Trieste 1952: una sintonia patriottica vissuta nella dura stagione del territorio libero
Il Vescovo Antonio Santin con l’Onorevole Giovanni Tanasco (Democrazia Cristiana)

Trascorsi sette anni dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, nella primavera del 1952 le sorti di Trieste e del suo territorio continuavano a distinguersi per la massima incertezza, come emerge dalle testimonianze dell’epoca, alcune delle quali quasi dimenticate, se non anche inedite, come quelle riguardanti la sintonia fra il Vescovo Antonio Santin, grande presule dei tempi bui, e l’Onorevole Giovanni Tanasco, protagonista della prima legislatura repubblicana[1]. Mancavano due anni al ritorno della città di San Giusto in seno alla Madrepatria, che si sarebbe compiuto il 26 ottobre 1954 con l’arrivo dei Bersaglieri e la fuga del Governatore Inglese John Winterton, ma si sarebbe trattato di un biennio assai difficile. Basti pensare ai fatti del novembre 1953, con l’estremo sacrificio di sette cittadini innocenti caduti sotto il piombo del GMA, che il Generale Riccardo Basile, indimenticato Presidente della Federazione Grigioverde, avrebbe correttamente definito quali «ultime vittime del Risorgimento».

Esiste una lunga documentazione autografa di Monsignor Santin in data 24 settembre 1952 diretta proprio all’Onorevole Tanasco, in cui il Vescovo Triestino, dopo avere posto in evidenza le innumerevoli angherie perpetrate dagli occupatori slavi ai danni degli Italiani abitanti nella Zona «B» del cosiddetto Territorio Libero esteso da Capodistria a Buie e Cittanova, accompagnate da pervicaci conati di scristianizzazione, si soffermava sulle gravi responsabilità degli Alleati Occidentali. Ciò, con uno specifico riguardo a Stati Uniti e Gran Bretagna, perché i loro Governi non avevano onorato gli impegni liberamente assunti al termine del conflitto: non a caso, Monsignor Santin si domandava chi potrebbe «credere al conclamato amore per la democrazia e la libertà» affermato dalle predette Potenze, tenuto conto che non le «pongono a disposizione di una povera popolazione che è privata del più elementare diritto». Infine, invocava un adeguato intervento del Governo Italiano, nell’ambito di una politica estera «di grande dignità e di consapevole fermezza» in guisa di ottenere, da parte degli Alleati, un consapevole «atto di giustizia e di saggezza»[2]. In buona sostanza, quella del Vescovo è una manifestazione di patriottismo illuminato, tanto più commendevole in quanto proveniente da un pulpito immune da qualsiasi pregiudiziale politica, ma fedele all’imperativo etico della coscienza.

Dal canto suo, l’Onorevole Tanasco, nella seduta parlamentare del 14 ottobre 1952, si distinse per un intervento di particolare ampiezza, opportunamente dato alle stampe in un coinvolgente opuscolo[3] dove l’oratore, dopo una documentata premessa circa il carattere opinabile del Territorio Libero, anche a prescindere dalle difficoltà per la nomina del Governatore, peraltro mai superate con la conseguente permanenza di quello militare, dapprima statunitense e poi lungamente britannico, metteva in luce le contraddizioni della politica di occupazione, gli eccessivi riguardi per una Jugoslavia la cui scelta in favore dell’Occidente rimaneva una scommessa se non anche un «noumeno», e l’atteggiamento eccessivamente dimesso da parte italiana[4]. Tanasco concludeva con l’auspicio che le strutture della nuova Comunità Europea, all’epoca in costruzione, potessero assicurare (anche grazie al parziale ridimensionamento delle sovranità) «una regolazione più sicura e più giusta dei reciproci rapporti fra i popoli» nel rispetto dei canoni fondamentali della giustizia e della libertà. Si trattava di un ottimo motivo in più per attendere una prova di buona volontà degli Alleati circa la questione di Trieste, se non altro in aderenza alla Dichiarazione tripartita di quattro anni prima: prova tanto più necessaria all’Italia quale riconoscimento del suo «inoppugnabile diritto».

