Quella casa che vola. La storia delle sacre
pietre di Loreto
I documenti. Le ricerche. L’indagine
archeologica. Le analisi. Le evidenze
Avvertenza: per ragioni di lunghezza, e in accordo con l’Autore, questo articolo è stato pubblicato privo delle note presenti nel testo originale.
Tra le storie che hanno appassionato studiosi e semplici fedeli si colloca la vicenda che riguarda la Camera della Madre di Gesù, trasportata da Nazareth a Loreto (XIII secolo). Tale ambiente è oggi collocato all’interno del santuario mariano di Loreto. Le porte attualmente esistenti, per permettere il flusso dei visitatori, non sono quelle originali, mentre la porta originaria è oggi murata. Con riferimento a questo luogo di vita quotidiana, taluni autori hanno sostenuto una sua traslazione per ministero angelico dalla Palestina all’attuale sito nelle Marche. Da tale Tradizione è in seguito derivato alla Madonna (24 marzo 1920) il titolo di patrona degli aeronauti, sancito con decreto di Benedetto XV. Altri ricercatori, al contrario, ritengono che le sacre pietre della Casa furono trasportate via mare da un gruppo di cristiani poco prima della fine del periodo di presenza dei Crociati in Terrasanta. Il confronto tra le due linee di pensiero ha destato interesse, ma ha anche generato – talvolta – confusione tra coloro che seguono non da vicino il dibattito storico, archeologico e letterario. Può quindi essere utile ripercorrere aspetti di una storia significativa, per arrivare a focalizzare delle evidenze.
Nel 1291 (all’inizio di agosto) venne stipulato il più antico atto costituzionale svizzero: il Patto Federale. Le comunità di valle di Uri, Svitto e Nidvaldo concordarono un aiuto reciproco per resistere a possibili aggressori, e decisero di rifiutare la presenza di giudici stranieri e di mantenere inalterati i rapporti di potere esistenti. Sul versante pontificio, Niccolò IV volle confermare con una Bolla l’indipendenza di San Marino. Questo Pontefice tentò anche di organizzare una nuova crociata. Però, nella primavera di quell’anno, le milizie cristiane vennero definitivamente sconfitte dalle formazioni musulmane. Dopo un assedio alla cittadina fortificata di San Giovanni d’Acri, l’esercito dell’Islam riuscì a superare le barriere difensive, e a conquistare i vari quartieri e il porto. Prima dello scontro finale, i Lusignano, pur mantenendo il titolo di Re di Gerusalemme, si trasferirono a Cipro. I membri dell’Ordine degli Ospitalieri di San Giovanni di Gerusalemme si rifugiarono a Cipro, poi a Rodi (1309) e in seguito a Malta (1530).
Anche il 1292 fu segnato da più eventi. A esempio, nella penisola iberica, nell’ambito del movimento della Reconquista, si può ricordare la vittoria a Tarifa (ottobre) del Re di Castiglia e León, Sancho IV, sui Merinidi. La coalizione cristiana, sconfiggendo le forze musulmane, bloccò il disegno del Sultano del Magreb al-Aqsa di poter riavviare la conquista della penisola iberica.
Nel frattempo, Federico I diveniva il successore di Alberto II come Margravio di Meiben e Langravio di Turingia.
Altri fatti riguardarono l’Italia. Un evento significativo fu la morte del Papa Marchigiano Niccolò IV (aprile). Il decesso avvenne nel palazzo che aveva fatto costruire a Roma, a fianco della basilica di Santa Maria Maggiore. Subito dopo ebbe inizio un Conclave che si prolungò per 27 mesi. Sempre nel 1292 fu riconsacrata la cattedrale di Bari (ottobre), mentre il poeta Dante Alighieri iniziava la stesura della Vita Nova. In Inghilterra, Edoardo I volle nominare Giovanni de Baliol Re di Scozia. In quest’anno, poi, ebbe termine il cammino terreno del teologo francescano Ruggero Bacone, e quello della monaca benedettina Gertrude di Hackeborn.
Il 1293 segnò l’inizio della guerra tra Genova e Venezia. Il conflitto durò fino al 1299. Il motivo dello scontro fu legato al controllo del commercio orientale. Nel Regno di Napoli un terremoto (settembre) causò danni e lutti nel Sannio. Nella capitale subirono gravi danni la chiesa di Santa Maria Donna Regina e il complesso conventuale delle monache francescane clarisse. Per questo motivo, la Regina Maria d’Ungheria, moglie di Carlo II d’Angiò, intervenne con donazioni per favorire la ricostruzione.
Il 1294 fu un anno ove proseguirono le battaglie legate alla guerra Genova-Venezia. In particolare, con la battaglia di Laiazzo (27 maggio) Genova sconfisse la Repubblica avversaria. Ma la guerra proseguì. In questo periodo morì Kublai Khan. Fu Sovrano dell’Impero Mongolo dal 1260 alla morte.
Nel contesto accennato, la Tradizione lauretana inserisce la traslazione della Santa Casa di Maria, per opera di angeli, da Nazareth (1291) fino alla sede definitiva sul monte Prodo, oggi Loreto (1294). Su quest’ultimo aspetto la ricerca storica ha inteso compiere più ricerche.
Un primo riferimento alla Santa Casa, posizionata nell’attuale sede lauretana, si trova in un documento del 1312. Nel testo è riferito il furto di oggetti preziosi avvenuto nella chiesa di Santa Maria di Loreto. I ladri vennero catturati. Il processo si svolse presso il tribunale di Macerata, come risulta dal documento relativo del 1315:
«Accesserunt in Ecclesiam Sancte Marie de Laureto […] accipiendo etiam et asportando super ymaginem beate Virginis et de cona eius, et super ymaginem Domini nostri Jesu Christi, que erat in dicta cona, omnes guirlandas oblatas de argento cum pernis et sine pernis» («Entrarono nella Chiesa di Santa Maria di Laureto […] prendendo anche e asportando sopra l’immagine della Beata Vergine e la sua cornice, e sopra l’immagine di nostro Signore Gesù Cristo, che era in detta cornice, tutte le ghirlande offerte in argento con e senza spille»).
A quanto annotato si può anche aggiungere che la chiesa di Santa Maria di Loreto venne affidata, dai primi decenni del ’300, alla cura di un cappellano o di un rettore alle dipendenze del Vescovo di Recanati.
Sul piano delle fonti, il primo documento che riguarda la traslazione della Santa Casa per mezzo di angeli risale al XV secolo. È un testo dal titolo: Rosarium. L’autrice fu Santa Caterina da Bologna (Caterina de’ Vigri), Clarissa Francescana. Questa monaca non intese trasmettere una rivelazione. Annotò, piuttosto, una propria meditazione-preghiera rivolta a Gesù. Tale religiosa, con una valida cultura, dimostra nel suo scritto di essere informata sull’opera dello Pseudo Girolamo (IX secolo), diffusa nel Medioevo, e di conoscere la narrazione che riguarda la traslazione a Loreto della Casa di Nazareth per opera di angeli. La mistica annotò in particolare:
«Alla fine questa dimora, consacrata prima dai tuoi Apostoli che vi hanno celebrato i divini misteri con miracoli, per l’idolatria di quella gente fu trasportata in Dalmazia da uno stuolo di angeli. Quindi, per le stesse e altre ragioni, portarono questa degnissima chiesa in vari luoghi; finalmente, portata dai santi angeli, fu collocata stabilmente a Loreto e posta nella provincia d’Italia e nelle terre della Santa Chiesa».
Questo evento della traslazione, in particolare, era già stato descritto in alcuni opuscoli loretani che il clero della Corte Estense conosceva.
La notizia su tali testi venne fornita da un canonico umanista di Brescia. Si tratta di Monsignor Giacomo Ricci. Egli si recò pellegrino a Loreto per sciogliere un voto. In particolare, tale ecclesiastico fu autore (1469) di uno scritto dal titolo: Virginis Mariae Loretae Historia. Dalla sua opera si deduce che l’immagine della Vergine Lauretana, a quel tempo, era costituita da una tavola dipinta e non da una statua lignea.
Ricci la definì «una pittura tanto dolce e bella». Precisò che era «a mezza figura» e che si trattava di una «piccola tavola». Il canonico descrisse anche la disposizione dell’interno della Santa Casa, e la presenza di numerosi «ex voto». L’opera è stata nuovamente pubblicata nel 1987 dal Padre Giuseppe Santarelli ofm cap.
Dopo lo scritto del Ricci, intervenne anche il rettore del santuario di Loreto. Si trattava di un sacerdote, Don Pietro Tolomei di Giorgio detto il Teramano (nativo di Teramo; Abruzzo). Quest’ultimo, ancora giovane, e prima dell’anno 1430, cominciò a svolgere attività pastorale nella chiesa di Santa Maria di Loreto. Operò come semplice prete fino al 1450, anno in cui morì il sacerdote Don Andrea di Adria, governatore e rettore, con incarico ricevuto dal Vescovo di Recanati. Nel 1472 circa il Teramano scrisse un testo che divenne il riferimento base per la gerarchia cattolica e il mondo ecclesiale. Il titolo era: Translatio miraculosa Ecclesie Beate Marie Virginis de Laureto. Tale opera non fu un’invenzione del Tolomei ma costituì piuttosto una sintesi della «vox fidelium». Egli studiò anche una vecchia «tabula» consumata, risalente al 1300.
In tale contesto è utile annotare un fatto. Il Teramano, quando stava preparando il suo lavoro, ebbe modo di parlare anche con due Recanatesi che gli riferirono dei ricordi di famiglia. Tali interlocutori furono Paolo di Rinalduccio (Paulus Reynalducij) e Francesco detto Priore (Franciscus alias Prior). I loro racconti, però, erano segnati da un limite grave: la distanza dai fatti di circa 170 anni. Nel periodo in cui il Teramano scrisse la sua Historia, i due testimoni – considerando le loro date anagrafiche – erano già morti. Entrambi i Recanatesi riferirono quanto avevano udito da «un nonno dei nonni». Non fornirono alcuna precisazione riguardo al grado di ascendenza.
1) Il bisavolo di Paolo di Rinalduccio vide gli angeli portare la chiesa attraverso il mare, e posarla nella «selva di Loreta», vicino a Porto Recanati. L’uomo, poi, si recò a visitarla.
2) Francesco, detto il Priore, riferì che il suo bisavolo abitava nei pressi della chiesa trasportata nella «selva di Loreta», e la vide sollevata dagli angeli fino al «monte dei due fratelli», che sarebbe ubicato nei pressi dell’attuale lato Sud-Est del Palazzo Apostolico di Loreto. Tale luogo, però, non risulta facile da individuare. Si può identificare in modo approssimativo con un’area privata situata sul colle Prodo. Qui, la Santa Casa venne posizionata.
Il racconto del Teramano riferisce che i due fratelli proprietari dell’area litigarono per gli introiti provenienti dalla presenza della Santa Casa nel loro territorio. Gli angeli, allora, la trasportarono in un altro punto del colle Prodo. E la collocarono su una pubblica strada. Ciò era proibito. La Tradizione spiega che ci fu una concessione speciale. La via venne deviata e ricongiunta con il suo tratto più a valle.
Nel 1489 seguì, con analoga impostazione, il lavoro del Beato Carmelitano Padre Giovanni Battista Spagnoli. Essendo nato a Mantova venne indicato anche come «il Mantovano». Inoltre, poiché la sua famiglia era di origine spagnola, ricevette il soprannome di «Spagnoli». Questo religioso fu un riformatore del suo Ordine, un importante umanista e un poeta in latino. Il titolo della sua opera è: Historia Ecclesiae Lauretanae.
Il Ricci, il Teramano, lo Spagnoli («il Mantovano») e altri, furono sostenitori di una traslazione avvenuta per opera degli angeli.
La narrazione di questo miracoloso trasporto presenta la Casa già in forma di chiesa, con tetto spiovente. Si trattava di un’iconografia ricorrente. Quest’ultima, includeva anche una piccola vela campanaria.
La configurazione a chiesa venne giustificata ricordando che già nel periodo apostolico la Santa Casa era un luogo di culto. Con l’innalzamento dei muri in mattoni, l’edificio fu pensato come la «chiesa trasportata» dagli angeli. Si affermò, inoltre, che la quarta parete, necessaria per risolvere il vuoto dello spazio grotta, era già esistente a Nazareth. Nella descrizione la chiesa venne presentata priva di fondamenta.
Un’immagine devozionale della traslazione della Casa di Maria a opera degli angeli
La questione della traslazione (angeli o Crociati?) non ebbe un’immediata soluzione. Si prolungò nel tempo. Ne è prova, a esempio, l’intervento di un Francescano, il Padre Francesco Suriano. Questo religioso fu Custode di Terra Santa dal 1493 al 1495, e dal 1512 al 1514. Svolse anche il ruolo di Delegato Apostolico per tutto l’Oriente. Tale autorevole figura, dopo circa 13 anni dall’uscita dell’opera del Teramano, scrisse il Trattato di Terra Santa e dell’Oriente (1485). Egli preparò la prima edizione in Italia, subito dopo il suo primo ritorno dalla Terra Santa (dicembre 1484). Contestò in maniera energica il trasporto angelico. Lo definì irragionevole, privo di elementi base.
Anche Monsignor Pietro Paolo Vergerio contestò l’autenticità della Camera di Maria. Si tratta di un Vescovo Cattolico passato poi al protestantesimo. Fu autore di un testo dal titolo: De Idolo Lauretano (1554) pubblicato a Tübingen (Tubinga). Comunque, con il trascorrere del tempo, la questione dell’autenticità perse di interesse tra le comunità evangeliche.
