in una chiesa, povera e disadorna, e lo sguardo si posa, nel silenzio e nella penombra, davanti ad un piccolo presepe. E lì ti domandi che cos’è il Natale, il vero Natale, e che cosa fu veramente l’evento che ancor oggi ricordiamo.
Molti leggono il Vangelo secondo Luca (2, 1-20) soffermandosi agli aspetti più «poetici»: il viaggio di Giuseppe e Maria, la nascita nella grotta di Betlemme, il coro degli angeli, la visita dei pastori. Ma la realtà era molto diversa da quanto una lettura superficiale del testo farebbe supporre.
Cominciamo col racchiudere la vicenda entro un quadro storico. La Palestina del tempo di Gesù, duemila anni fa, non aveva nulla che ricordi i tempi odierni: era una terra aspra, una regione periferica del grande Impero amministrato da Roma; le truppe romane d’occupazione imponevano la volontà di Roma in un Paese retto e sfruttato da uomini nominati da Roma; lo stesso Re Erode doveva il suo potere a Roma: regnò dal 40 al 4 avanti Cristo, anno della sua morte.
La Grecia aveva dato la sua impronta alla vita dell’Impero Romano, con la sua arte raffinata, la letteratura, la filosofia, e il greco era la lingua internazionale che univa tutti i popoli assoggettati da Roma. La stessa Palestina assomigliava in gran parte alla Grecia: le «dieci città» (Decàpoli) nominate nei Vangeli (Vangelo secondo Matteo, 4, 25; Vangelo secondo Marco, 5, 20; 7, 31) erano ricalcate sul modello di Atene – avevano i loro templi consacrati a Zeus e ad Artemide, il loro teatro, il loro foro a colonne, il loro stadio, la loro palestra e i loro bagni. Sia per l’architettura, sia per la vita dei loro abitanti, erano greche anche Cesarea, la capitale di Pilato a Sud del monte Carmelo sul Mediterraneo, Sefori, situata pochi chilometri a Nord di Nazaret, Tiberiade sul lago di Genezareth, Cesarea di Filippo, edificata ai piedi dell’Hermon e così pure Gerico; gli abitanti portavano abiti eguali a quelli che si vedevano ad Alessandria, Roma o Atene (tunica e mantello, scarpe o sandali, cappello o berretto come copricapo) e mangiavano sdraiati, secondo l’uso greco. Invece, le molte città e località minori della Galilea e della Giudea avevano conservato nell’architettura (ma non più nei costumi) il loro carattere giudaico: fu in queste comunità che visse e operò Gesù.
L’esistenza di Gesù non ci ha lasciato tracce materiali: né palazzi reali, né templi, né guerre di conquista, né città e paesi dati alle fiamme. Essa, però, ci ha lasciato le scritture del Nuovo Testamento, che per varietà e numero di esemplari sono superiori a tutti i manoscritti degli autori classici e a tutto ciò che ci è stato tramandato su qualsiasi avvenimento di tutta la storia greco-romana: il loro numero si eleva a migliaia, e i più antichi e venerandi tra di essi sono posteriori soltanto di pochi decenni ai tempi di Cristo, cosa che depone a favore della loro autorevolezza nel tramandare fatti che erano ancora ben fissi nella memoria di molti.
L’inizio della storia di Gesù è collocato entro una precisa cornice temporale e geografica: si parla infatti di un censimento («census») di tutta la terra (l’Impero Romano) fatto quando Quirinio era governatore della Siria.
I censimenti fornivano i dati per il servizio militare e per le imposte. Senza i tributi dei popoli sottomessi, Roma non si sarebbe mai potuta permettere il lusso dei suoi ammiratissimi palazzi e giardini, né la sua vita sontuosamente dissipatrice, né il suo efficientissimo ma costoso apparato amministrativo. I governatori romani si mostravano munifici offrendo al popolo gratuitamente «panem et circenses»: il grano per il pane lo forniva l’Egitto, mentre le imponenti arene per i giochi venivano costruite con denari provenienti dai tributi.