A circa tre quarti di secolo dai fatti del 1952 e da quelli che vi fecero seguito negli anni immediatamente successivi, le riflessioni storiografiche assumono una dimensione oggettiva, e consentono di interpretarli in una luce scevra dalle contingenze, e quindi, dalle polemiche del momento. Ciò, con riguardo prioritario a quelle che misero all’indice, contestualmente, le ipotesi naturalmente opposte, avanzate dalla sinistra social-comunista e dalla destra missina, ancora emarginate dalla grande vittoria democristiana del 1948 completata dal contributo, comunque secondario, delle forze di democrazia laica. In realtà, il successo della Democrazia Cristiana non si sarebbe più ripetuto in quelle dimensioni, e sin dal 1953 avrebbe avuto inizio un primo ridimensionamento del partito cattolico, anche a favore di una destra che non aveva abbandonato del tutto le vecchie pregiudiziali legittimiste e nazionaliste, in una dicotomia che alla fine non avrebbe giovato né all’una né all’altra. Dal canto suo, la sinistra cominciava ad avvertire i primi sintomi di un’emancipazione da parte Partito Socialista Italiano che avrebbe condotto, diversi anni più tardi, alla fine della tradizionale subordinazione alla maggioranza comunista.

Nondimeno, la dimensione oggettiva, se diventa un valore, finisce comunque per stendere un velo di conformismo, se non anche di oscuramento, sulle vecchie posizioni patriottiche, espresse dal ritorno in forza di un irredentismo che, accantonate le vecchie pregiudiziali di carattere territoriale, propendeva per conferire rilevanza prioritaria all’affrancamento dei popoli oppressi, ancor prima che a quello delle loro terre, come da imperitura lezione di Monsignor Luigi Stefani, esule da Zara e protagonista quasi quarantennale della Venerabile Misericordia Fiorentina e della sua «vita morale». Non a caso, uno storico istriano di alta sensibilità etico-politica come il Professor Claudio Antonelli ha voluto rammentare, nella prefazione alla sua ultima opera[5] che in quella stagione plumbea «vi fu gente che morì, come i nostri tanti infoibati per l’italianità, valore questo che direi sacro per gli Italiani originari di quelle terre, ma divenuto un antistorico, pesante fardello, che ormai non siamo in molti a portare». L’osservazione è certamente corretta, e proprio per questo corre l’obbligo di leggerla alla stregua di un invito a riflettere, con particolare riguardo all’obbligo etico e politico di «non mollare».


Note

1 Giovanni Tanasco, nato Tanascovich (1889-1971), prima dell’italianizzazione del cognome avvenuta nel 1928, aveva studiato a Zara e conseguito la laurea a Graz, diventando attivista del Partito Popolare Italiano all’indomani della Grande Guerra, e poi Segretario di Sezione nel triennio 1923-1925, ma ritirandosi dalla vita politica attiva dopo l’avvento dello Stato integralmente fascista. Nel 1943 fu nuovamente attivo nella Resistenza: arrestato il 19 settembre, dopo breve detenzione in Italia fu internato a Dachau nel gennaio 1944, da dove sarebbe riuscito a rientrare, seriamente ammalato, dopo la fine del conflitto. Candidato alle elezioni del 18 aprile 1948 per la prima legislatura repubblicana, fu eletto alla Camera, ma costretto alle dimissioni dopo pochi mesi a seguito di un ricorso presentato dall’Uomo Qualunque di Guglielmo Giannini a favore di un suo candidato; nondimeno, sarebbe rientrato in Parlamento nel 1950 per la morte dell’Onorevole Pietro Bulloni, completando la legislatura alla scadenza del mandato, quando assunse l’incarico di Presidente della Provincia di Trieste (1954-1956). L’ultimo periodo di vita lo vide protagonista di un austero e fedele notabilato.