Nel procedere del tempo, gli impulsi derivanti dalle idee dell’Illuminismo (valore della razionalità, delle prove, della critica), riversarono effetti anche sulla ricerca riguardante la Camera di Maria. Vennero pubblicati diversi studi. In questa fase, emersero delle figure significative. Si pensi, a esempio, al Vescovo di Recanati-Loreto Felice Paoli, al sacerdote Joseph Anton Vogel, tra i principali storici del santuario di Loreto, a Monsignor Stefano Bellini, successore di Monsignor Paoli, al conte Monaldo Leopardi. Questi scrisse:
«Se il Santuario Lauretano è veramente la Casa di Nazareth in cui l’Angiolo annunziò a Maria Santissima la Incarnazione del Verbo, questa Casa venuta in un modo miracoloso dalla Palestina alle spiagge d’Italia, e qui onorata per il corso di tanti secoli dal concorso e dal consenso di tutti i popoli, è propriamente una voce perpetua, che manifesta e giustifica la storia e i dogmi del Cristianesimo».
Tra quanti intervennero sulla «questione lauretana» si può anche ricordare una mistica tedesca. Si tratta di Caterina Emmerick. Questa beata «vide» la Santa Casa, formato chiesa, trasportata dagli angeli al di sopra del mare (sette angeli: tre sostenevano la casa posizionati davanti e tre di dietro, e uno precedeva come una guida). La Santa Casa era senza fondamenta, secondo il racconto tradizionale, ormai diffuso. Al riguardo, può essere utile evidenziare un dato. La comunicazione della Emmerich, nel disegno della Provvidenza, ebbe il merito di sostenere l’autenticità della Casa lauretana. Tale orientamento, in linea con la narrazione ufficiale del tempo, fu utile per contrastare chi sosteneva tesi avverse.
Con Bolla del 26 agosto 1852, Pio IX intervenne in merito alla Santa Camera di Loreto. Nel documento si legge questo passo relativo alla traslazione:
«A Loreto, infatti, si venera quella Casa di Nazareth, cara al Cuore di Dio, e che, fabbricata nella Galilea, fu più tardi divelta dalle fondamenta e, per la potenza divina, fu trasportata molto lontano, al di là dei mari, prima in Dalmazia e poi in Italia. Proprio in quella Casa la Santissima Vergine, per eterna divina disposizione rimasta perfettamente esente dalla colpa originale, è stata concepita, è nata, è cresciuta, e il celeste messaggero l’ha salutata piena di grazia e benedetta fra le donne.
Proprio in quella Casa ella, ripiena di Dio e sotto l’opera feconda dello Spirito Santo, senza nulla perdere della sua inviolabile verginità, è diventata la Madre del Figlio Unigenito di Dio, splendore della gloria del Padre, e figura della sua sostanza, che non ha sdegnato di nascere da questa Vergine purissima, rendendosi simile agli uomini per salvare e riscattare il genere umano, precipitato per colpa dei nostri progenitori sotto la schiavitù del demonio».
Va notato che Pio IX, nella Bolla, non accennò alla traslazione per mezzo di angeli, ma fece intendere il contrario, e presentò, inoltre, solo due tappe della traslazione, mentre la Tradizione ne indicava un maggior numero.
In disaccordo con la linea ufficiale del tempo, emersero le posizioni (con argomenti diversi) del Barnabita Fiorentino Padre Leopoldo De Feis nel 1905, e del canonico francese Ulisse Chevalier (1906).
Il De Feis pubblicò due articoli. Il primo lo intitolò La Casa di Nazareth e il Santuario di Loreto, mentre il secondo ebbe per titolo Il Santuario di Loreto. Questi due scritti furono subito pubblicati in opuscolo separato. Pochi mesi dopo apparvero di nuovo, con numerose «aggiunte e varianti», con il titolo La Casa di Nazareth e il Santuario di Loreto. Questo Autore, in particolare, scrisse che alcuni viaggiatori, i cui racconti erano riportati in itinerari del XIV e del XV secolo, avevano visto, o almeno così dicevano, la casa della Madonna in Palestina, come se non fosse stata trasportata a Loreto nel 1294. Il fatto di aver supposto l’inattendibilità del miracolo di Loreto attirò a questo Barnabita molte critiche, specie tra gli Ordini religiosi. Dopo breve tempo, il De Feis decise di non rispondere alle polemiche, lasciando al magistero della Chiesa il compito di dirimere la controversia.
Lo Chevalier, professore di storia medievale, riteneva la Santa Casa un falso storico. Accusò il Teramano di essersi inventato tutto. Affermò che Loreto era sì «un miracolo», ma un miracolo della superstizione. Il pensiero di questo Autore venne riportato nelle riviste specializzate, nei dizionari di storia e di archeologia, si diffuse in modo esteso. E non mancò una certo influsso anche sui Pontefici. Dopo Leone XIII e Pio X, molto a favore della traslazione angelica, i Papi successivi preferirono non soffermarsi sulla questione lauretana. Benedetto XV rispettò la Tradizione. Pio XI, Pio XII, Paolo VI non si espressero nel merito. Giovanni XXIII raggiunse Loreto il 4 ottobre del 1962, ma parlò della Santa Vergine senza riferimenti alla traslazione della Camera di Maria. La situazione mutò con Giovanni Paolo II e con Benedetto XVI. Quest’ultimo, l’8 settembre del 1991, pronunciò a Loreto un discorso ove affermò: «Quando i Crociati trasferirono le pietre della Casa Nazaretana dalla Terra Santa qui nella terra italiana, hanno fissato il nuovo posto della Casa Sacra su una strada». Da questo dato egli traeva un messaggio: «Questa Casa non è una casa privata di una persona, di una famiglia, di una stirpe, ma sta sulla via di noi tutti: è una casa aperta di noi tutti. La stessa Casa ci fa abitare e ci fa camminare».
Un dipinto che unisce la traslazione della Camera di Maria per ministero angelico con il trasporto delle pietre da Nazareth a Loreto via mare
Comunque, nel 1911-1913, alle affermazioni dello Chevalier reagirono in molti. Tra questi, si ricorda il Gesuita Padre Ilario Rinieri che replicò in modo energico con un’opera in tre volumi.
La ricerca dei documenti d’archivio riguardanti la Camera di Maria, sviluppata in più decenni, fu certamente utile sul piano storico. Ma era anche necessario effettuare un nuovo passo avanti. Occorreva cominciare a esaminare meglio le caratteristiche della stessa Camera. Per far questo era importante utilizzare l’apporto degli archeologi. Trascorse del tempo. Alla fine venne deciso di attuare un piano di indagine.
1) Già al momento delle sottomurazioni di fondazione si era notato che la Camera era priva di fondamenta. Tale fatto fu nuovamente verificato negli anni 1531, 1672 e 1751, in occasione dei lavori di manutenzione del pavimento.
2) Nel 1921 pure l’architetto Federico Mannucci rilevò l’assenza di fondamenta nella Santa Casa. Tale constatazione fu possibile perché, a causa di un incendio, fu necessario rifare il pavimento della Camera. Questo studioso svolse accertamenti «in loco» per incarico di Benedetto XV. Il Papa voleva capire se la Santa Casa era stata traslata dagli angeli o no.
Mannucci fu dell’avviso che era assurdo pensare a un trasporto della Santa Casa con «mezzi meccanici» (aveva in mente dei rulli capaci di trasportare la Casa in blocco). Non essendo possibile tale ipotesi, la conclusione era una sola: il trasporto angelico. Aggiunse poi l’architetto: «è sorprendente e straordinario il fatto che l’edificio della Santa Casa, pur non avendo alcun fondamento, situato sopra un terreno di nessuna consistenza e disciolto e sovraccaricato, seppure parzialmente, del peso della volta costruitavi in luogo del tetto, si conservi inalterato, senza il minimo cedimento e senza una benché minima lesione sui muri».
Mannucci, però, volle presentare la sua relazione in tempi brevi. Lo fece troppo in fretta. La parete Nord della Santa Casa, infatti, presentava segni di logoramento verso l’esterno.
3) Nel 1925 l’architetto Giuseppe Sacconi venne chiamato a Loreto per realizzare alcuni restauri della basilica mariana: cupola, cappelle francese, slava, tedesca, polacca, spagnola. In tale contesto, egli poté esaminare pure la situazione statica della Camera di Maria. Al riguardo, scrisse che questa «sta, parte appoggiata sopra l’estremità di un’antica strada e parte sospesa sopra il fosso attiguo». Poi, superando l’esagerazione di un miracolo permanente, dispose la costruzione di un pilastro per sostenere «la parte sospesa». Tale intervento venne poi riscontrato durante gli scavi del periodo 1962-1965.
Negli anni 1955-1960 ebbero inizio importanti ricerche archeologiche a Nazareth. Furono promosse dallo «Studium Biblicum Franciscanum» di Gerusalemme. Vennero guidate dal Padre Bellarmino Bagatti ofm. Gli scavi consentirono di individuare una chiesa giudeo-cristiana, il cui carattere mariano è attestato da più graffiti risalenti al II-III secolo.
Il primo è la testimonianza di una pellegrina che sull’intonaco di una colonna scrisse il suo nome e quello dei parenti e l’attestato di aver compiuto religiosamente ciò che conveniva (riti, pratiche devozionali...), oppure, secondo un’altra interpretazione, di aver ornato il simulacro della Vergine: «(Prostra)ta / sotto il santo luogo di M(aria) /subito scrissi lì (i nomi,) /il simulacro ornai / di lei» (III secolo).
Il secondo riproduce in lettere greche il saluto dell’angelo Gabriele a Maria: XE MAPIA, abbreviazione di XAIPE MAPIA («Ave Maria», «Rallegrati Maria»). Fu trovato in una base di colonna che riporta, incisi sull’intonaco bianco, dei graffiti lasciati da antichi pellegrini. Si tratta di alcuni nomi in armeno e in georgiano, sovrapposti l’uno all’altro. Ma ciò che catturò l’attenzione degli archeologi fu una scritta in greco.
L’incisione riporta in modo chiaro il nome di «Maria» preceduto da un’abbreviazione di due lettere Xe, interpretata come «Chaire», corrispondente al latino «Ave», cioè al saluto angelico rivolto alla Vergine (Vangelo di Luca).
Questo piccolissimo, ma importante dettaglio è antecedente di qualche secolo il Concilio di Efeso. Tale assise segnò l’inizio ufficiale del culto di Maria Theotòkos, «Madre di Dio». La scoperta del XE MAPIA rovesciò le idee di chi sosteneva che la venerazione a Maria sarebbe derivata dal culto a una divinità femminile pagana.
Interno della Santa Casa di Loreto. Si vedono in basso, nei tre lati, le sacre pietre. La volta a botte fu costruita nel 1536.
Altri graffiti, conservati presso l’adiacente museo, hanno confermato la natura mariana del luogo santo. Un graffito in armeno riporta queste parole: «bella ragazza» (riferite a Maria), e in un altro in greco si legge: «sul santo luogo di M(aria) io ho scritto». Grazie a queste e ad altre acquisizioni archeologiche, fu in seguito possibile al Padre Eugenio Alliata ofm, individuare delle ipotesi ricostruttive dell’impianto architettonico dell’edificio antico eretto proprio intorno alla Grotta dell’Annunciazione.
A Loreto, invece, le ricerche si svolsero negli anni 1962-1965. I lavori furono diretti dall’archeologo Nereo Alfieri. Collaborarono alle indagini il Padre Floriano Grimaldi, archivista del santuario, e il geologo Edmondo Forlani. Vennero realizzati due tunnel che si intersecavano sotto la Camera di Maria.
In tal modo, fu possibile osservare le opere di sottomurazione, e acquisire ulteriori dati. Il gruppo di lavoro definì «prerecanatesi» (rispetto alla costruzione del muro «bono et grosso», eretto all’inizio del XIV secolo) i lavori di sottomurazione, e di contenimento della cedevole parete Nord.
In tale contesto, rimane rilevante la constatazione di graffiti nelle pietre della Camera di Maria. Quest’ultimi, vennero individuati per la prima volta dalla Professoressa Guglielmina Ronconi (1864-1936), ma non seguì un accertamento scientifico. I graffiti divennero oggetto di rilevamento solo in tempi successivi, durante i lavori archeologici condotti da Nereo Alfieri, tenendo conto anche dei graffiti scoperti a Nazareth dal Padre Bagatti ofm.
Su circa 60 pietre sono stati individuati segni cristologici, simili a quelli giudeo-cristiani locali. C’è pure un graffito con croce semicosmica nel cerchio. In tali reperti, presenti anche in Terra Santa, per gli esperti, si può vedere il «pleroma» (la totalità dei poteri di Dio) e il «chenoma» (segno dell’incompletezza umana). Sul più complesso graffito presente, scritto in lettere greche abbreviate, si notano anche due lettere ebraiche: «lamed» e «waw». La scritta è un’invocazione: «O Gesù Cristo, figlio di Dio». Una identica esclamazione si legge in un graffito nella «Grotticella di Conone» a Nazareth, situata accanto alla Grotta venerata.
Interno della Santa Casa di Loreto. Graffito con la scritta sincopata in greco: Iesou Yie tou Theou(O Gesù Cristo Figlio di Dio).
