Leonarda Cianciulli
La saponificatrice di Correggio

Una successione di fatti che sconvolsero l’opinione pubblica del nostro Paese nei primi anni della Seconda Guerra Mondiale, facendone dimenticare per un attimo la tragicità, capitò in Emilia, precisamente a Correggio, nella Bassa Reggiana. In quel periodo, era il 1939, i quotidiani e i giornali radio si dividevano fra i problemi e le grosse beghe internazionali, e ciò che stava succedendo in quel centro.

Qui viveva Leonarda Vincenza Giuseppa Cianciulli, nata a Montella in provincia di Avellino l’8 aprile 1894, figlia di Mariano Cianciulli, che si interessava di allevamenti di bestiame, e di Serafina Marano. La sua vita è stata narrata in un memoriale, dal titolo Confessioni di un’anima amareggiata, che giustamente si dubita sia frutto del suo sacco, se si fa riferimento al suo grado di cultura, e che comparve quando lei era in stato di detenzione. In effetti, i suoi studi si erano fermati alla terza classe elementare, per cui sembra impossibile che abbia avuto la capacità di scrivere un memoriale di ben 700 pagine e più. Pertanto sono molti coloro che ritengono che sia il frutto del lavoro degli avvocati della sua difesa durante il processo, per tentare di alleggerire la gravità della sua posizione.

Essendo giunta indesiderata, la madre la trattava male, come un incomodo, e la sua vita da ragazza fu un mezzo inferno, anche perché la madre (che carina!) le ricordava continuamente che non sarebbe dovuta nascere. Insomma, una vita da incubo, per una ragazza che, oltretutto, non era certo bella, con un corpo robusto e il volto con lineamenti piuttosto mascolini; per di più, le crisi epilettiche di cui soffriva complicavano i rapporti tesi con la madre.

Con questi presupposti, non c’è da meravigliarsi se, stanca dei maltrattamenti, pur di togliersi dai piedi, abbia tentato due volte di suicidarsi, come lei stessa ebbe a raccontare: «Ero una bambina debole e malaticcia, soffrivo di epilessia, ma i miei mi trattavano come un peso, non avevano per me nessuna delle attenzioni che portavano agli altri figli. La mamma mi odiava, perché non aveva desiderato la mia nascita. Ero una bambina infelice e desideravo morire. Cercai due volte di impiccarmi; una volta arrivarono in tempo a salvarmi e l’altra si spezzò la fune. La mamma mi fece capire che le dispiaceva di rivedermi viva (sic). Una volta ingoiai due stecche del suo busto, sempre con l’intenzione di morire, e mangiai dei cocci di vetro: non accadde nulla».

Giunta all’adolescenza, scoprì gli uomini, dai quali – confessò lei – traeva «consolazione alla vita grigia e triste del paese». Uno di questi, Raffaele Pansardi, originario della potentina Lauria, malgrado il parere contrario dei suoi familiari, che non la ritenevano la persona giusta per lui, essendo un impiegato dell’ufficio del registro di Montella, la sposò nel 1917 e insieme andarono a vivere a Lauria, nell’Alta Irpinia. Durante la vita matrimoniale ci furono diciassette gravidanze, ma i figli che sopravvissero furono solamente quattro e per Leonarda divennero un bene da difendere in modo estremo, come reazione al comportamento della madre nei suoi confronti. La nascita dei quattro figli di Leonarda, che fino allora ne aveva persi 13 (tre aborti spontanei e 10 neonati morti), fu dovuta – secondo il suo parere – all’intervento andato a buon fine di una maga del paese, tanto che riuscì a portare a termine la gravidanza in atto e poi le tre successive. E i figli divennero il suo tesoro, da proteggere fino alle estreme conseguenze. Nel suo memoriale è riportato il suo pensiero in merito: «Non potevo sopportare la perdita di un altro figlio. Quasi ogni notte sognavo le piccole bare bianche, inghiottite una dopo l’altra dalla terra nera... per questo ho studiato magia, ho letto i libri che parlano di chiromanzia, astrologia, scongiuri, fatture, spiritismo: volevo apprendere tutto sui sortilegi per riuscire a neutralizzarli».

