Trattamento riservato all’Italia dopo le guerre del Novecento
Per i limiti della propria autotutela e per la pervicacia nel «fare gli interessi degli altri»

La storiografia della questione adriatica, nel ricercarne le cause profonde, risale fino ai secoli precedenti la nostra era, e più precisamente, a quelli dell’Alto Medio Evo che ne cambiarono radicalmente i caratteri di base, a causa dei grandi movimenti migratori a carattere stanziale, per opera delle etnie avaro-slave. Del resto, in tempi largamente precedenti, mutazioni analoghe si erano manifestate con l’arrivo di quelle illiriche e celtiche, cui avrebbe fatto seguito, verso la fine della lunga stagione precristiana, la colonizzazione di Roma.

Origini meno remote sono individuabili nel XIX secolo, dopo la scomparsa della Serenissima Repubblica di Venezia che aveva mantenuto un rispettoso equilibrio tra i popoli latini e slavi dell’Adriatico, convissuti per parecchi secoli – sebbene non senza contrasti – in Istria e in tutta la Dalmazia: talvolta, in posizione subordinata nei confronti dei nuovi arrivati, come attesta il sostanziale fallimento del Placito di Risano, che agli inizi del IX secolo aveva tentato di dirimere le controversie conseguenti ai suddetti insediamenti avaro-slavi, sebbene con scarso successo.

In effetti, fu l’apparizione del sentimento nazionale fra i sudditi della Monarchia Asburgica a determinare, soprattutto nel 1848-1849, il nascere delle prime forti tensioni, conseguenti all’acquisita coscienza di valori oltremodo innovativi come quello della nazionalità, nell’ambito di contrasti crescenti. Seguirono, dopo la sconfitta austriaca del 1866 nella guerra contro la Prussia, e con toni più accesi, quelle conseguenti all’annessione del Veneto all’Italia, suffragata da un voto assolutamente plebiscitario e da un risultato nettamente superiore agli altri, senza dire del compromesso intervenuto nell’anno successivo, con la creazione del dualismo austro-ungarico.

Dette contraddizioni assursero a contenzioso internazionale alla fine della Grande Guerra, quando si trattò di attuare il Patto di Londra (1915), a fronte delle rivendicazioni del nuovo Stato Serbo, Croato e Sloveno, la cui formazione non era stata prevista nel Patto stesso; e quale conseguenza della mancata partecipazione statunitense alla sua elaborazione e firma. Al momento, sarebbe stato difficile prevedere i rischi derivanti dalle mutazioni radicali indotte dal conflitto, che peraltro diventarono tangibili in tempi piuttosto brevi, anche alla luce della ripresa tedesca, tanto più rilevante dopo la sconfitta davvero totale con cui la Germania era uscita dalla Prima Guerra Mondiale.

Il Patto di Londra aveva accordato all’Italia le città di Trieste e Gorizia, tutta l’Istria fino al Quarnaro (esclusa Fiume), Zara con un ampio entroterra, e la maggioranza delle isole dalmate: accanto a città compattamente italiane, anche campagne popolate per lo più da Slavi, in una linea di spartiacque anche sociale. Lo «straripamento» dai principi di nazionalità (così cari al Presidente Statunitense Wilson) previsto dal Patto, che da parte italiana s’intendeva sostenere a Versailles, trovava riscontro anche da parte slava. Sin dal dicembre 1914, nel cosiddetto Promemoria Sazanov, pur ammettendo l’esistenza di una larghissima maggioranza italiana a Trieste, a Gorizia e nell’Istria Occidentale, si era formulato un programma di massima che sarebbe stato regolarmente ripresentato nei decenni successivi, avanzando pretese fino al Tagliamento e alla cosiddetta «Slavia» Veneta, includendovi a volte anche Udine! In tutta sintesi, non mancavano i presupposti di nuove discrasie che, in assenza di precise volontà del momento politico, e di soluzioni diplomatiche conseguenti, rischiavano di assumere un carattere cronico dagli effetti imprevedibili.

Alla fine della Grande Guerra, il vecchio conflitto italo-austriaco sulla questione adriatica divenne italo-jugoslavo. Tuttavia, se le attese di Roma, rese più complesse dal comportamento ondivago della delegazione italiana alla Conferenza di Versailles, inducevano la naturale opposizione di Serbi, Croati e Sloveni, furono distrutte da quella ben più potente degli Stati Uniti. Il Presidente Wilson si sarebbe rifiutato di riconoscere gli accordi segreti conclusi dagli Alleati prima dell’entrata di Washington nel conflitto (1917), e quindi il Patto di Londra; proclamandosi invece massimo sostenitore, oltre al diritto di nazionalità, di quello di «autodeterminazione» dei popoli e della libertà dei cosiddetti «piccoli». Ciò, salvo usare loro violenza, all’indomani delle notti trascorse con una signora jugoslava durante la Conferenza della Pace: infatti, ogni mattino seguente a tali incontri galanti, l’Italia perdeva un’isola in Dalmazia.