Oltre i graffiti, le ricerche ricordate in precedenza hanno rinvenuto cinque piccole croci di stoffa rossa tipiche dei cavalieri crociati. Furono trovate in una cavità sotto «la finestra dell’angelo». Sul piano storico fanno riferimento alla «croce templare», simbolo del martirio. Tale «signum» si trova su molti sigilli, edifici, oggetti e armature, oltre che sui documenti ufficiali dell’Ordine. Ma la forma di questa croce non era utilizzata solo dall’Ordine del Tempio. Per questo motivo doveva differenziarsi. Per farlo venne scelto il colore rosso. La croce templare bianca indicava i Cavalieri Ospitalieri, mentre quella nera faceva riferimento ai Cavalieri Teutonici.
Di particolare interesse rimangono inoltre alcuni resti di un uovo di struzzo. Attestano che la Camera di Maria proviene da terre lontane. Resti di uova di struzzo vennero individuati dal Padre Loffreda, dell’Istituto Biblico Francescano, nelle chiese di Palestina. Nel Medioevo l’uovo di struzzo si credeva deposto dalla femmina sulla sabbia e direttamente fecondato dal sole. Il significato cristiano è questo: il Verbo di Dio fecondato nel seno di Maria Vergine a opera del sole, cioè dello Spirito Santo. Anche in varie chiese dell’Abissinia e dell’Oriente Cristiano-Ortodosso si trova a tutt’oggi, appeso nel catino absidale, un uovo, emblema di nascita e rinascita.
Nel contesto delineato, si possono indicare alcune evidenze. Una prima annotazione riguarda la tesi dell’iniziativa angelica. Se si considera la descrizione di tale evento, emerge un’evidenza. Perché degli esseri così perfetti come gli angeli depositarono la Camera in un posto poco adatto? La strada sulla sommità del colle Prodo, infatti, non si rivelò idonea perché il terreno era poco solido. Per questo motivo, è realistico pensare a un’opera umana che rivelò limiti. Il posizionare la Camera priva di fondazioni, con muri a sacco grossi (e quindi pesanti), senza una valutazione del terreno, pur avendo a disposizione altri luoghi più idonei, non può essere dovuto – in definitiva – a uno sbaglio di angeli, ma a un fattore umano.
Si può aggiungere poi un interrogativo. Perché la Camera sul colle Prodo venne posta senza fondamenta? La risposta è legata alla volontà di mantenere una continuità con Nazareth. In quest’ultima località, infatti, la Camera poggiava direttamente sulla roccia, e non sono state trovate sul sito tracce di fondamenta. Inoltre, chi si occupò del posizionamento definitivo a Loreto ritenne che i grossi muri a sacco della Camera garantivano una fondazione più che sufficiente. I muri a Nord e a Sud misurano 80/90 centimetri, quello a Ovest circa 100 centimetri: sono i tre muri di provenienza nazarena. Tali spessori sono esattamente conformi alle case palestinesi del tempo di Gesù.
Le carenze del terreno si rivelarono subito nel lato Nord, che dava su una parete scoscesa (ripa). Di conseguenza fu necessario realizzare in fretta delle sottomurazioni. Poi, a seguito dell’innalzamento delle pareti oltre l’altezza originale (quella di provenienza nazarena) della Camera, si dovettero aggiungere altre sottomurazioni per il contenimento della ripa sul lato Nord della Camera. Da questi lavori di sottomurazione si ricavò, in modo chiaro, che l’ambiente era privo di fondazioni.
In tempi successivi fu costruito un muro «bono et grosso». Era costituito da mattoni foggiati secondo un modulo (30-33 centimetri x 14 x 6-8), che si affermò in periodo medievale (con variazioni locali) tra l’VIII e il X secolo. Tale muro, spesso circa 60 centimetri, e ben compatto (venne usata malta di calce), circondava la Camera di Maria per proteggerla dalle intemperie, ma anche per rafforzare i punti di sfiancamento presenti nel lato Nord. Per quest’ultimo problema, al tempo della costruzione della volta, venne per prudenza messo in opera un tirante in ferro, sagomato lungo il muro interno della Camera (ancora visibile).
A Nazareth, nella basilica bizantina (V secolo), e poi in quella crociata (XI secolo), la Camera, connessa alla grotta, si trovava nella cripta. Si accedeva a questo luogo per mezzo di due piccole porte (nel tempo rimase aperta solo quella a Ovest). Nel 1291 (periodo della traslazione) la cripta non era stata ancora distrutta, a differenza della basilica sovrastante. Questa, fu quasi del tutto abbattuta nel 1263 da Alan ed-Din Tybar, luogotenente del Sultano del Cairo, Bàibars. Di conseguenza, per fare uscire il prezioso reperto dalle due piccole porte, era necessario smontare le pareti della Stanza di Maria. L’orientamento di più autori è oggi propenso a vedere al riguardo più un lavoro umano che un’opera angelica.
Ma chi fece trasportare una parte della Santa Casa a Loreto? Secondo l’archimandrita Porfirij Uspenskij, uno studioso dell’Oriente Cristiano, l’iniziativa era da attribuire a membri della famiglia Angelo (Angeli). Questi nobili, però, secondo l’Autore, avrebbero fatto realizzare solo una copia della Casa di Nazareth. Tale tesi, alla luce dei più recenti studi, rimane un’opinione. Al riguardo, sorprende comunque il fatto che lo studioso indichi la famiglia Angelo (Angeli), quando il nome di quest’ultima non era ancora noto. Uspenskij potrebbe aver ricevuto notizia dal personale dell’Archivio Vaticano, o potrebbe aver letto a Napoli una copia del foglio 181 del Chartularium Culisanense.
Maggiori informazioni sulla famiglia (Angelo) Angeli provengono da Monsignor Maurice (Maurizio) Landrieux, divenuto in seguito Vescovo di Digione (1916). Questi, in data 17 maggio 1900, scrisse nel suo Diario che Giuseppe Lapponi, archiatra (medico) pontificio di Leone XIII, gli aveva confidato di aver trovato nell’Archivio Vaticano un plico su Loreto.
Si riporta qui di seguito l’annotazione di Monsignor Landrieux.
«Nel XIII secolo, all’invasione dei Turchi, gli Angeli vollero salvare i preziosi ricordi dei loro domini. Essi, tra le altre cose, portarono via i materiali della Santa Casa di Nazareth e li trasportarono a Loreto, dove avevano delle terre. Essi fecero ricostruire la Santa Casa ed ecco la base della leggenda. Essa è stata certamente trasportata a Loreto dalle mani degli Angeli, ma questi angeli non sono quelli del cielo. Il tempo obnubilò a poco a poco il fatto storico e, agli Angeli di Costantinopoli, la credenza popolare ha sostituito gli “angeli” del cielo».
Nelle carte di Monsignor Landrieux, quindi, vengono indicati i nobili Angelo. Facevano parte di un ramo della famiglia imperiale di Costantinopoli. Nel XIII secolo, a motivo dell’attacco delle milizie islamiche di Al-Asharaf Khalil, alcuni Angelo avevano finanziato un trasporto di parte della Santa Casa di Nazareth in luoghi protetti (destinazione finale il colle Prodo).
A giudizio di Monsignor Landrieux si era fatta confusione tra le persone dei Crociati e le figure celesti degli angeli. La pagina del Diario di questo Vescovo venne pubblicata solo nel 1959. In tale contesto, il Lapponi, non volendo mettere in difficoltà Leone XIII (intervenuto in modo solenne a favore della traslazione angelica), non lasciò scritta la collocazione dell’unità archivistica della sua scoperta. Probabilmente, gli venne anche suggerito di mantenere un basso profilo da parte di alcuni prelati, tra i quali Monsignor Albert Battandier. Quest’ultimo, insieme a due responsabili della Biblioteca Vaticana, affermò che esistevano in Vaticano documenti a sostegno della traslazione angelica. Tale dato può essere accolto, ma ciò non toglie validità a quanto riferito dal Lapponi.
Nel 1905 l’epigrafista Padre Henry Thédenat fece una confidenza al Professor Marquat, professore onorario all’Università Cattolica di Angers. Aveva trovato nell’Archivio Vaticano (forse nello stesso plico studiato dal Lapponi) le note delle spese di trasferimento della Santa Casa, attuato per mezzo di una nave, con scalo nell’Adriatico, su iniziativa della famiglia Angelo. Le pietre erano state smantellate, raccolte con cura, e numerate per la successiva ricomposizione. Tale fatto fu reso noto da una rivista francese solo nel 1962. La notizia venne divulgata in Italia per la prima volta nel 1963. A questo punto, vennero attuate ricerche nell’Archivio Vaticano, ma senza risultati. È probabile che i fogli consultati dal Lapponi e da Thèdenat siano stati poi collocati in altri faldoni dell’Archivio. Si riporta qui di seguito l’articolo pubblicato dal quotidiano indipendente: «Feuille d’Avis du Valais» nel 1962.
Si trascrive il testo integrale del quotidiano in precedenza citato.
La réalité est beaucoup plus prosaique que la legende. M. Marquât, professeur honoraire à l’Université catholique d’Angers, a bien voulu nous faire part de l’intéressante rencontre qu’il fit, en Italie, d’une prètre fortement érudit qui détenait le secret de la maison de Lorette. Nous sommes heureux de communiquer à nos lecteurs celle très instructive information.
«J’ ai lu dans le numero d’ avril 1961 d’“Ecclesia”, page 136, la citation d’un article de “L’intermédiaire des chercheurs et curieux”, où est citée (rapportée ici par un de nos correspondants) la phrase suivante: “La santa casa de Lorette n’a pas été transportée de Nazareth en Italie, par les anges ou par les hommes...”. Je me permets de vous présenter, sur cette question, une documentation involontairement personnelle qui peut-ètre vous intéresser.
En 1905, trois jeunes professeurs du une école secondaire episcopale de Nancy, dont j’étais l’un, passèrent leurs vacances de Pàques en Italie. La visite de Pompei était prévue dans notre programme. Dans l’église de Pompei moderne, nous rencontràmes un prètre très distingue qui nous aborda et nous offrii spontanément de nous faire visiter la vieille cité exhumée. Son nom était: P. Henry Thédenat, de l’Académie des Inscriptions et Belles-Lettres. Il nous promena durant quatre heures – combien intéressantes! – dans Pompei. Il s’y trouvait, nous dit-il, pour mettre au point un ouvrage en deux volumes qu ’il allait prochainement publier sur Pompei, et qui le fut. Nous le retinmes à déjeuner avec nous.
Pendant le repas, le P. H. Thédenat nous confia qu’il arriva li de Rome où l’avaient attìré des recherches à la Bibliothèque vaticane; et que, ce faisant, il était tombe par hasard sur “quelque chose de très intéressant”. C’était un paquet de feuilles manuscrites où étaient relatés “les frais du transfert de la maison de la Sainte Vierge, de Nazareth à Lorette, par bateau, avec escale en Adriatique, ces frais ayant été couverts par la famille des Angely, italienne”. Voyez, concluait le P. H. Thédenat, avec quelle facilité dui se créer la legende, plus spectaculaire, du transport de la santa casa opérée par les Anges. D’après ce qu’ajoute le Pére, les pierres de cette maison auraient été recueillies soigneusement, et sans doute numèrotées, pour en pe quelle facilité de se créer la legende, plus spectaculaire, du transport mettre une réédification authentique. Donc, la preuve du transport réel existe à la Bibliothèque vaticane, déposée depuis près de quatre siècles, vraisemblablement par la famille Angeli.
P.S. Ma lettre achevée, je m’excuse d’ajouter ce P.S. qui ne manque oas de saveur. Quand le P. Thédenat nous eut rajonté sa “decouverte”, nous lui avons dìt: “Nous pensons, mon Pére, que vous allez la livrer au public”. Il sourit et nous répondit: “Je m’en garderai bien. Je viens souvent en Italie pour mes travaux. Si je le faisais, et que, dans la suite, je passe à Lorette ou dans ses environs – je connais le tempérament italien – je n’en reviendrais pas vivant”».
Si annota la traduzione in italiano dell’articolo in precedenza riportato.
Titolo: «Chi ha trasportato la Santa Casa di Loreto?» (Redazione).
Testo: La realtà è molto più prosaica della leggenda. Il signor Marquât, professore onorario presso l’Università Cattolica di Angers, è stato così gentile da raccontarci dell’interessante incontro, avuto in Italia, con un sacerdote molto erudito che possedeva il segreto della casa di Loreto. Siamo lieti di comunicare ai nostri lettori questo fatto che fornisce diverse informazioni.
«Leggo nel numero di “Ecclesia” dell’aprile 1961, pagina 136, la citazione di un articolo tratto da “L’Intermédiaire des chercheurs et curieux”, dove è citata la seguente frase (qui riportata da un nostro corrispondente): “La santa casa di Loreto non è stata trasportata da Nazareth in Italia, né da angeli né da uomini...”. Vorrei presentarvi, a questo proposito, una documentazione involontariamente personale che potrebbe interessarvi.
Nel 1905, tre giovani insegnanti di un liceo episcopale di Nancy, dei quali uno ero io, trascorsero le loro vacanze di Pasqua in Italia. Nel nostro programma era prevista la visita a Pompei. Nella chiesa di Pompei moderna abbiamo incontrato un prete molto distinto che si è avvicinato a noi e che si è offerto spontaneamente di farci visitare l’antica città riportata alla luce. Il suo nome era: Padre Henry Thédenat, dell’Accademia delle Iscrizioni e delle Belle Lettere. Ci ha accompagnato in giro per quattro ore – molto interessanti! – a Pompei. Era lì, ci disse, per ultimare un’opera in due volumi che avrebbe presto pubblicato su Pompei, e che fu pubblicata. Lo trattenemmo a pranzo con noi.