Sia a Lauria sia a Lacedonia, Leonarda si era fatta una brutta fama, considerandola i compaesani una donna di facili costumi, con scarse qualità morali, poco adatta alla vita di coppia e irrispettosa del vivere in comunità. Ebbe problemi anche con la giustizia, quando fu condannata per furto nel 1912, per minaccia a mano armata, nel 1919 a Montella e nel 1927: il processo e la condanna a dieci mesi e quindici giorni furono per truffa continuata. Alla reclusione, avvenuta nelle carceri di Lauria e Lagonegro, furono aggiunte 350 lire di multa, avendo raggirato una contadina. Il suo avvocato difensore cercò di farla passare con un vizio parziale di mente, ma il tentativo fallì.

Vissero in quel paese fino al 1927, poi si trasferirono a Lacedonia in provincia di Avellino, finché, dopo il terremoto del Vulture del 1930, lasciarono la casa sinistrata e si trasferirono a Correggio, nel Reggiano.

Il marito, impiegato presso il locale Ufficio del Registro, non portava a casa un grosso stipendio (tutt’altro, essendo un modesto 850 lire al mese) e pare che tendesse a bere, e per questo, per dare una mano alla famiglia, Leonarda si rimboccò le maniche, avviando un piccolo commercio di abiti e mobili e a offrire sedute di chiromanzia e astrologia. In tal modo, mettendo insieme i proventi di entrambi e i risarcimenti dello Stato, in quanto vittime del sisma, la famiglia poteva sbarcare il lunario.

A Correggio, contrariamente al parere dei compaesani del Sud, Leonarda fu forse giudicata eccentrica ma, tutto sommato, fu accettata da tutti come persona affabile e affidabile, un esempio di madre e una fervente fascista, il che non guastava. La sua abitazione era divenuta un punto di ritrovo, dove lei intratteneva amiche e conoscenti con simpatia, facendo le carte, dialogando con loro, raccontando tante cose, offrendo tè e pasticcini. Cercava di dare sollievo alle donne che non erano felici lì dove si trovavano e desideravano trasferirsi altrove. E fu questa la molla che fece di Leonarda una intrallazzatrice di tutto riguardo.

Si era giunti al 1939 e spiravano venti di guerra. Il marito se ne era andato, lasciandola sola a tirare avanti e a curare i quattro figli. Di questi, il più anziano, malgrado fosse iscritto alla Facoltà di Lettere all’Università di Milano, stava correndo il rischio di essere richiamato dall’esercito; degli altri due maschi, Bernardo era già sotto le armi come militare di leva, e Biagio studiava al ginnasio; l’unica femmina, Norma, frequentava l’asilo di suore.

Ciò che soprattutto la preoccupava e la turbava era la sorte del figlio maggiore che era il preferito, anche se i figli dovrebbero essere considerati tutti alla stessa maniera, e che avrebbe potuto perdere la vita se fosse stato mandato al fronte. Ricordando che in tempi passati si era rivolta a una chiaroveggente che le aveva dato i consigli migliori, decise, per attirare la benevolenza del futuro sul figlio, di seguire la via ritenuta migliore, che le indicava di compiere sacrifici umani.

Così, iniziò la sua «carriera di saponificatrice».

La prima vittima fu Ermelinda Faustina Setti, un’anziana signora settantenne semialfabeta, ma ancora con il desiderio di trovare un’anima gemella (l’amore non ha età!). La Cianciulli la informò che a Pola c’era l’uomo giusto per lei, che sarebbe potuto diventare suo marito, e le fece promettere di non divulgare la notizia, giacché avrebbe potuto scatenare le dicerie e – perché no – le invidie delle malelingue con lo stesso desiderio. Il giorno stabilito per la partenza, Ermelinda si recò a casa della Cianciulli, per farsi scrivere lettere da inviare alle amiche, una volta giunta a Pola, e per firmare una delega da dare alla Cianciulli per la gestione dei suoi beni. A quel punto, la poveretta aveva firmato la sua condanna a morte. E così avvenne, infatti. Senza tanti complimenti, Leonarda la uccise con un’ascia, la trascinò in uno stanzino e completò la sua opera. Non mi sembra il caso di entrare negli agghiaccianti particolari che si possono immaginare e che sono emersi dal processo cui fu sottoposta. Il risultato fu che, dopo aver eliminato ciò che non le serviva in un pozzo nero, preparò dolci ottenuti con i poveri resti della donna mescolati con farina, zucchero, cioccolato, latte e uova, e li servì alle signore che l’andavano a visitare; lei stessa e il figlio Giuseppe se ne cibarono. Giuseppe, poi, approfittando di un giro effettuato per lavoro, passò per la città di Pola, dove imbucò le lettere preparate in precedenza, nelle quali era specificato che tutto andava per il meglio e che lei, la Setti, era in perfetta salute.