Il «census» aveva luogo nell’Impero Romano ogni quattordici anni, quanto per i «cives romani» (i cittadini di Roma) quanto per la Spagna e la Gallia, l’Egitto, la Siria e la Palestina.
Il governatore Quirinio è menzionato nei documenti romani: era il senatore Publio Sulpicio Quirinio nato da una modesta famiglia presso Tusculo, sui colli Albani (soggiorno prediletto delle nobili famiglie romane); l’Imperatore Augusto apprezzava molto le sue straordinarie attitudini sia militari, sia amministrative. Quirinio venne nel 6 dopo Cristo quale legato in Siria, mentre Coponio fu mandato con funzioni di primo procuratore in Giudea; tra il 6 e il 7 dopo Cristo essi eseguirono un censimento, troppo tardo per essere quello menzionato da Luca. Il frammento di un’iscrizione romana trovato presso Antiochia ci informa però che Quirinio era già stato un’altra volta in Siria in qualità di legato dell’Imperatore Augusto, al tempo del proconsole Saturnino: era investito di compiti prettamente militari, dirigendo i combattimenti contro gli Omonadensi (una tribù nella catena del Tauro, nell’Asia Minore). Quirinio aveva stabilito in Siria la sua sede ufficiale ed il suo quartier generale fra il 10 ed il 7 avanti Cristo: la nascita di Gesù è collocabile nel 7 o nel 6 avanti Cristo.
Fin qui, per quanto riguarda l’anno. Per il mese e il giorno, non abbiamo notizie per una data sicura. Fu l’Imperatore Giustiniano, nel VI secolo, a riconoscere il 25 dicembre come festa legale del Natale: nell’antica Roma il 25 dicembre era il «dies natalis invicti», il «genetliaco dell’invitto», il giorno del solstizio invernale e altresì l’ultimo giorno dei «Saturnali», che da tempo avevano degenerato in una settimana di carnevale sfrenato durante la quale i Cristiani potevano sentirsi particolarmente sicuri da persecuzioni.
Riguardo al mese, molti ritengono che la menzione dei «pastori, che passavano la notte all’aperto e facevano la guardia al loro gregge» (Vangelo secondo Luca, 2, 8) faccia pensare ad una stagione non fredda: a Betlemme i mesi di dicembre, gennaio e febbraio erano i più freddi e i più piovosi; il Talmud precisa che in quella regione le greggi venivano portate al pascolo in marzo e riportate a casa ai primi di novembre, quando rimanevano chiuse nelle stalle. Però il riferimento a turni di veglia e di riposo (probabilmente in un ambiente protetto e riscaldato) non rende impossibile pensare ad una stagione fredda. La tradizione cristiana ha collocato l’accampamento dei pastori per la fatidica notte nell’attuale villaggio arabo di Bet-Sahur, a tre chilometri da Betlemme, in una località detta «Campo dei Pastori», occupata nel IV-VI secolo da un monastero bizantino eretto su grotte usate dai pastori per le veglie notturne.
Sia Matteo che Luca menzionano Betlemme come luogo di nascita di Gesù: il primo fa supporre che Maria e Giuseppe vivessero lì, mentre il secondo precisa che vi si recarono in occasione del censimento. Sono concordi con loro le tradizioni e le ultime scoperte dell’archeologia.
Adagiata su due colline, a sette chilometri a Sud di Gerusalemme, Betlemme era un piccolo centro («E tu, Betlemme di Èfrata, / così piccola per essere fra i villaggi / di Giuda, / da te uscirà per Me / colui che deve essere il dominatore / in Israele»: Michea, 5, 1). Il suo nome significa «Casa del pane»: Gesù fu deposto in una mangiatoia, luogo dove gli animali hanno cibo, e nell’Eucarestia Egli stesso si dona come pane di vita per l’umanità.
Antonio da Correggio, Adorazione dei pastori (particolare), 1528-1530 circa, Gemaldegalerie, Dresda (Germania). Le spighe di grano su cui poggia il Bambin
Gesù rimandano sia al significato del nome Betlemme («Casa del pane»), sia all'Eucarestia.