Durante il pasto, Padre H. Thédenat ci confidò di provenire da Roma ove l’avevano attirato delle ricerche nella Biblioteca Vaticana; e che, così facendo, si era imbattuto in “qualcosa di molto interessante”. Era un pacchetto di fogli manoscritti ove erano riportati “i costi di trasferimento della casa della Santa Vergine, da Nazareth a Loreto, via mare, con scalo in Adriatico, questi costi erano stati coperti dalla famiglia Angeli, italiana”.
Vedete, concludeva il Padre H. Thédenat, con quale facilità si può creare la leggenda molto spettacolare del trasporto della Santa Casa compiuto dagli Angeli. Secondo quanto aveva aggiunto il Padre, le pietre di questa casa sarebbero state accuratamente raccolte, e senza dubbio numerate, per consentire un’autentica ricostruzione. Testimonianze dell’effettivo trasporto esistono quindi presso la Biblioteca Vaticana, depositate per quasi quattro secoli, presumibilmente dalla famiglia Angeli.
P.S. Terminata la mia lettera, mi scuso per aver aggiunto questo P.S. che non manca di sapore. Quando Padre Thédenat ci raccontò la sua “scoperta”, gli abbiamo detto: “Pensiamo, padre, che la consegnerà al pubblico”. Lui sorrise e rispose: “Starò attento a non farlo. Vengo spesso in Italia per lavoro. Se lo facessi, e poi andassi a Loreto o dintorni – conosco il temperamento italiano – non tornerei vivo”».
Durante le ricerche archeologiche presso la Camera di Maria conservata a Loreto, sono state numerose le monete ritrovate nel primo muro di sostegno della Camera. Attestano un’affluenza di pellegrini già agli inizi del XIV secolo.
Tra queste, due sono significative. Si tratta di denari tornesi che riportano la scritta «Gui Dux Atenes». Sono le uniche monete riconducibili alla data della traslazione tra le centinaia ritrovate nel sito mariano. Nel dritto si osserva una croce. Intorno a tale simbolo c’è la scritta «Gui Dux Atenes». Nel rovescio è rappresentato un castello formato da quattro cerchi aperti.
Guido (Guy) II de La Roche era figlio di Guglielmo I duca di Atene e di Elena Angelo (Angeli). Elena era figlia di Giovanni Angelo principe di Tessaglia, e imparentata con i Comneno e i Ducas.
Tale parentela di Elena conduce quindi lo storico alla famiglia Angelo (Angeli). Questa era strettamente legata agli Imperatori di Costantinopoli e alle autorità apicali dell’Epiro.
Morto il marito nel 1287, Elena Angelo resse il ducato di Atene a nome del figlio Guido dal 1287 al 1294. Si tratta di una fase temporale che interessa la traslazione della Santa Casa. Quelle due monete non sono da ritenere casuali. Segnalano, infatti, la presenza di supervisori dei lavori della famiglia Angelo (Angeli). Solo delle autorità superiori potevano derogare alla legge recanatese che stabiliva il divieto di costruire su una pubblica strada.
Oltre a graffiti, monete, e ad altri reperti, può essere utile ricordare anche un documento. Si tratta del foglio 181 del Chartularium (registro, raccolta di atti) Culisanense. Questo reperto archivistico è stato ricordato in diversi lavori per un motivo. Contiene l’elenco di una parte dei beni che facevano parte della dote nuziale di una nobile giovane: Thamar di Epiro.
1) Quest’ultima, era figlia di Niceforo I Angelo-Comneno, despota (signore) d’Epiro, e di Anna Cantacuzena. Inoltre, era cugina di Elena Angelo (Angeli).
2) Thamar era promessa sposa di Filippo I d’Angiò, principe di Taranto. Quest’ultimo, era il quarto figlio del Re di Napoli Carlo II d’Angiò.
3) Dopo lunghe trattative, iniziate il 1° giugno 1291, il contratto di matrimonio venne alla fine stipulato nel luglio del 1294. La dote recata da Thamar era consistente. Il foglio 181, per la mentalità del tempo, rimaneva un documento significativo ma di limitata importanza. Quello che infatti serviva alla politica di Carlo II d’Angiò erano:
– una dote che avrebbe dato a Filippo I di Taranto la stessa posizione in Epiro che il Re Manfredi di Sicilia aveva ottenuto attraverso il suo matrimonio con la zia di Thamar, Helena Angelina Ducena, 35 anni prima;
– gli apporti economici (finanziamento delle spedizioni militari);
– i castelli di Lepanto (Nàfpaktos), Vonitza (Bónitsa), Eulochos (o Vrochori), Angelocastro (Aggelócastro – Corfù), e Giannina (Ioánnina);
– la clausola contrattuale che stabiliva che alla morte di Niceforo I metà dell’Epiro sarebbe toccata a Filippo I, mentre l’altra metà gli sarebbe giunta dopo la morte della madre di Thamar, Anna Cantacuzena.
Solo a queste condizioni si poté arrivare alle nozze che vennero celebrate nel dicembre del 1294 (il foglio 181 non riporta la data, ma questa si ricava dall’evento nuziale).
4) Tale matrimonio concluse la prima fase del progetto di Carlo II d’Angiò di fondare per il figlio Filippo I un dominio sulle due sponde del Mar Jonio dipendente come feudo dal Regno di Napoli.
In tale contesto, è utile conoscere il contenuto del foglio numero 181 del Chartularium Culisanense. Si tratta di un elenco notarile di 52 beni dotali. Altri atti, del medesimo contratto di matrimonio, vennero conservati a parte, in modo più riservato. Ciò premesso, si può riportare adesso lo scritto iniziale (con traduzione) del documento ove sono indicati i primi tre oggetti di valore recati in dote da Thamar.
«Accipit Dominus Philippu a Domino Nicephorohas res dotis nomine pro Margharitha sponsa» («Il Signore Filippo riceve dal Signore Niceforo gli oggetti in dote a nome della sposa Margherita»).
1) «Aureum insigne capitis cum clavo crucis Domini et Servatorix nostri Jesu Christi fusum» («Un ornamento aureo del capo, fuso con un chiodo della croce del Signore e Salvatore nostro Gesù Cristo»).
2) «Sanctas Petras ex Domo Dominae Nostrae Deiparae Virginis ablatas» («Le sante pietre portate via dalla casa della Nostra Signora, la Vergine Madre di Dio»).
3) «Ligneam tabulam appictam ubi Domina Deipara Virgo Puerum Jesum Dominum ac Servatorem Nostrum in gremiu tenet» («Una tavola lignea dipinta, dove la Madonna Vergine Madre di Dio tiene in grembo il Bambino Gesù, Signore e Salvatore Nostro»).
I punti due e tre sono precisi. Infatti la Casa a Nazareth comprendeva anche la grotta, per cui furono portate via le pietre della stanza e non l’intera struttura. Inoltre, la tavola lignea con il dipinto della Vergine e del Bambino si ricollega a una prima immagine che venne posta nella stanza di Maria a Loreto.
Lo studio del foglio 181 rimanda, inoltre, a una traslazione a opera di Cristiani, dietro interessamento degli Angelo (Angeli). Ciò non si discosta da analoghe iniziative attuate dalla Chiesa (attraverso il laicato del tempo) per trasportare in Occidente dalla Palestina reperti considerati reliquie. Si pensi, a esempio, al prelievo della terra del Santo Sepolcro da parte dei Pisani, che la portarono nel loro camposanto monumentale (1146), o alla colonna della Flagellazione, portata da Gerusalemme nel 1223, e conservata presso la chiesa romana di Santa Prassede.
In tale contesto, il foglio 181 fa riferimento a un’opera avvenuta in periodo bellico. Si tratta del trasferimento da Nazareth a San Giovanni d’Acri delle pietre della Camera di Maria. Seguiva il carico su una nave da trasporto, fino al raggiungimento del porto finale.
Tale dinamica la si ritrova pure in altri contesti. Proprio negli anni della traslazione della Camera di Maria, i musulmani fecero abbattere alcuni monumenti cristiani e li fecero trasportare altrove. Fu così, a esempio, che al Cairo vennero trasportati i resti di un grande portale e, su ordine del Sultano al-Malik al-Nasir Muhammad, furono riutilizzati nel 1304 per l’edificazione di una «madrasa». Tale impresa fu ben più difficile rispetto a quella del trasporto di tre muri della casetta di Nazareth. Con riferimento a quest’ultimo lavoro, colpisce il fatto che tale operazione si è rivelata accurata. Si possono infatti vedere nella Camera di Loreto diverse pietre con l’incisione di numeri romani per tracciare una trama di riferimento per la ricomposizione muraria. Altre pietre dovettero essere segnate con carbone.
Le carte (prive degli accordi politici segreti), inserite anche nel Chartularium Culisanense, vennero preparate in più copie, come era d’uso nelle Corti del tempo. Queste (autenticate in genere da ecclesiastici) erano consegnate ai diretti interessati, ai notai, e costituivano pure il documento utilizzato per verificare, di volta in volta, l’esatta consegna dei beni dotali. Ciò spiega perché in momenti successivi sono state trovate copie di fogli del Chartularium in ambienti diversi. In tempi ravvicinati, atti di tale documento sono divenuti noti in modo diffuso attraverso due canali informativi.
1) Nel 1984, Don Pasquale Rinaldi, rese noto di aver trovato nell’archivio ecclesiastico della chiesa cinquecentesca di Santa Caterina a Formiello (quartiere di Porta Capuana; Napoli) anche il foglio 181 del Chartularium Culisanense. Era una copia eseguita nel 1859. Il reperto venne poi donato alla Biblioteca Pubblica Statale di Montevergine.
2) Unitamente a tale fonte, si deve ricordare quanto pubblicato in merito dal Padre Giuseppe Santarelli ofm cap.
Secondo lo studioso Vincenzo Privitera, l’originale del foglio 181, unitamente ad altre carte, sarebbe stato trasferito a Rimini durante il Secondo Conflitto Mondiale (1939-1945). Depositato presso la villa della principessa Ester Chiaravello-De Angelis, fu distrutto da un bombardamento alleato (1° novembre 1943). Oggi, al posto dell’antico edificio, esiste una costruzione moderna.
Sul piano storico occorre, infine, sottolineare un fatto. Il Chartularium Culisanense non va considerato autentico in ogni suo atto. In tempi trascorsi, esisteva infatti l’abitudine di inserire nei registri attestati veri e documenti spuri. Ciò avveniva, in genere, per «legittimare» in qualche modo delle situazioni, o per evidenziare il ruolo di persone o famiglie in possesso di non deboli ruoli sociali. In tempi ravvicinati, il foglio 181 è stato sottoposto a un severo esame filologico e storico. Si è arrivati alla fine alla convinzione di essere in presenza di dati precisi, difficili da inventare (a esempio il riferimento alle pietre della Casa di Maria).
In tale contesto, gli storici hanno cercato di studiare la vicenda del trasporto via mare delle pietre della Santa Casa. Di ricostruire le possibili tappe, tenendo conto del fatto che in linea di massima le navi restavano ferme durante l’inverno. Più in dettaglio, sono stati affrontati più aspetti: i motivi del trasferimento, gli attori della vicenda, i porti di transito, le ragioni della scelta finale. Questa indagine storica si è rivelata difficoltosa perché nel corso del tempo ogni autore che ha scritto su Loreto ha cercato di aggiungere qualcosa, di integrare precedenti descrizioni. Il racconto del trasporto infatti serviva, in tempi meno recenti, anche come testo di edificazione dei fedeli, come momento di una catechesi di base. Diventa allora importante rivedere in modo critico una serie di dati.
Nel 1263 la basilica crociata dell’Annunciazione, come già ricordato, era stata gravemente rovinata. La cripta, però, non fu distrutta. La Santa Casa rimase quindi intatta. A conferma di ciò rimane un dato. I pellegrini che andarono a Nazareth prima del 1291, anno della traslazione, riferiscono di una presenza della Santa Casa. Si riporta qui di seguito una testimonianza.
«Quindi venimmo a Nazaret e trovammo una grande chiesa, quasi tutta abbattuta e niente vi era dei precedenti edifici (“de primis aedificiis”) se non la sola camera (“cella”) dove fu annunciata la Madonna; il Signore l’ha preservata dalla distruzione a ricordo della sua umiltà e povertà».
I fedeli che raggiunsero l’abitato dopo il 1291 descrivono solo la grotta. Nel 1291 (15 marzo) le forze del Sultano al-Asharaf Khalil raggiunsero San Giovanni d’Acri. La città fu conquistata il 18 maggio dello stesso anno.
1) La data che la Tradizione indica con riferimento al trasporto per mezzo di angeli è la notte del 12 maggio 1291. Quindi, sei giorni prima della conquista musulmana di San Giovanni d’Acri. Tale aspetto consiglia una riflessione. Alcuni dati sono da valutare. L’evento, sul piano cronologico, è molto ravvicinato rispetto alla sconfitta cristiana. È quindi spontaneo pensare alla possibilità di un’iniziativa precedente meno clamorosa. Tale considerazione si basa su due fattori:
a) le previsioni belliche per i Crociati erano da tempo totalmente negative. Le milizie dell’Islam avevano conquistato in modo progressivo Cesarea, Haifa, Arsuf, Antiochia, Laodicea, Tripoli, Tiro, Sidone, Beirut;
b) l’esistenza di un trattato (tregua decennale) stipulato nel maggio del 1283 tra il Sultano Mamelucco Sayf al-Dīn Qalāwūn e i maggiorenti della città di San Giovanni d’Acri consentì ancora spazi di movimento per i Crociati. Non si fermarono quindi le operazioni via mare.
