La basilica di Santa Maria di Pugliano e i
suoi sarcofagi antichi
Come la cultura cristiana ha assimilato,
interpretato e riadattato simboli e opere della cultura
pagana
Non di soli scavi è ricca Ercolano, al contrario, ha chiese e monumenti molto interessanti come alcune tra le ville vesuviane più belle, ma tra tutte queste bellezze voglio evidenziare due bellissime chiese: una è la barocca chiesa chiamata da tutti Sant’Agostino, che conserva un Luca Giordano, e l’altra è una delle più antiche chiese dell’area vesuviana, è la basilica di Santa Maria a Pugliano, frazione di Ercolano.
Ho conosciuto la basilica di Santa Maria di Pugliano ad Ercolano grazie ad un amico che stava restaurando alcune sue parti e così, approfittando della situazione, sono andata a visitarla e ho scoperto una chiesa ricca di storia e di tradizioni, basta dire che è il santuario mariano più antico di tutta la zona vesuviana, quindi è doveroso accennare brevemente alla sua storia prima di parlarvi di un particolare che mi ha colpito molto, mi riferisco a due sarcofagi romani riusati come altari la cui storia vi racconterò tra poco.
La fondazione della basilica si perde nella leggenda poiché è legata alla venuta dell’Apostolo Pietro in questa zona, infatti, secondo la tradizione, Pietro, dopo lo sbarco a Calastro, località tra Torre del Greco ed Ercolano, iniziò ad evangelizzare Ercolano e tra i neofiti ci fu un certo Ampellone. Questi, per devozione, decise di fondare la suddetta chiesa il cui nucleo originario, stando alle ricostruzioni storiche, si trova sotto l’altare principale. Come ho accennato prima, l’origine della chiesa si perde nella leggenda perché il personaggio Ampellone potrebbe non essere mai esistito, probabilmente Ampellone è un adattamento popolaresco di «ampellon» (parola di origine greca) che significa «vigna», «vigneto», infatti, questa Madonna è conosciuta sia come Madonna di Pugliano sia come Madonna di Ampellone. Spiegherò più nel dettaglio l’origine di questo doppio nome quando parlerò di uno dei sarcofagi.
Riprendendo il filo del discorso sulla storia della chiesa, indipendentemente dalla sua origine mitica, fu menzionata per la prima volta come Santa Maria at Pugnanum in un documento del 1076. Risale al 1574 la prima e unica grande trasformazione dell’edificio religioso così come oggi lo vediamo.
La lunga vita del santuario è testimoniata dalle numerose opere d’arte, di scultura e di arredo sacro conservate al suo interno ma, per stuzzicare la vostra curiosità, menziono solo due sculture: la statua lignea della Madonna di Pugliano realizzata durante il primo decennio del Trecento che, nonostante i vari adattamenti e restauri subiti nel tempo, rimane un interessante esempio della cultura franco-gotica diffusa dagli Angioini, e il Crocifisso Nero ligneo datato fine Duecento.
I due sarcofagi della basilica di Santa Maria di Pugliano (Italia); fotografia di Annalaura Uccella, 2012
Testimoni di questa lunga storia sono anche i due sarcofagi che sono i veri protagonisti di questo racconto perché mi hanno da subito incuriosito, si trovano nella cappella dedicata a Sant’Antonio da Padova.
Essi sono le uniche testimonianze pagane conservate nella basilica e sembrano apparentemente estranei a quest’ambiente ricco di opere d’arte e di sculture, in realtà, guardandoli attentamente, ci informano in che modo la nuova fede cristiana li ha riadattati e usati.
A onor del vero, durante il Medioevo non era raro riadattare i sarcofagi romani alla nuova fede poichè erano considerati preziosi sepolcri, però, quelli di Pugliano, stando alle due epigrafi centrali, sono stati adattati e utilizzati in altari e non come sepolture. In questa nuova veste, sono stati utilizzati dall’XI al XVI secolo fino a quando, in seguito ai grandi lavori di ristrutturazione, sono stati tagliati ed incassati nel muro dove tutt’oggi si trovano.