2 La lettera, al pari del lungo allegato, fu inviata manoscritta, con le scuse del presule motivate dalla fretta conseguente alla necessità di promuovere adeguati interventi in una stagione assai incerta e difficile, e con l’auspicio che il prossimo intervento alla Camera da parte del suo interlocutore potesse essere «efficace» tanto più che ogni attesa, come poneva in luce lo stesso Santin, «significa la morte». Affermazione non sorprendente nella situazione dell’epoca, ben evidenziata nell’allegato, sia per quanto riguarda le persecuzioni contro la Chiesa e i suoi sacerdoti, sia per quanto concerne le scelte degli Alleati, non sempre favorevoli all’Italia grazie all’astuto atteggiamento bipolare di Belgrado.

3 Confronta Giovanni Tanasco, Per la giusta soluzione del problema triestino (Discorso pronunciato alla Camera dei Deputati nella seduta del 14 ottobre 1952), Tipografia della Camera, 20 pagine. L’assunto messo in evidenza nell’intervento in questione era stato anticipato, oltre che da Monsignor Santin, anche dalla Lega Nazionale di Trieste. Quest’ultima, riunita nell’Assemblea plenaria del 24 settembre 1952 sotto la presidenza di Carlo de’ Dolcetti, aveva solennemente confermato che l’attesa di adeguate manifestazioni di volontà da parte italiana restava «inflessibile» e che non si sarebbe potuto mai assumere un atteggiamento di acquiescenza né tanto meno di rinunzia, anche alla luce della palese «solidarietà di tutti i fratelli d’Italia».

4 L’atteggiamento italiano all’insegna di visibili incertezze trovava motivazioni comprensibili, da una parte, nella presenza di un’opposizione social-comunista tuttora pervicace nonostante la grande sconfitta elettorale del 1948 che aveva coinciso con una maggioranza democristiana alle soglie di quella assoluta, e dall’altra parte, nella fiducia di parecchi ambienti occidentali circa l’evoluzione della Jugoslavia in senso democratico, suffragata proprio in quei momenti dalle parole del Ministro degli Esteri Britannico, Anthony Eden, che al suo ritorno da una visita di Stato a Belgrado aveva dichiarato senza mezzi termini come la Jugoslavia fosse realmente «convinta che i suoi destini sono legati a quelli del mondo occidentale». Cosa che, come chiarito dall’Onorevole Tanasco nel proprio intervento, avrebbe dovuto necessariamente coincidere con la rettifica di «alcune proprie posizioni ideologiche» e con la rinuncia alle sue «ingiuste aspirazioni di maggiori conquiste territoriali» (due fattori indispensabili ai fini di una vera politica di buon vicinato, e quindi, alla soluzione più agevole del problema di Trieste e del suo Territorio Libero).

5 Confronta Claudio Antonelli, L’Anglo-Latinorum degli Italioti: la disgregazione di una lingua e di un’identità, Edizioni Edarc, San Giuliano Milanese 2024, pagina 11.

(dicembre 2024)

Tag: Carlo Cesare Montani, Antonio Santin, Giovanni Tanasco, John Winterton, Riccardo Basile, Claudio Antonelli, Guglielmo Giannini, Pietro Bulloni, Carlo de’ Dolcetti, Anthony Eden, Trieste, Capodistria, Buie, Cittanova, Stati Uniti, Gran Bretagna, Zara, Graz, Dachau, Italia, Belgrado, Jugoslavia, Seconda Guerra Mondiale, Bersaglieri, Federazione Grigioverde, Territorio Libero di Trieste, Governo Italiano, Occidente, Comunità Europea, Dichiarazione Tripartita, Democrazia Cristiana, Partito Socialista Italiano, Partito Popolare Italiano, Irredentismo, Grande Guerra, Resistenza, Camera dei Deputati, Movimento dell’Uomo Qualunque, Provincia di Trieste, Lega Nazionale.