Unitamente a queste due evidenze si può aggiungere un fatto. Luoghi Santi di enorme importanza (esempio, il Santo Sepolcro), pur in procinto di essere distrutti dai musulmani nel 1009, non furono mai oggetto di un intervento angelico di traslazione. La basilica del Santo Sepolcro venne alla fine abbattuta fino alle fondamenta. In conclusione: le reliquie di Terrasanta, protette in più momenti, furono sempre salvate da un’iniziativa umana. Per tale motivo, la traslazione della Camera avvenne in una data antecedente a quella della Tradizione.
2) In tale contesto, non è mancato un interrogativo. Se la Santa Casa era rimasta intatta, perché trasferirla altrove? I motivi sono da collegare alle normative dei musulmani con riferimento agli «infedeli» e ai loro luoghi di culto. Questi siti dovevano essere distrutti, e sopra le aree requisite si poteva costruire con un semplice permesso. Inoltre, l’imminente sconfitta dei Cristiani avrebbe favorito una politica repressiva verso i Cristiani ubbidienti al Pontefice Romano. In altri termini, sopra la Santa Casa, i seguaci di Maometto non avrebbero mai fatto edificare una chiesa.
3) I musulmani, comunque, anche in tempo di guerra, non si facevano scrupolo a trattare con i mercanti occidentali, e a incassare notevoli cifre in denaro. Offrivano beni, agevolazioni e concessioni. In tale situazione non era certo l’esercito crociato (vicino alla capitolazione) a trattare con il Sultano d’Egitto. Erano piuttosto alcuni intermediari. Tali soggetti sono da individuare nell’area del commercio perché quest’ultima rimase sempre attiva. Gli accordi economici si svolsero paralleli ai conflitti del tempo, e proseguirono pure in tempi successivi, anche se gli interdetti pontifici cercarono di impedire ogni tipo di scambio lucroso con i potentati musulmani.
4) Esiste, ancora, un dato che non può essere trascurato: il commercio di «reliquie». Questo riguardò: frammenti di pietre del Santo Sepolcro (chiesa dei Santissimi Apostoli, Firenze), sassi raccolti nell’orto del Getsemani o sul Monte degli Ulivi, palme dell’oasi di Gerico, ampolline contenenti acqua del Giordano, frammenti della mangiatoia della grotta di Betlemme, e altre. Nel mondo cristiano le «reliquie» (a prescindere dall’autenticità) furono in più casi al centro di trattative, e anche di trafugamenti. Si pensi agli acquisti effettuati da San Luigi IX, Re di Francia, nel 1239, o alla sottrazione di corpi di Santi: esempio, San Marco Evangelista (828 dopo Cristo), San Nicola di Myra (1087), e altri. Quando il sacro reperto era consegnato al diretto interessato, quest’ultimo diventava sul piano della notorietà (e quindi delle cronache) il «protagonista» della vicenda, oscurando completamente altre figure. Ogni «reliquia», inoltre, era considerata un talismano di inestimabile valore, un’arma efficace contro il demonio e contro i mali del vivere quotidiano.
Sugli attori dell’operazione di trasporto esiste attualmente una documentazione che consente di esaminare l’argomento.
1) Occorre, prima di tutto, sottolineare un dato. Il mondo latino e quello greco ortodosso manifestarono sempre una notevole devozione verso ogni reliquia collegata alla Madre di Dio. Tale speciale venerazione la si trova in Terrasanta, ma anche in Grecia, Turchia, Egitto. Si tratta di un movimento spirituale presente tra: le Famiglie Religiose, gli eremiti, gli Ordini Cavallereschi, i Casati nobiliari, la gente più semplice. Ne deriva un accentuato interesse di più soggetti verso quanto rimaneva a Nazareth della Casa di Maria.
2) Mentre da una parte il culto mariano si sviluppò in Palestina in modo accentuato, dall’altra, la cronaca rimase segnata anche da un movimento di oggetti «mariani» provenienti dalla Terrasanta ai quali si volle «attribuire» un particolare «valore». Si pensi a esempio a: la «Sacra Cintola» (Prato), «l’anello nuziale con Giuseppe» (Perugia), il «Maphorion» (manto che avrebbe coperto il capo e le spalle della Vergine; Costantinopoli), il «Velo della Madonna» (Assisi), la «Sacra Benda» di Maria (avrebbe trattenuto i capelli della Madonna; Bologna), il «Sacro Latte» (Montevarchi) e altri.
3) In tale contesto, acquisire anche le «sacre pietre» di Nazareth costituiva per il possessore la sicurezza di ricevere da Dio e dalla Madonna una protezione speciale. Sul piano temporale, poi, l’intera operazione favoriva un aumento di prestigio in ambito civile e religioso.
4) A questo punto, tra coloro che avevano contatti con soggetti che si recavano in Terrasanta o che provenivano da quell’area (pellegrini, commercianti, milizie) c’era pure la famiglia Angelo (Angeli).
5) Tale Casato era in grado di controllare porti, e di gestire relazioni con altri Regni insistenti su zone costiere. Poteva ricevere notizie provenienti dalla Palestina, e quindi anche quelle che riguardavano vicende ecclesiali, inclusa la situazione di Nazareth.
6) È all’interno di questa generale dinamica politico-amministrativa che si può individuare l’interesse degli Angelo verso le pietre della Santa Casa di Maria.
7) Tra il XIII e il XV secolo un ramo degli Angelo resse anche l’Epiro, la Tessaglia e Tessalonica con il nome Comneno Ducas.
Secondo la Tradizione (intervento degli angeli), la Santa Casa ebbe quattro traslazioni. Queste riguardarono: Tersatto (1291); la località Posatora (1295); il campo di due fratelli (1296) sul colle Prodo; e una pubblica strada (fine 1296). Tali fasi di passaggio, secondo la narrazione ripetuta nei decenni, furono motivate o dal comportamento dei fedeli (poca filialità mariana), o perché c’erano ruberie e violenze ai pellegrini, o perché ci furono liti tra due fratelli a causa degli introiti dovuti alla presenza della Santa Casa. Si pone qui un problema storico.
1) La Casa ebbe spostamenti dovuti a vicissitudini così umane, e risolvibili solo con una traslazione della struttura già ricomposta?
2) Oppure le tappe furono funzionali al percorso, e alle decisioni da assumere circa il materiale della Camera di Maria?
Davanti al primo quesito è difficile pensare a un comportamento degli angeli condizionato da negative vicende umane.
a) Certamente la notizia dell’arrivo delle sacre pietre (con il dipinto mariano) attirò un progressivo moto devozionale, ma fece emergere anche interessi di parte, rivendicazioni, confronti di competenze, possibili sottrazioni indebite.
b) Ciò avvenne facilmente perché i trasporti del tempo:
– avvenivano in modo lento. Con una serie di precauzioni (legate alle stagioni, alle condizioni del mare, a possibili incontri con pirati saraceni, alle aree politiche);
– erano obbligati a rispettare più scali (le navi caricavano e scaricavano merci);
– non seguivano un itinerario diretto. In più casi, per ogni nuova rotta, era abituale un diverso imbarco.
c) Unitamente a ciò, non era abitudine ricomporre a ogni scalo un bene di varia natura (specie se riguardava pietre). Ciò era legato soprattutto a motivi di praticità e di prudenza:
– trattandosi di pietre, era relativamente facile sottrarne qualcuna, e trattenerla con sé come bene prezioso;
– come da prassi del tempo, le sacre pietre, come ogni altro materiale imbarcato, trovarono allocazione negli scali.
In tale contesto, rimane debole pensare a un’azione angelica incapace di raggiungere un obiettivo deciso da Dio. In tutti i passi della Bibbia che riguardano l’opera di angeli, infatti, non si trovano incertezze o errori, lo stesso è confermato da testimonianze di mistici, e da Tradizioni riguardanti altre traslazioni mariane.
La rotta navale tra il porto di San Giovanni d’Acri (Terrasanta) e Ancona (Marche).
Davanti al secondo quesito, sulla base dei percorsi nautici del tempo, e delle intese politiche concordate, si può affermare che le tappe del trasporto via mare delle sacre pietre avvennero seguendo dei percorsi funzionali al disegno da raggiungere. Se si esamina una carta marittima del tempo, le rotte verso l’Occidente ritenute preferenziali sono evidenti. Si salpava dal porto fortificato di San Giovanni d’Acri. Era poi raggiunta l’isola di Rodi. Da qui le imbarcazioni facevano scalo in località greche, ove si decidevano le nuove rotte. Nel caso del trasporto delle sacre pietre, l’individuazione del percorso seguito dalla nave nell’attraversamento (e nelle relative soste) dei territori facenti un tempo parte dell’Impero Romano d’Oriente condusse a considerare solo quelle aree politiche che si trovavano a essere filo-angioine (Tessaglia prima ed Epiro poi), e a escludere quelle filo-paleologhe.
Il despotato d’Epiro fu una tappa d’obbligo perché quanto proveniva da Nazareth era parte della dote matrimoniale della figlia di Niceforo I. Dall’Epiro la nave poteva raggiungere altri porti tenendo conto degli eventi in corso. In Epiro le sacre pietre, che facevano parete della dote di Thamar e che dovevano essere consegnate a Filippo I d’Angiò, trovarono una momentanea custodia per varie criticità qui di seguito indicate.
Filippo I venne coinvolto dal padre in una serie di compiti istituzionali. Nel 1294 fu investito di autorità feudale su tutti i possedimenti greci degli Angioini. Inoltre, nel 1294 e nel 1295 ricoprì per tre brevi periodi l’ufficio di vicario del Regno in assenza del genitore. Per tale motivo il suo vero centro operativo fu Napoli e non Taranto (di cui era principe, e dove permaneva una Corte).
1) La situazione politica degli Angiò in Sicilia era divenuta critica dal 1282. La rivolta dei «Vespri siciliani» (iniziata a Palermo) aveva alla fine condotto al respingimento degli Angioini dalla Sicilia. Il conflitto bloccò il sogno di Carlo I d’Angiò di restaurare l’Impero Latino di Costantinopoli. Solo nel 1302 si arrivò a una prima pace (Caltabellotta), e alla divisione del Regno di Sicilia tra il Regno di Trinacria (agli Aragonesi) e quello di Napoli (agli Angioini). La guerra riprese nel 1313. Si concluse dopo 90 anni nel 1372.
2) A tale generale criticità si aggiunse, in particolare, la sconfitta (dicembre 1299) di Filippo I di Taranto da parte degli Aragonesi guidati da Federico III di Aragona (battaglia di Falconara). Filippo venne ferito. Fu poi catturato e rinchiuso prima nella rocca di Cefalù, e poi a Butera (presso Casteltermini). La prigionia durò dal 1299 al 1302. Ne derivò pure un gravoso problema di riscatto.
3) Nel 1304, Anna Cantacuzena, madre di Thamar, non volle rispettare il patto feudale sottoscritto con il contratto nuziale della figlia (consegnare metà dell’Epiro). Carlo II d’Angiò ordinò allora a Filippo di Savoia, principe d’Acaia e a Giovanni Orsini, conte di Cefalonia di invadere il despotato. Questo possedimento fu difeso da Tommaso I Ducas despota di Epiro, fratello di Thamar, e dalla madre.
Le citate evidenze dimostrano che nel periodo in esame furono diversi i fattori politici che ebbero il sopravvento su singole vicende religiose. Agli Angiò, che pure avevano fatto coniare monete con l’immagine dell’Annunciazione evangelica, non urgevano sacre pietre ma alleanze (per questo motivo Filippo I sposò poi in seconde nozze Caterina di Valois-Courtenay). Rimanevano indispensabili continui finanziamenti (Thamar aveva l’obbligo, a esempio, di versare ogni anno al marito 100.000 monete d’oro bizantine), e servivano in continuazione rinforzi militari. A quanto annotato, si può anche aggiungere su questo periodo una certa carenza di fonti storiche. Si tratta di un fatto attestato pure da una frase: «Historici de Philippo, principe Tarentino, dormitantes scripsisse videntur» («Gli storici sembrano aver scritto di Filippo, principe di Taranto, mentre dormivano»).
Oltre al Regno degli Angiò, anche la storia del despotato di Epiro fu segnata da diverse criticità. Già nel 1292 si verificò un tentativo di invasione voluto da Andronico II Paleologo. È poi da ricordare un fatto: nel 1297, dopo la morte di Niceforo I Comneno Ducas, Filippo I d’Angiò (figlio di Carlo II d’Angiò) assunse il titolo di despota della Romania, rivendicando l’Epiro, l’Etolia, l’Acarnania e la Valacchia. Però, la moglie di Niceforo, Anna Cantacuzena, fece proclamare il figlio Tommaso despota di Epiro e ne assunse la reggenza. Altro evento drammatico fu legato all’attacco e alla devastazione di Arta (capitale del despotato durante il periodo medievale) nel 1315 da parte di Syrgiannes Philantropeno Paleologo. In tale contesto, diventava necessario un rafforzamento delle alleanze politiche (con relativi matrimoni), un superamento di criticità interne, e una difesa dalle mire espansionistiche dello stesso Filippo I d’Angiò.
In definitiva, e tenendo conto dei documenti consultabili in più archivi, emerge una debole attenzione degli Angiò verso le sacre pietre portate in dote da Thamar.