Non è chiaro dove questi sarcofagi sono stati rinvenuti, tuttavia è possibile datarli grazie al repertorio iconografico ancora leggibile: quello superiore è decorato con un fregio strigilato – ossia ad «S» – interrotto da un clipeo e sotto una scena con due figure, risalirebbe al IV o V secolo dopo Cristo; quello inferiore presenta due grifi alati ai lati di una tavola con sotto un festone di ghirlande, risalente al II secolo dopo Cristo.
Il sarcofago inferiore della basilica, con i suoi grifoni; fotografia di Annalaura Uccella, 2012
La scelta di riusarli come altari non è casuale ma legata ai nuovi significati che la fede cristiana dava al repertorio iconografico pagano.
Come nel caso dei due grifi alati presenti sul sarcofago inferiore: il grifo, animale fantastico con il corpo da leone e la testa d’aquila, fu usato sia dalla cultura greca sia da quella romana come animale sacro ad Apollo e a Dioniso (il Bacco romano). Fu successivamente assimilato dalla cultura cristiana per poi entrare prepotentemente nei bestiari medievali.
Nel mondo pagano, il grifo presenta una complessità di significati dovuti alla sua ricca stratificazione culturale che, per comodità, faccio partire dal mondo romano, non sono poi così diversi tra loro nonostante venisse associato a due divinità apparentemente divergenti; quando veniva associato ad Apollo, divinità solare, diventava l’animale portatore di luce e di riequilibrio del bene sul male, guardiano fedele del dio e garante dell’avvento dell’età dell’oro, di armonia e di prosperità. Con una forte connotazione politica, il binomio grifo e Apollo fu ripreso da Ottaviano come uno dei tanti simboli utilizzati nella sua poderosa propaganda culturale, come testimonia la corazza su cui è stato raffigurato Apollo a cavallo di un grifo di ritorno dal Paese degli Iperborei sull’Augusto di Prima Porta, stesso motivo iconografico su di un pulvino dell’Ara Pacis.
Quando il grifo veniva associato a Dioniso, invece, lo stesso dio cambiava di significato, diventava una divinità ctonia cioè collegata alla terra e a tutte le sue forze generatrici e distruttici. Quest’accostamento iniziò ad essere frequente a partire dal IV secolo avanti Cristo tanto che l’animale entrò a far parte del ciclo mistico dionisiaco come uno dei tanti simboli legati alla divinità, una bella testimonianza pittorica di questo culto lo si può ammirare nella Villa dei Misteri a Pompei.
Entrambi i culti su descritti presentavano uno stretto legame con l’aldilà e al grifo affidavano anche il ruolo di protettore, accompagnatore e traghettatore delle anime dei morti verso il regno dell’oltretomba su di un carro solare. Questo nuovo compito gli valse l’onore di essere raffigurato sia sui sarcofagi pagani sia su quelli cristiani determinando, così, una sovrapposizione e una continuità tra il mondo pagano e quello cristiano. Inoltre, il grifo fu associato a tutte le divinità legate al culto solare.
Ciò rese quasi automatico riusarlo nella nuova fede cristiana, come fece Isidoro da Siviglia (560-636) che, per primo, lo associò simbolicamente alla figura di Gesù. Per il Dottore della Chiesa, il grifo, animale binato per eccellenza, raffigurava simbolicamente la doppia natura di Gesù in cui il lato umano era rappresentato dal leone, emblema della forza e della regalità, mentre quello divino e trascendentale, invece, era rappresentato dall’aquila che è tutt’oggi il simbolo della rivelazione. Anche Dante usò il grifo in questa nuova accezione, infatti, nei canti XXXI-XXXII del Purgatorio, rappresentò simbolicamente Gesù come un grifo che trainava su di un carro gli uomini liberati dal peccato originale che, grazie al sacrificio del Figlio di Dio, potevano aspirare al Paradiso (vi consiglio di leggerli perché troverete una forte assonanza tra il grifo pagano e quello cristiano).
Sul finire del Medioevo, al grifo, contemporaneamente a questo significato cristiano, gli verranno attribuiti nuovi significati.