La vittima successiva fu l’insegnante d’asilo Francesca Clementina Soavi. Questa volta, Leonarda puntò sulla professione della donna, promettendole di farla assumere presso un collegio femminile a Piacenza. E Leonarda le disse che sarebbe stato opportuno scrivere delle cartoline per informare parenti e amici, da inviare a Correggio, di non svelare il suo nuovo indirizzo e di non parlarne con nessuno, almeno fino a quando non fosse stata sicura di aver avuto il posto di lavoro; inoltre le fece firmare un documento con il quale aveva l’autorizzazione a vendere le sue cose. E tutto si svolse come nel caso precedente. Dopo il misfatto, mandò il figlio Giuseppe a Piacenza a imbucare le cartoline, mentre lei intascò i pochi soldi che la Soavi aveva con sé, vendette le sue cose e s’impossessò dei proventi.

Questa volta, Leonarda corse un grosso rischio, perché la poveretta aveva confidato a un’amica ciò che era in procinto di fare; ma disgraziatamente questa non diede il giusto peso alla confidenza ricevuta e, ahimè, lasciò perdere.

Non ancora soddisfatta, Leonarda affrontò la terza vittima. Si trattava di una soprano di 59 anni, di nome Virginia Cacioppo, che aveva avuto un certo successo in teatri italiani ed esteri. La proposta che Leonarda le fece riguardava la possibilità per la cantante di divenire la segretaria di un fantomatico impresario teatrale e magari di poter tornare a cantare, soddisfacendo così il suo sogno. E pure in questo caso, il segreto non fu mantenuto, avendo la Cacioppo confidato a un’amica che stava partendo per Firenze e a quale scopo.

Tutto si ripeté, seguendo un copione ormai collaudato.

Però, mentre con la Soavi tutto era passato senza danni, questa volta ci fu una cognata della Cacioppo la quale, resasi conto che non aveva più notizie, si insospettì e si rivolse al questore di Reggio Emilia. Ci furono indagini che individuarono colui che aveva acquistato i suoi beni e, naturalmente, si giunse alla Cianciulli, quale venditrice degli stessi. Furono fatti sopralluoghi nella casa della saponificatrice, dove furono rinvenute tracce di sangue e dentiere appartenenti alle tre poverette.

A quel punto, considerato che chi aveva acquistato i beni erano perfettamente in buona fede e facendo riferimento a quanto era stato trovato a casa della donna, i sospettati rimasero solamente in due: Leonarda e il figlio Giuseppe.

Interrogata, dopo aver tentato inutilmente di dimostrare la sua estraneità ai delitti, durante il processo aperto il 12 giugno 1946 a Reggio Emilia, piano piano fu costretta a confessare ciò che lei aveva compiuto, e non per avidità di denaro come sosteneva la pubblica accusa, ma non con cattiveria, perché era l’unico modo per non perdere i suoi adorati figli. E aggiunse semplicemente che «non ho ucciso per odio o per avidità, ma solo per amore di mamma». Infine, disse che l’unica colpevole era lei stessa, mentre Giuseppe agiva per conto suo, ignaro di quanto stava succedendo; infatti, dopo essere stato condannato a cinque anni di reclusione, fu rilasciato per mancanza di prove.

Il Professor Filippo Saporito, dell’Università di Roma e direttore del manicomio criminale di Aversa, fece una perizia sulla donna, dalla quale emerse che lei soffriva di infermità mentale. Ma il tribunale accettò solamente la seminfermità e pertanto il verdetto fu molto pesante: infatti, fu che la Cianciulli era colpevole di tre omicidi, di distruzione di cadaveri per mezzo della saponificazione, di appropriazione aggravata di beni, per cui fu condannata alla pena della reclusione per trent’anni più due di internamento in ospedale psichiatrico e una multa di 15.000 lire.

Dopo 24 anni di carcere, Leonarda morì il 15 ottobre 1970 nel manicomio di Pozzuoli e, non avendo nessuno richiesto le sue spoglie, fu inumata in un cimitero comune.

(agosto 2024)

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