I dati riferiti in precedenza motivano l’intervento dell’autorità ecclesiastica a tutela delle sacre pietre. Si trattava di superare incertezze (come raggiungere Napoli?), rischi di appropriazioni di terzi (più potenti del tempo conoscevano il contenuto della dote di Thamar), dispersione del carico (commercio di reliquie). L’unica scelta possibile si rivelò quella di raggiungere una diocesi in grado di proteggere e valorizzare il materiale proveniente dalla Terrasanta. Si pensò, alla fine, al porto di Recanati il cui Vescovo era «Vicarius Urbis» (Vicario del Papa) a Roma (godeva quindi di un sostegno pontificio). Trattandosi di un navigare lento, fu ritenuta utile anche una sosta a Tersatto. Tale decisione rispondeva a più esigenze:
– si evitava di avvicinarsi alla Sicilia, territorio conteso tra Angioini (avversati dai Siciliani) e Aragonesi;
– non si faceva scalo a Taranto perché il centro del potere angioino rimaneva di fatto a Napoli;
– si superavano i porti controllati da Venezia ove sarebbe stato facile per la Repubblica di San Marco trafugare le sacre pietre;
– si poteva contare sulla protezione dei Frangipani/Frangipane (Frankopan; del ramo dalmato-croato), conti di Veglia. Si ricorda al riguardo che i Frankopan (Frangipani) Croati furono i primi a ereditare il titolo dai Frangipani Romani. Tale famiglia aiutò la Chiesa Cattolica. Questi nobili mantenevano stretti contatti con i Frangipani di Roma che interagivano con il «Vicarius Urbis».
Da Tersatto non fu poi difficile fare rotta verso la diocesi di Recanati con scalo nel porto. Anche in questa località non mancò una fase di attesa perché si doveva stabilire il luogo di ricomposizione delle sacre pietre. La vicenda, a questo punto, rimaneva ormai di competenza della sola autorità ecclesiastica che assunse la decisione finale.
Nel contesto descritto, la decisione finale fu quindi quella di trasportare le sacre pietre al porto di Recanati, e da qui fino alla destinazione finale. Tale dinamica venne motivata anche da motivi ecclesiali che qui di seguito si riassumono.
1) Il 5 luglio del 1294, dopo 27 mesi di Sede Vacante, venne incoronato Papa, nella basilica di Collemaggio (L’Aquila), il monaco Pietro da Morrone con il nome di Celestino V. Questo Pontefice, però, non raggiunse mai Roma. Gli Angiò di Napoli, infatti, interessati alla sua nomina, lo condussero con varie motivazioni a Napoli offrendo dignitosa accoglienza ma esercitando anche uno stretto controllo.
2) In quel momento, a Roma, il «Vicarius Urbis» era il Domenicano Fra’ Salvo o Salvio. La storia di questo religioso riveste interesse per lo storico. Dal 1276 al 1277 fece parte di una missione di rappresentanti pontifici, voluta da Giovanni XXI, presso il patriarca Giovanni Boccos. Nel dicembre del 1289 venne consacrato Vescovo di Recanati. Grazie alla preziosa ricerca archivistica svolta nel 2024 da Fra’ Augustin Laffay OP, è stato possibile sapere che Fra’ Salvo fu Provinciale dell’Ordine in Grecia fino al 1291. In seguito, ricevette da Niccolò IV (1291) il titolo di «Vicarius Urbis». Svolse il suo ufficio fino al 1296. Con tale ruolo era possibile, durante le assenze dei Pontefici da Roma, esercitare un potere giuridico «in spiritualibus» (indulgenze, reliquie, e altro). Fra’ Salvo è quindi una figura-chiave per la rete di contatti che riuscì a sviluppare: Pontefici, Costantinopoli, Potentati successivi alla IV Crociata, famiglie nobili romane e di aree dell’Illiria, Movimento Crociato, Terrasanta, Ordini Religiosi. Questo religioso morì nel 1300/1301.
3) Il 10 dicembre del 1294 è la data che la Tradizione indica con riferimento alla traslazione della Santa Casa in terra picena.
4) Il 13 dicembre 1294 Celestino V rinunciò al Pontificato. Gli successe Bonifacio VIII. Questi, eletto a Napoli il 24 dicembre 1294, venne incoronato nella basilica vaticana di San Pietro il 23 gennaio del 1295.
5) In tale fase temporale emerse pure una necessità importante. Quella di trovare una collocazione alle sacre pietre di Nazareth. La situazione ecclesiale del tempo rimaneva precaria. Celestino V aveva tentato la fuga da Napoli. Bonifacio VIII lo aveva fatto raggiungere in Puglia. Poi lo aveva fatto confinare in un castello di proprietà della sua famiglia a Fumone (ove morirà).
6) Anche in ambito politico esistevano, come già ricordato, criticità. Filippo I d’Angiò si mostrò più interessato alle guerre in corso e alle trattative tra potenti (con introiti economici) che alle pietre di Nazareth. Il 18 ottobre 1305 firmò un trattato con Giovanni I Orsini di Cefalonia per la conquista dell’Epiro. Il 19 novembre dello stesso anno il Re Carlo II d’Angiò confermò il trattato.
7) Nel frattempo, il matrimonio tra Filippo I e Thamar Angelina Comnena Ducena si deteriorò rapidamente (malgrado la nascita di sei figli). La principessa fu accusata di una relazione extra-coniugale con Bartolomeo Siginulfo (responsabile del tesoro di Carlo II). Quest’ultimo si proclamò innocente. Tale linea non servì. Venne pure accusato di aver cospirato contro la vita di Filippo I. Quell’adulterio, con buona probabilità, era inesistente. Servì però per ridimensionare il ruolo del tesoriere, per consentire il ripudio di Thamar e favorire così lo scioglimento del matrimonio (1309) in vista di una nuova unione coniugale più vantaggiosa, e per diffondere un avvertimento ai membri della Corte (dovevano essere fedeli esecutori).
8) Toccò così al Vescovo Salvo la responsabilità di spingere verso una soluzione in grado di non disperdere le sacre pietre. Grazie alla sua rete di conoscenze (religiose e laiche), questo «Vicarius Urbis» poté suggerire un nuovo tracciato via mare da compiere. Dalla protezione della famiglia di Thamar, il prezioso carico poteva passare a quella dei nobili di Tersatto (vicini alla Chiesa), e da qui raggiungere il porto di Recanati. Questo, era attivo dal 1229 per concessione dell’Imperatore Federico II.
9) Raggiunto quest’ultimo approdo, si pose la questione legata al sito che doveva accogliere le sacre pietre. Le opinioni furono diverse per più motivi. Una posizione vicino alla costa poteva risultare non difendibile in caso di un’incursione di saraceni. Anche altre aree presentavano dei limiti specie per l’orientamento dei fedeli in caso di ambienti boscosi e privi di indicazioni. Si trattava poi di evitare pressioni di parte. Alla fine, però, la decisione riguardò un’area del monte Prodo (ove attualmente è edificata Loreto). Tale conclusione fu legata a diversi criteri: a) edificare sopra un luogo elevato, visibile anche da lontano, per evidenziare una protezione divina; b) realizzare una luce spirituale di riferimento; c) amministrare un luogo di culto relativamente distante dai centri abitati, così da diventare un’oasi spirituale.
I materiali della Camera di Maria a Loreto appaiono di recupero, e provenienti da molti passaggi di realtà edilizie dell’area di Nazareth. Le pietre della superficie muraria interna risultano realizzate con due tipi differenti di lavorazione nabatea, ed è presente anche una grossa pietra lavorata con disegno di listelli a lisca di pesce, secondo uno stile nabateo per casa di alto rango.
Nella superficie esterna dei muri della Camera, nell’ambito dell’altezza «nazarena», è stata rinvenuta una presenza di mattoni, accanto a pietre sbozzate. Durante gli scavi archeologici del periodo 1962-1965 fu possibile osservare la parete esterna nello spazio lasciato dalla non totale demolizione del muro «bono et grosso». Si tratta del vuoto esistente tra il muro originale della Santa Casa e quello dei marmi del sacello bramantesco.
Sfruttando questo spazio, gli archeologi hanno scattato una foto. Nell’immagine si vedono alcuni mattoni smossi dallo sfiancamento. Si osserva pure un mattone della lunghezza di un piede e mezzo, e la larghezza di mezzo piede. Ciò corrisponde al genere «lydion», diffusosi dall’Asia minore (Lidia) fino a essere usato dai Romani («sesquipede»). I rinzaffi di calce di gesso non permettono di vedere, nella foto degli archeologi, una maggiore stesura di mattoni. I ricercatori hanno annotato come i rinzaffi furono fatti a protezione del muro della Stanza di Maria prima della costruzione del muro «bono et grosso».
Inoltre, gli archeologi hanno segnalato come dentro i muri cementati con malta di terra agraria siano state fatte delle iniezioni di malta di calce per consolidare il muro.
Il mattone sesquipede è lontano dalle proporzioni dei mattoni usati nel muro «bono grosso», come dalle proporzioni dei mattoni della chiesetta di Santa Maria in Fondo Laureti, località La Banderuola, vicino a Porto Recanati.
I mattoni della parte antica dell’edificio di culto hanno la lunghezza di un piede e un quarto di piede (circa 37 centimetri), e la larghezza di mezzo piede (circa 14/15 centimetri). Le oscillazioni dimensionali sono dovute al ritiro dell’impasto in fase di essiccazione e di cottura.
Le dimensioni dei mattoni della chiesetta della Banderuola si possono trovare in alcuni pilastri del portico (1580) del Palazzo Apostolico, come anche nella parete Nord del medesimo edificio; segno di una continuità dimensionale nel tempo.
Il mattone lydion e le pietre conducono a sostenere l’autenticità nazarena della superficie esterna del muro a sacco, fino alla quota delle sacre pietre.
Nel territorio che va dal monte Conero fino al fiume Tronto non si ritrova l’uso delle pietre, ma dei mattoni. Per trovare pietre bisogna portarsi a distanze economicamente esorbitanti.
Va notato che nelle pareti interne originali della Camera di Maria sono presenti vari mattoni, specie nel lato Ovest, dove si hanno ben 12 graffiti su mattoni.
Fornaci estemporanee per piccole quantità di mattoni non erano un problema in Palestina, avendo argilla, acqua per l’impasto, e legna per il fuoco. L’argilla non mancava e veniva usata come strato di copertura per i tetti, che erano piani. Tutto dipendeva dai trasporti, cioè se era più conveniente prendere pietre di cava, o fare mattoni. Nel caso della Camera tale problema logistico-economico non si poneva perché il materiale risulta di recupero, e da varie fonti. Non va dimenticato che Nazareth era prossima alla valle di Esdrelon dove il mattone era conveniente.
Lo spessore della superficie interna a pietre lavorate alla nabatea risulta variabile: una pietra misurabile in una nicchia della Casa è eccezionalmente larga: 37,5 centimetri. Si può stimare che la media dello spessore delle pietre nabatee sia di 25 centimetri. La superficie esterna del muro a sacco può essere stimata dello spessore di un filare di mattoni in longitudinale, ma ci sono anche mattoni ortogonali al muro, per un maggiore legamento. Lo spazio intermedio risulta così sui 40 centimetri.
L’interno del muro è riempito di frammenti di mattoni e ciottoli. La malta usata, sia per le sezioni periferiche del muro a sacco, sia per il suo riempimento, è un impasto di «terra agraria» compatibile con quella della piana sottostante il colle Prodo. Tale malta la si può notare in molti punti della tessitura muraria all’interno della Camera, ed è dichiarata nella relazione-contributo degli archeologi del 1962-1965. L’uso di malta di terra come legante murario venne rilevato nell’area di Cana di Galilea, dal frate francescano Padre Francesco da Perinaldo.
Le pietre lavorate alla nabatea, con lo scopo di dare maggiore aderenza all’intonaco, per il quale era usata malta di terra, probabilmente rafforzata con calce, sono all’interno; forse perché l’intonaco era più curato, mentre per l’esterno si utilizzava un intonaco più grezzo.
La Casa di Nazareth era dunque intonacata, e dipinta in bianco calce, come tutte le case della Palestina, ed era a un solo piano, con tetto piano. Quando venne inclusa nelle architetture, prima giudeo-cristiana, poi bizantina e poi crociata, era così, a eccezione dell’intonaco caduto per il tempo.
Gli angoli formati dai muri Nord e Sud con il muro Ovest hanno la particolarità di dare l’impressione che le pietre siano poste in angolo combaciando con il loro spigolo; ciò è dovuto alla sbavatura della malta di calce-gesso delle stuccature fatte successivamente. Guardando meglio, e spalmando un po’ d’acqua sulle sbavature, l’effetto viene cancellato. Le pietre sono così incrociate, anche se non tutte, e non tutte alla stessa profondità.
Nell’incrocio del muro Nord con il muro Ovest in basso a destra, si notano due grosse pietre messe di coltello combacianti per il solo spigolo. Il loro spessore può essere stimato sui 15 centimetri. Le pietre trattate alla nabatea, nella parte a livello d’uomo, conoscono la levigazione operata nei secoli dalla devozione dei pellegrini.
Nel Vangelo di Luca si descrive il momento dell’Annunciazione anche con un riferimento geografico: «Nel sesto mese, l’angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea, chiamata Nazareth». Il medesimo Autore, poi, dopo aver riferito della permanenza della Madonna presso la parente Elisabetta, annota: «Maria rimase con lei circa tre mesi, poi tornò a casa sua». Di conseguenza, è Nazareth la località ove viveva la Vergine.