Ritornando al grifo raffigurato sul sarcofago inferiore presente nella chiesa di Santa Maria di Pugliano, accanto ai significati su descritti va aggiunto un nuovo significato in rapporto alla Madonna ercolanese e il Vesuvio.
Parto da una tesi molto interessante che lega il culto di Dioniso, simbolicamente rappresentato dal grifo, alla Madonna.
Sostenitori di questa tesi sono due storici dell’area vesuviana, il Palomba e il Di Donna. Essi partono dall’etimologia dell’appellativo più popolaresco della Madonna che è Ampellone da «ampellon» ossia «vigna», «vigneto», per i due storici durante il VI secolo dopo Cristo avvenne una progressiva sovrapposizione del culto cristiano su quello pagano, pertanto il ruolo di protettore e garante della buona riuscita della vendemmia passò da Dioniso alla Madonna e di conseguenza gli Ercolanesi affidarono al grifo la continuità tra i due culti.
Cristiani Ercolanesi animati da una religiosità popolare unirono i vari aspetti ancora vivi del culto di Dioniso alla figura di Gesù simbolicamente legato al vino e alla vigna, mentre alla Madonna di Ampellone venne affidato il ruolo di intermediaria e protettrice della vendemmia.
Tale antica vocazione vinicola continuò nel tempo tanto da trasformarsi in rendita per la basilica come si legge dalla visita pastorale del Cardinale Borali d’Arezzo (datata 1578).
C’è anche un’altra tesi, avanzata dallo storico Galante, che sostiene la nascita del nome Pugliano dalla corruzione del nome di una ricca famiglia patrizia, Publiano o Polliano (le fonti storiche non sono chiare), proprietari del fondo su cui fu costruita la basilica.
Personalmente condivido la testi sostenuta dal Di Donna e dal Palomba e l’amplio sostenendo che il grifo, nella cultura medievale, rappresentava anche la doppia natura di Gesù e a conferma del mio punto di vista, parto da alcune «semplici» considerazioni: primo, le chiese medievali erano dei libri di pietra dove gli elementi-parole erano inseriti secondo regole ben precise in modo che il fedele analfabeta potesse «leggere» e comprendere tutti i precetti religiosi e morali. A queste regole sottostavano anche gli elementi antichi riutilizzati.
A quanto scritto, aggiungo una inaspettata «scoperta» fatta durante la visita al complesso basilicale paleocristiano di Cimitile. Qui ho potuto ammirare, ed è la seconda considerazione, una bellissima transenna conservata nell’«antiquarium» nella basilica di San Felice, che fu realizzata tra il IX-X secolo per la chiesa di San Felice su cui sono raffigurati due grifi alati nella medesima posizione di quelli di Pugliano.
i due grifi sulla lastra marmorea conservata nell'"antiquarium" del complesso monumentale di Cimitile (Italia); fotografia di Annalaura Uccella, 2013
Quindi, i grifi sono stati usati come elementi figurativi in due chiese medievali a distanza di poco più di un secolo; la transenna di Cimitile è datata IX-X secolo, il sarcofago di Pugliano è stato riadattato ad altare nell’XI secolo.
È datata XIV secolo, ed è la terza considerazione, la realizzazione del capolavoro dantesco, summa della teologia e della filosofia medievale, in cui si utilizza a più riprese il grifo come uno dei simboli cristiani di Gesù.
In conclusione, accanto alla ricostruzione etimologica fatta dai due storici vesuviani, ai grifi ercolanesi si può attribuire anche il significato simbolico della doppia natura di Gesù.
Durante tutto il Medioevo, quindi, il Cristianesimo cercò sempre una continuità storica e culturale con il mondo antico evitando, però, un ritorno del paganesimo. Tale equilibrio fu mantenuto fino a quando gli uomini, non più timorosi, iniziarono a guardare, conoscere e imitare quel mondo antico ormai lontano senza timore di un ritorno al paganesimo, siamo entrati nel Rinascimento e durante questo secolo tutto ciò che era medievale fu disprezzato, molte chiese furono modificate secondo il nuovo gusto architettonico. Ciò interessò anche il santuario di Pugliano e il povero altare-sarcofago insieme ai due bistrattati grifi perse ogni sua nobile funzione finendo murato.