Luca precisa che in quel posto Giuseppe e Maria non trovarono alloggio in alcun albergo: quello che chiama «albergo» si riduceva ad un vasto cortile con portici coperti di rami e frasche, sotto i quali si riparavano uomini ed animali; non certo il posto più adatto ad una donna in procinto di partorire.
Le prime comunità cristiane indicavano il luogo dov’era nato Gesù; l’accenno alla «mangiatoia» farebbe pensare ad una stalla, forse fuori dall’abitato. Il filosofo Giustino scrisse dopo il 150 che «al momento della nascita del Bambino a Betlemme, poiché non aveva dove soggiornare in quel villaggio, Giuseppe si fermò in una grotta prossima all’abitato e, mentre si trovavano là, Maria partorì il Cristo e lo depose in una mangiatoia, dove i Magi, venuti dall’Arabia, lo trovarono». Dello stesso avviso è lo studioso Origene (185-253 o 254): «Si mostra a Betlemme la grotta nella quale Gesù è nato e, nella grotta, la mangiatoia dove fu avvolto in fasce».
Nella prima metà del IV secolo, l’Imperatore Costantino fece innalzare sulla grotta della Natività l’omonima basilica, abbellita poi dall’Imperatore Giustiniano. Una stella d’argento è stata posta nel punto preciso in cui la tradizione vuole sia avvenuto il parto di Gesù.
La Basilica della Natività a Betlemme (Israele)
La Basilica della Natività, grotta della Natività
La Basilica della Natività, la stella d'argento che mostra il punto preciso del parto di Gesù
In realtà, la nascita di Gesù avvenne in una di quelle stanze, non di rado rupestri, che nelle case palestinesi servivano come dispensa e rifugio invernale, in compagnia di animali, stanza forse ceduta da un conoscente o parente. Ricordiamo che Giuseppe era nativo di Betlemme (discendeva dal Re Davide, anche se la sua famiglia era ormai decaduta) e quindi poteva avere delle proprietà in città o nei suoi pressi.
L’annotazione di Luca vuol dire piuttosto che la nascita di Gesù non è accolta, anzi, è rifiutata; l’Evangelista Giovanni dice la stessa cosa con maggiore chiarezza e durezza: «Venne nella sua casa, ma i suoi non l’hanno accolto». L’incanto della notte di Betlemme – così «poetica» nella semplicità dei nostri presepi – è già segnato dal rifiuto, dall’ostilità, fin quando lo butteranno di nuovo fuori dalla città, di nuovo in periferia, per metterlo a morte. Altro che poesia!
Il messaggio di Dio è affidato agli angeli: non è solo un annuncio, è un canto nel senso letterale della parola, e Manzoni lo capì quando scrisse che «per l’ampia / notte calati a stuolo, / mille celesti strinsero / il fiammeggiante volo; / e accesi in dolce zelo, / come si canta in cielo, / a Dio gloria cantar» (Alessandro Manzoni, Il Natale). Essi cantarono: «Gloria a Dio nell’alto dei cieli / e pace agli uomini che Egli ama». La pace di Dio è la benevolenza offerta a tutti coloro che sono oggetto del Suo amore: esso è senza esclusioni, non conosce barriere, non è riservato a pochi eletti, ma è spalancato per ogni uomo, anche per quanti mettiamo ai margini.
Dio si manifesta a noi in un bimbo avvolto in fasce perché, come spiegò Papa Benedetto XVI nella notte di Natale del 2006, «il segno di Dio è la semplicità. Il segno di Dio è il bambino. Il segno di Dio è che Egli si fa piccolo per noi. È questo il Suo modo di regnare. Egli non viene con potenza e grandiosità esterne. Egli viene come un bambino, inerme e bisognoso del nostro aiuto. Non vuole sopraffarci con la forza. Ci toglie la paura della Sua grandezza. Egli chiede il nostro amore: perciò si fa bambino. Nient’altro vuole da noi se non il nostro amore... Dio si è fatto piccolo, affinché noi potessimo comprenderlo, accoglierlo, amarlo».