A questo punto, si è avvertita l’esigenza di studiare le mura della Camera di Maria a Loreto e la grotta di Nazareth posizionata dietro la stanza che costituiva l’ambiente delle attività ordinarie.
1) Le proporzioni lunghezza/larghezza (4,07 x 9,52 metri) della Camera a Loreto si ritrovano nelle case della Palestina, e nel contempo, la parte in pietra a lavorazione nabatea alla luce di una diagonale a 60° presenta ancora proporzioni individuate nelle case palestinesi. Occorre, quindi, spiegare questi dati.
2) Nella cripta della basilica crociata, la Santa Casa si trovava tra due piloni, distanti, valutando i disegni in scala, circa 9,00 metri. Ora, calcolando a 0,90 metri lo spessore della parete Sud e aggiungendo 7,30 metri si giunge a 8,20 metri a cui va aggiunto 0,80 metri. Il che fa vedere che la grotta venne raggiunta già a Nazareth con una muratura di tipo diverso.
3) Certamente la pianta di Loreto presenta un ulteriore prolungamento dell’attacco alla grotta per raggiungere all’interno del vano i 9,52 metri, contro quelli iniziali a Nazareth di circa 8,10 metri. Tale ulteriore prolungamento di 1,42 metri rivela, forse, l’intenzione di riprendere parte dello spazio occupato dal pilone al fianco sinistro della grotta.
Il materiale per questa operazione dovette essere preso da Nazareth, considerando anche che bisognava costruire il quarto muro a cui suppliva la grotta.
4) Dopo i fatti evangelici, la Santa Casa continuò a essere luogo protetto dai parenti del Signore. E divenne un luogo venerato. Non mancarono comunque delle trasformazioni quali un abbattimento di tramezzature.
5) La Casa era connessa alla grotta, quale suo ulteriore spazio, a somiglianza di altre a Nazareth, con l’asse longitudinale sul Nord-Sud (grotta), diversamente dalla Camera di Loreto che si trova sull’asse Est-Ovest.
Tale rotazione è anch’essa prova del trasferimento delle sacre pietre. Infatti è anomalo che la porta di accesso che si trova nella Camera di Maria a Loreto si trovi a Nord, cioè senza ingresso di sole, mentre a Nazareth era esposta molto più a Ovest. La finestra che nella Camera di Loreto è a Ovest, a Nazareth era in posizione più esposta al sole, cioè a Sud.
6) Ci furono incertezze progettuali sul colle Prodo. Lo si deduce dal fatto che gli scavi archeologici del 1962-1965 hanno trovato l’impianto base di una piccola abside collocata a Est, che aderisce – non strutturalmente – ai muri Nord e Sud, e aderisce di tangenza al muro Est.
La piccola abside con il bordo fatto di due filari residui di mattoni sagomati a tratto di circonferenza non può essere interpretata come la prima sistemazione del muro a Est, cioè come la parete mancante a Nazareth.
La piccola abside citata in precedenza:
– va interpretata come un riferimento alla grotta di Nazareth, o come una nicchia per l’immagine della Madonna col Bambino. L’idea della piccola abside non ebbe successo, e venne demolita (se giunse a essere innalzata), prevalendo il valore della pianta rettangolare (4,10 x 9,52 metri);
– dovette essere innalzata (altrimenti non avrebbe avuto il necessario sviluppo verticale) al tempo del sopralzo dei muri, e già alla presenza del muro a Est. Il risultato non convinse perché sottraeva al vano della Casa spazio utile per le funzioni liturgiche.
L’idea che l’abside fosse di una primitiva chiesetta, antecedente alla Camera di Maria, è debole come tesi, perché gli scavi archeologici non hanno messo in luce nessun elemento murario di raccordo all’absidiola, e perché la Camera venne posizionata sopra una strada, nella cui area le indagini hanno messo in luce sepolture di età romana.
L’altezza della Camera di Nazareth trasportata a Loreto, è circa pari al doppio (4,30 metri) della sua larghezza. Tale altezza è un dato progettuale messo in atto pochissimo tempo dopo la ricomposizione della Camera di Maria.
La parte muraria antica dell’attuale chiesetta Sancta Maria in Fundo Laureti, in località Banderuola, ha con i mattoni del sopralzo della Camera di Maria, una sostanziale collimazione della pezzatura dei mattoni. È stata avanzata l’ipotesi che i mattoni della chiesetta, pensata nel 1294-1300 in rovina, siano stati usati per la Camera di Maria.
Risulta, tuttavia, che i mattoni di quest’ultima sono di un costante colore marrone chiaro, mentre quelli della chiesetta (parte rimanente) sono di colore variegato: mattoni rossi, giallognoli, marroni; segno di diverse temperature di cottura dei mattoni all’interno di una fornace poco evoluta, e anche di diversità nelle argille.
Il colore dei mattoni usati nella Camera di Maria rimanda invece a una cottura uniforme. I mattoni dovettero provenire da una fornace più evoluta, che disponeva di una buona distribuzione del calore (oltre i 1000 gradi, per la colorazione in marrone chiaro). Ciò è avvalorato dal profilo a circonferenza dei mattoni dei due filari dell’absidiola non portata a termine. Tali mattoni non potevano essere di recupero, ma di nuova fabbricazione.
L’incendio del 1921 ha investito la superficie dei mattoni, ma non ha abolito la generale uniformità cromatica antecedente.
L’esistenza della chiesetta Sancta Maria in Fundo Laureti è chiaramente attestata prima della traslazione della Santa Casa. Ciò risulta da più documenti: 1181, 1194. E da un atto del 1253, dove è segnalato che il piccolo luogo di culto non era lontano da un’area di progressivo impaludamento.
Un inventario del 1285 segnala, inoltre, che Sancta Maria in Fundo Laureti a quella data era di proprietà del Vescovado di Recanati, ed era dotata di terreni seminabili («3 modioli et 7 staria»).
Pensare, quindi, che dal 1285 al momento della sopraelevazione (15 anni dopo circa) la chiesetta fosse in tale fatiscente rovina da diventare cava di materiale è molto difficile.
In particolare, i mattoni dell’antica chiesetta Sancta Maria in Fundo Laureti risultano legati con malta di calce, mentre i muri del sopralzo della Camera di Maria sono legati con malta di terra, in coerenza con la sottostante parte proveniente da Nazareth.
L’architrave in legno della porta primitiva (ora chiusa con il materiale ricavato dalla nuova apertura), le travi in alto, che fanno da appoggio ai travetti della soffittatura esistente prima dell’attuale volta, e altri legni, risalgono al X-XII secolo (risultati al radiocarbonio). Con ciò sono elementi stagionati che furono disponibili nei dintorni del colle Prodo.
La muratura del muro Est, visibile da una foto scattata dopo l’incendio del 1921 (ora non visibile per le grate floreali), ha le caratteristiche per quanto si vede di un «opus spicatum». Quest’ultimo è frequente nella Palestina, mentre non lo è nell’area recanatese.
L’«opus spicatum» del muro Nord è molto poco curato strutturalmente tanto da dare l’impressione di uno strato addossato al muro portante; un accatastamento di materiale murario da conservare in ogni caso, come reliquia. Con buona probabilità è materiale proveniente in parte dalle due porte aperte per l’uscita dei fedeli. Materiale quindi con valore di reliquia.
Nell’attuale periodo storico le pietre provenienti dalla Santa Casa di Nazareth hanno attirato l’attenzione di varie persone per i motivi più diversi. Su internet, a esempio, si trova il sito di una ditta che vende tre sassolini, «pietre miste provenienti dalla Grotta dell’Annunciazione e dalla Casa di Giuseppe». Alla fine della proposta commerciale si trova questa frase: «Gesù potrebbe aver calpestato le stesse pietre che hai in mano!». Si tratta di una speculazione sulla quale il giudizio non può che essere severo. Al riguardo, occorre ricordare che ogni oggetto devozionale, anche il più importante, non costituisce un elemento essenziale in un percorso di fede. È solo un «signum» che ricorda l’importanza di un incontro diretto, personale, con il Signore Risorto.
Anche in tempi recenti la questione lauretana ha trovato nuovi autori che sostengono la traslazione della Santa Casa per ministero angelico. Si può qui ricordare, a esempio, il contributo del Professor Giorgio Nicolini, professore di religione nei licei e direttore della web-tv Tele Maria. E non è da dimenticare lo studio del Professor Emanuele Mor, docente di elettrochimica all’Università di Genova.
A questi apporti si uniscono quelli di coloro che sostengono il trasporto della Santa Casa via mare.
Si ricorda, «in primis», la figura del Padre Giuseppe Santarelli ofm cap, quella dello scrivente, e del Professor Alessio Santinelli, archeologo e insegnante di religione.
Rimangono poi significativi quei saggi che manifestano critiche (in alcuni casi) e prudenti riserve (in altre situazioni) con riferimento a determinati documenti. Un esempio in merito è lo scritto del Professor Andrea Nicolotti, del Dipartimento di Studi Storici dell’Università di Torino.
Tenendo conto di questi apporti si possono a tutt’oggi annotare talune evidenze che qui di seguito si elencano.
1) Sia coloro che sostengono una traslazione delle sacre pietre per ministero angelico, sia chi propende per un trasporto via mare, convergono nella convinzione dell’autenticità delle sacre pietre conservate a Loreto.
2) Il foglio 181 del Chartularium Culisanense rimane un documento preciso nei dettagli. Impostato con criteri meramente notarili. Il II punto fa riferimento solo a delle «pietre» che provengono dalla Casa di Maria a Nazareth. Non si descrive un trasporto di mura, permane silenzio su un’intera «domus ecclesiae» spostata integralmente.
3) Il nuovo posizionamento delle «pietre» a Loreto seguì un progetto che è attestato dalla presenza di numeri romani. Pur cercando di seguire tale orientamento si può osservare nella Camera la presenza di qualche graffito capovolto, la disposizione di più graffiti effettuata in modo improprio (qualcuno in alto, qualcuno in basso), e l’uso di malta locale. Ciò esclude un trasferimento di intere pareti, mentre conferma un assemblaggio di pietre.
4) Calcolando il numero delle pietre della Camera di Maria e l’altezza di queste ultime, si osservano gli effetti di azioni furtive lungo il tragitto da Nazareth al monte Prodo, e nella stessa località finale.
5) Certamente, nel corso del tempo, quando la notorietà del santuario mariano di Loreto era ormai diffusa, non mancarono varie località che si attribuirono il privilegio di aver accolto la Camera di Maria. Al riguardo, gli attuali studi storici suggeriscono una linea di prudenza, considerando – a esempio – che gli scritti di Girolamo Angelita sono del 1578 e che altri testi risalgono al ’700.
Esiste poi una realtà molto significativa riguardante Loreto: quella dei pellegrinaggi. È una storia attestata da: ex voto, donazioni, testimonianze scritte di fedeli, iniziative della Santa Sede, delle Diocesi, degli Organismi di carità quali l’UNITALSI, richieste di Cattolici che hanno chiesto di essere seppelliti nel cimitero di Loreto. Le visite devote ebbero inizio fin dai primi anni della presenza della Camera di Maria sul monte Prodo. Tali presenze di pellegrini furono (e sono) motivate da motivi essenziali del cammino cristiano: il Mistero dell’Incarnazione, il valore della vita nascente, l’importanza della famiglia, l’aiuto di Maria nel cammino verso la Casa del Padre.
A questi pellegrinaggi si sono uniti nel tempo anche Beati, Santi, mistici, fondatori di Movimenti Cattolici. E nella Camera di Maria sostò in preghiera pure San Pio da Pietrelcina in bilocazione.
Dalla fase degli inizi fino a oggi sono avvenute anche delle guarigioni non spiegabili sul piano scientifico. Per questo motivo è stato promosso (2012) un Osservatorio Medico presso la Delegazione Pontificia della Santa Casa di Loreto. Da tale anno diversi nuovi casi sono stati esaminati attentamente.
Si può riferire, a esempio, una situazione molto delicata. Si tratta della chiusura spontanea di un foro maculare miopico con ripristino della capacità visiva. La letteratura scientifica internazionale riferisce che il foro maculare ha oltre il 90% di probabilità di peggiorare e causare una perdita irreversibile della funzione visiva centrale.
Raramente sono stati riportati nella letteratura internazionale casi di chiusura spontanea di un foro maculare senile o traumatico, ma non sono stati mai riportati casi di chiusura spontanea di un foro maculare miopico con recupero dell’acuità visiva, evento considerato impossibile per le particolari caratteristiche dell’occhio affetto da miopia degenerativa.
Il caso in esame riguarda una donna a cui venne diagnosticata nel 1997 una miopia degenerativa molto elevata (entrambi gli occhi) con conseguente gravissima riduzione del «visus» dell’occhio destro causata da un foro maculare miopico, inequivocabilmente documentato da un esame OCT.
Tale situazione di grave cecità parziale rimase invariata per quattro anni per poi presentare improvvisamente un recupero anatomico e funzionale che si mantiene a tutt’oggi.
Un altro aspetto lauretano che è stato approfondito in questi anni riguarda un quesito. Se il trasporto delle sante pietre di Nazareth è avvenuto via mare, ha ancora senso onorare la Madonna con il titolo di Patrona degli aviatori?
La risposta non può che essere affermativa, avendo come riferimento la Sacra Scrittura. Nella Bibbia infatti tutto quanto riguarda il «volare» di una persona (o anche di cose) ha sempre un significato esclusivamente religioso.