Stessa sorte capiterà al sarcofago superiore.
Il sarcofago superiore della basilica, con il banchetto funebre; fotografia di Annalaura Uccella, 2012
E ora scopriamo anche il significato del sarcofago superiore e il perché è un interessante collegamento tra il mondo pagano e quello cristiano.
La sua storia è simile a quella del sarcofago con i grifi: riusato come altare nell’XI secolo per finire poi murato nel XVI secolo nella cappella di Sant’Antonio Abate. Su dove fossero collocati esattamente questi due sarcofagi-altari nella chiesa, a distanza di tempo, non è molto chiaro, probabilmente erano posizionati lungo le navate laterali perché, stando alle croci e scritte devozionali di ringraziamento a Gesù presenti su entrambi com’era prassi fare sugli altari che ospitavano reliquie, erano utilizzati come altari minori per permettere al devoto di pregare, ringraziare e portare ex voto ai propri Santi protettori o alla Vergine, culti che si svilupparono dal Medioevo in poi.
Questo sarcofago, datato tra la fine del IV e gli inizi del V secolo dopo Cristo, è decorato con un fregio strigilato, cioè ad «S», disposto ai lati di un clipeo in cui c’era il perduto volto del defunto poi sostituito da una croce, sotto una scena nella quale sono raffigurati un uomo che porge un cesto di frutta ad una donna seduta.
Da un punto di vista iconografico questi elementi erano presenti già dal II-III secolo dopo Cristo ma, come spesso succede in una fase di passaggio, al significato pagano si affiancava il nuovo significato cristiano, infatti la scena posta sotto il clipeo, nonostante la parziale cancellazione, può avere una doppia lettura: la prima è la raffigurazione in modo sintetico di ciò che attenderà il defunto nell’aldilà che sarà pieno di serenità e di cibo, rappresentato simbolicamente dal cesto di frutta; la seconda lettura riguarda una raffigurazione sintetica di un banchetto funerario.
Il suddetto rito è presente sia nella cultura pagana sia in quella paleocristiana ma con delle interessanti differenze, infatti, in quella pagana aveva la funzione di aiutare i congiunti a separarsi dal defunto e tale distacco avveniva in più tempi; il primo banchetto, detto «silicerium», avveniva dopo la sepoltura, era riservato ai familiari più stretti, il secondo banchetto, detto «novemdialis», avveniva dopo nove giorni dalla sepoltura ed era aperto anche ai non familiari e serviva a riallacciare i legami con la società interrotti durante la fase del lutto più stretto.
Il banchetto funerario paleocristiano, seppur simile nel rito a quello pagano, aveva un diverso significato perché nel «refrigerium», così chiamato dai Cristiani, la commemorazione del defunto, soprattutto se era un martire, aveva un forte valore sociale e serviva a rinsaldare la comunità intorno ai nuovi valori religiosi poiché tutti gli affiliati vi partecipavano e non solo la famiglia colpita direttamente dalla perdita.
Tale rito, in piena età carolingia, fu eliminato dalla Chiesa perché divenne un modo per banchettare e non per commemorare il defunto e si trasferì nelle Messe commemorative, come avviene oggi, il suo ricordo.
Una curiosità, ancora oggi esiste un rapporto tra il cibo e il lutto, senza entrare nel dettaglio vi rimando al film L’oro di Napoli di Vittorio De Sica (del 1954), in particolar modo ai due episodi La pizza a credito e Il Funeralino.
Per farvi un’idea su come il repertorio funerario pagano si confonda con quello cristiano vi cito altri due esempi di sarcofagi: il primo caso è conservato nel Museo Archeologico di Napoli, raffigura la porta di ingresso dell’ultima dimora che il defunto varcherà.
Il sarcofago del Museo Archeologico di Napoli (Italia); fotografia di Annalaura Uccella, 2012
Il secondo esempio è un sarcofago che presenta un repertorio tipicamente cristiano: sotto il clipeo troviamo la scena del buon pastore, in alto a sinistra è raffigurato Giona salvato dalle acque e sul lato destro troviamo una scena di banchetto che può essere interpretato come quello funebre o come Ultima Cena.
(maggio 2017)