Già nel Libro dell’Apocalisse, l’Apostolo Giovanni descrive un evento notevole: «furono date alla donna le due ali della grande aquila, per volare nel deserto verso il rifugio preparato per lei».
Il significato è evidente: in un contesto di definitivo conflitto tra il Regno di Dio e quello di satana, «la donna» (che rappresenta la Chiesa di cui Maria è Madre) è difesa e salvata attraverso l’azione di Dio stesso. Il «volo», quindi, indica la straordinarietà dell’intervento divino.
A ben vedere, però, la Parola di Dio dona ai contemplativi ulteriore luce. Il «volare», infatti, viene anche indicato:
– come segno conseguente a una fede rocciosa. Si può così spostare un monte, o un gelso;
– come mutamento di condizione;
– come itinerario dell’anima che brama ardentemente l’incontro con Dio.
Deriva da ciò un dato: il riferimento biblico all’evento del «volare» è anche un modo per ricondurre l’orante a fissare il volto di Dio e l’essenzialità del Suo Disegno salvifico, e per sottolineare quindi la necessità di liberare la vita interiore dal condizionamento del peccato (l’anima così «vola»).
In tal senso, Maria appare come Colei che è «l’aviatrice» per eccellenza perché, avendo nella Sua vita terrena partecipato con fede all’azione di Dio, ha potuto poi ricevere con l’Assunzione in Cielo in anima e corpo il dono di una immediata accoglienza in Paradiso nell’integrale unità del proprio essere creaturale.
Si può così affermare che quanto esprime la preghiera dei Salmi: «A te, Signore, elevo l’anima mia», «Il tuo volto, Signore, io cerco», è anelito impresso nel cuore di ogni Cristiano. Anelito a salire sul monte del Signore, a entrare nei sacri atri, a volare verso quel Cielo che è la Casa del Padre.
È un anelito che già in questo esodo terreno vede figure di Santi sollevarsi da terra, come nel caso di San Giuseppe da Copertino, ma è anche un grido di gioia nella lode che fa esclamare: «I cieli cantano le tue meraviglie, Signore».
Si sviluppa da qui una spiritualità dell’aviatore. Il solcare i cieli, in pratica, non è più una mera conquista dell’essere umano ottenuta con l’esclusivo uso di proprie capacità, ma è piuttosto l’occasione privilegiata, offerta da Dio, per contemplare:
– il superamento di ogni «confine»;
– la cancellazione di ogni «particolarismo»;
– l’abbattimento di mentalità fissate ai luoghi del «non orizzonte».
Volare, in tal modo, è osservare secondo la didattica di Cristo. È cogliere un nuovo senso cosmico nel quale, con l’aiuto di Maria, si può tornare all’ultima esclamazione della Bibbia: «Vieni, Signore Gesù».
Nella Camera di Maria, conservata nel santuario di Loreto, l’altare degli Apostoli si trova sotto l’attuale mensa sacra. È protetto da una grata metallica.
Il parallelepipedo di basamento è di pietre caratterizzate dalla finitura nabatea (striature trasversali). È sormontato dalla mensa sempre di pietra. Questo reperto è un altare paleocristiano costruito quando la Casa dell’Annunciazione divenne non solo luogo di visita, ma anche ambiente di preghiera liturgica. Il primo a segnalare un altare nella cripta della basilica crociata fu Daniele (Daniil) l’Igumeno (l’Abate), un religioso russo che visitò Nazareth nel XII secolo. Questi annotò nella propria lingua l’esistenza di un piccolo altare ove si celebrava la liturgia.
Santuario Santa Maria di Loreto. L’altare degli Apostoli.
Gli affreschi appartengono al XIV e al XV secolo. Sono in vario stato di conservazione, a motivo della caduta di grandi parti dell’intonaco. Le raffigurazioni della Madonna seduta con il Bambino sono sei. L’interazione Madre e Bambino viene espressa in modi diversi, in modo da rappresentare quasi un’immagine «in movimento». Si trovano poi anche due Sant’Antonio Abate. Uno è seduto sullo scranno abbaziale, l’altro è in piedi come in cammino. Altri Santi sono affrescati una sola volta. Si tratta di: Santa Caterina d’Alessandria, San Giovanni evangelista, San Luigi IX Re di Francia con in mano le catene a ricordo della prigionia che subì durante la VII Crociata, San Giorgio, San Francesco o Sant’Antonio, San Bartolomeo con in mano il coltello, segno del suo martirio, e il libro delle Scritture. Il ripetersi di affreschi a carattere votivo, dopo un centinaio di anni si arrestò. Anche il muro «bono et grosso» era all’esterno affrescato, come hanno riferito gli archeologi che lavorarono nel periodo 1962-1965.
Interno della Santa Casa di Loreto. Affresco: Madonna con il Bambino.
Giulio II, negli anni del suo Pontificato, volle valorizzare la Camera di Maria con un rivestimento marmoreo. Per questo motivo affidò (1507) l’opera al Bramante.
Quest’ultimo, ne fece il disegno tradotto poi in un modello di legno dal Fiorentino Antonio Pellegrini (1509). Giulio II espresse devozione verso il santuario di Loreto. Il 17 gennaio 1511, durante l’assedio di Mirandola, una palla di cannone, sparata dalle mura della città per colpirlo, lo sfiorò. In seguito, il Papa inviò la palla di cannone come ex voto al santuario di Loreto.
Nel 1513 il modello venne presentato a Leone X, che approvò. Nel giugno del 1513 affidò i lavori ad Andrea Sansovino. Dal 1531 i lavori vennero diretti da Raniero Nerucci e da Antonio Sangallo il Giovane. In seguito intervenne anche lo scultore Giovanni Battista della Porta, che lavorò fino al 1572.
Il muro «bono et grosso» venne demolito, ma non del tutto. La non demolizione del muro «bono et grosso» a Nord, con conseguente vuoto tra il muro della Santa Casa, e il muro di appoggio dei marmi del Saccello, è deducibile dalla differenza di spessore che si nota tra la porta di ingresso alla Camera (Nord) e quella di uscita (Sud). A Nord lo spessore è di 2,20 metri, a sud è di 1,52 metri.
Esterno della Santa Casa di Loreto. Rivestimento marmoreo.
Lo spessore di 2,20 metri a Nord permise la costruzione di una scala a chiocciola. Con questa si accede al tetto del sacello. La porta che si nota a destra simmetricamente alla porta d’entrata (Nord) dà accesso alla scala a chiocciola. La parete marmorea della Camera venne affiancata a un muro di ancoraggio in mattoni, edificato a contatto con il muro della Camera, tranne il lato Nord, come già ricordato, a motivo della rimanente presenza del muro «bono et grosso». Il tetto a doppio spiovente, con sottostante soffittatura, fu eliminato e sostituito con l’attuale volta a botte. Per completare il sacello della Santa Casa ci vollero circa 70 anni.
Nella Camera di Maria custodita a Loreto, la prima immagine della Madonna con il Bambino era dipinta su tavola, secondo le indicazioni del foglio 181 del Chartularium Culisanense, e del resoconto trascritto da Giacomo Ricci, che fa riferimento a una «pittura». In un secondo tempo (XIV secolo), venne scolpita una statua in legno.
Quest’opera, fu trafugata dalle truppe napoleoniche nel 1797. Venne classificata come «statua di legno orientale di scuola egizio-giudaica». La restituzione si verificò cinque anni dopo. In questo periodo, il culto della Vergine Lauretana venne valorizzato anche con l’esposizione di un simulacro in legno di pioppo (identico all’originale) oggi conservato a Cannara (Perugia). In seguito, la statua originale fu nuovamente trasportata nel santuario attraverso un itinerario mariano (la «Madonna pellegrina») durato 8 giorni. L’iniziativa si concluse a Loreto il 9 dicembre del 1801.
Interno della Santa Casa. Madonna con il Bambino posta sopra l’altare.
Nel 1921 divampò un incendio all’interno della Camera di Maria. Il fuoco rovinò completamente la scultura. La statua venne allora rifatta per volere di Pio XI utilizzando il legno di un cedro del Libano proveniente dai Giardini Vaticani. Fu modellata da Enrico Quattrini, ed eseguita e dipinta da Leopoldo Celani. Questi, stese sulla scultura una tinta marrone scuro per riprendere il colore della statua precedente. Il colore marrone viene spiegato riferendosi alle parole del Cantico dei Cantici: «Bruna sono ma bella… Non state a guardare se sono bruna perché il sole mi ha abbronzata» (Cantico 1, 5-6). Il sole è Dio, che ha investito della sua luce e del suo calore la Madre di Dio. La statua è rivestita di una dalmatica. Nel 1922 il Papa la incoronò nella basilica vaticana di San Pietro, e la fece trasportare in modo solenne a Loreto.
Nel 1115 il movimento crociato riuscì a conquistare la Palestina. Tra i vari provvedimenti, venne istituita la signoria di Nazareth, valvassore del principato di Galilea, che, a sua volta, era vassallo del Regno Crociato di Gerusalemme. La Chiesa vi trasferì la sede metropolitana di Scitopoli, mentre i Greci-Ortodossi continuarono a mantenere due distinte diocesi.
La sua provincia ecclesiastica comprendeva il Vescovado di Tiberiade e l’abate del monte Tabor.
Con la riconquista musulmana della Terrasanta, gli Arcivescovi di Nazareth si rifugiarono a Barletta (Puglia) e vi si trasferirono definitivamente nel 1327. Iniziò la lunga linea degli Arcivescovi Metropoliti della sede di Nazareth a Barletta.
Il 27 giugno 1818, con la Bolla De utiliori di Pio VII, furono soppresse l’Arcidiocesi di Nazareth e le diocesi di Canne e di Monteverde. Quest’ultima sede fu annessa alla diocesi di Sant’Angelo dei Lombardi, mentre i territori di Canne e Nazareth divennero parte dell’Arcidiocesi di Trani.
Il 22 settembre 1828, con la Bolla Multis quidem di Leone XII, il titolo di «Arcivescovo di Nazareth» fu concesso agli Arcivescovi di Trani. Successivamente il titolo passò agli Arcivescovi di Trani e Barletta (1860) e poi agli Arcivescovi di Trani-Barletta-Bisceglie (1986).
Nel corso del XII e del XIII secolo, periodo del movimento crociato, esisteva un significativo commercio di ceramiche che raggiungeva la Terrasanta e il porto di Acri dal Levante Mediterraneo, dall’Europa Meridionale, dal Nord Africa e perfino dalla Cina. Lo rivelano nuove ricerche condotte all’Università di Haifa da Edna Stern, sotto la direzione di Michal Artzy e di Adrian Boasz, sulle ceramiche rinvenute negli scavi di Acri dell’Israel Antiquities Authority, e sul vasellame ritrovato nei relitti naufragati intorno alle coste del Mediterraneo.
Secondo i ricercatori, Acri, oltre a rappresentare la porta di accesso dei pellegrini in Terrasanta, era uno dei più trafficati porti mercantili dell’Oriente Latino. Intratteneva relazioni commerciali con Europa, mondo islamico e Impero Bizantino. Questi ultimi studi hanno rivelato che la maggior parte dei prodotti importati consisteva in vasellame da tavola invetriato, soprattutto coppe e piatti, recipienti, giare e articoli da cucina, e che il 44% delle mercanzie proveniva dalle regioni mediterranee di Cipro, Grecia e Asia Minore. Erano costanti anche i traffici commerciali con le città della Siria e del Libano, da dove arrivava circa il 30% delle importazioni, mentre le regioni occidentali del Mediterraneo (soprattutto Francia, Catalogna e Tunisia) esportavano il 3% delle ceramiche. Una parte della mercanzia, pur modesta (0,2%), proveniva dalla Cina.
Contrariamente alla diffusa idea secondo cui i prodotti ceramici importati in Israele erano considerati articoli di lusso, le ricerche di Stern e colleghi indicano che la ceramica non locale non veniva importata per il suo valore; piuttosto sembra che giungesse tramite le compagnie commerciali come carico riempitivo, per economizzare gli spazi non occupati da mercanzie più pregiate.
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Dottor Giuseppe Macchia, Biblioteca Statale di Montevergine, Ufficio Reference (Mercogliano; AV). Architetta Rita Sparvieri (Roma). Padre Giuseppe Santarelli ofm cap, principale studioso della questione lauretana e autore di pregevoli libri (Loreto). Padre André Rizkallah ofm cap, Responsabile Archivio Palazzo Apostolico di Loreto (Loreto). Padre Augustin Laffay O.P., Archivista Generale dell’Ordine dei Predicatori e Membro dell’Istituto Storico, Curia generalizia dei Domenicani, Santa Sabina (Roma). Fra’ Stéphane Milovitch ofm, Liturgista della Custodia di Terra Santa e Superiore della fraternità che abita nel complesso della basilica del Santo Sepolcro, Custodia di Terra Santa (Gerusalemme). Dottor Alberto Bianco, Direttore Archivio della Congregazione dell’Oratorio di San Filippo Neri (Roma). Professoressa Laura Minervini, Università di Napoli (Napoli). Dottori Xavier de Antonio e Franco Perna, Maison Pierre de Bérulle (Parigi). Nob. Avvocato Alfonso Marini Dettina, Sacro Militare Ordine Costantiniano di San Giorgio, Cavaliere de Jure Sanguinis con Placca d’Oro. Dottor Aldo Viroli, Studioso di Scienze Storiche (Rimini). M° Oliver Gruda, Studioso della storia dell’Albania (Scutari).