A fronte delle inconciliabili richieste territoriali italiane e slave, il Presidente Americano creò un gruppo di esperti dal cui lavoro sarebbe uscito il documento noto come «Linea Wilson» che divideva l’Istria a metà da Nord a Sud, attribuiva Trieste e Pola all’Italia, e Fiume alla Jugoslavia. Entrambe le parti respinsero la proposta e la delegazione non trovò di meglio se non l’abbandono della Conferenza (ma si deve rilevare che la «Linea Wilson», sia pure riveduta, sarebbe stata alla base delle attese italiane nel 1945). Quella mossa poco diplomatica fu pagata negativamente: quando si decise che la protesta poteva bastare, e si fece luogo al ritorno, la posizione italiana era stata a maggior ragione compromessa.

La strada che condusse da tale vicolo cieco al Trattato Italo-Jugoslavo di Rapallo del 12 novembre 1920 è contrassegnata dall’abbandono delle pretese slave su Gorizia, Trieste, e sull’Istria Occidentale, dal «Memorandum» di Balfour del giugno 1919 che avrebbe segnato il disimpegno franco-inglese dal Patto di Londra e il contestuale appello all’Italia di rendersi conto della diversa realtà europea; infine, dalla Marcia dei Legionari di Gabriele d’Annunzio su Fiume (12 settembre 1919). Il Senato Statunitense non approvò il Trattato di Versailles e Wilson fu sostituito dal repubblicano Harding, mentre Francia e Gran Bretagna premevano sulla Jugoslavia perché si accordasse con il nuovo Governo Italiano di Giolitti e Sforza, che dal canto suo riteneva indispensabile stabilire buoni rapporti tra i due Stati Adriatici confinanti.

Col Trattato di Rapallo la Jugoslavia accettò la linea del Monte Nevoso quale spartiacque confinario, e l’avvento dello Stato Indipendente di Fiume, mentre l’Italia si vide riconoscere la sovranità su Zara, Cherso, Lussino, Lagosta e Pelagosa, ma dovette rinunciare a quasi tutta la Dalmazia, in deroga all’ormai obsoleto Patto del 1915. Era la dimostrazione che il principio di nazionalità non poteva essere attuato sempre, in specie dove configgeva con quello altrui. In effetti, il Trattato del 1920 e la successiva annessione di Fiume, sancita con quello di Roma del gennaio 1924 dopo la Reggenza Dannunziana, la breve parentesi dello Stato Libero di Riccardo Zanella e l’occupazione guidata dal Generale Gaetano Giardino, non erano destinati – nonostante le apparenze – a dare stabilità perenne a quella parte d’Europa sconvolta da tante discrasie. La responsabilità non deve essere ascritta ai due Stati Adriatici, ma soprattutto alle grandi potenze (Francia e Gran Bretagna) oltre che al filo-slavismo di Wilson: ciò, per non aver saputo o voluto trovare soluzioni che, nel tenere conto del Patto di Londra, rappresentassero ipotesi costruttive per l’avvenire. Tali precisi addebiti avrebbero trovato rinnovata attualità anche alla fine della Seconda Guerra Mondiale.

Nel periodo intercorso tra i due conflitti, i rapporti fra l’Italia e la Jugoslavia fecero registrare vicende alterne, con un progressivo riavvicinamento tra Germania e Italia, che infine condusse al Patto di Amicizia firmato da Costanzo Ciano e Milan Stojadinovic nel 1937. Bisogna comunque rilevare che, anche a seguito dell’occupazione italiana dell’Albania, che sarebbe diventata un protettorato, la garanzia inglese proposta nello stesso periodo fu rifiutata da Belgrado.

I fatti successivi alla citata intesa del 1937, con particolare riguardo all’adesione jugoslava al Patto Tripartito, alla nuova conflagrazione mondiale del 1939 (seguita nell’anno successivo dal coinvolgimento italiano), al colpo di Stato con cui tale scelta sarebbe stata disconosciuta da Re Pietro di Jugoslavia, e alle lotte intestine fra cetnici, nazionalisti sloveni, «ustascia» croati, e partigiani comunisti, non ebbero riflessi immediati e diretti sulla questione adriatica, che invece riemerse prepotentemente dopo l’8 settembre 1943, allorché si registrarono le prime proclamazioni ufficiali slovene e croate che rivendicavano l’unione del cosiddetto «litorale» dell’Istria e delle isole del Quarnaro alla cosiddetta «Jugoslavia libera e democratica» che, com’è noto, una volta costituita avrebbe attuato una criminale pulizia etnica (per lo più a guerra ultimata) nei confronti di civili italiani d’ogni età a Trieste, a Fiume, in Istria, in Dalmazia.

La pulizia etnica di Tito, con la documentata complicità del Partito Comunista Italiano nelle cui file militava già allora il futuro Presidente Giorgio Napolitano, altro non fu – nella forma più sanguinaria e cruenta – se non la continuazione di quella perseguita sin dal 1920 da parte del Regno di Jugoslavia, costringendo all’esodo buona parte del popolo veneto-dalmata formatosi nei secoli e già decimato nell’Ottocento da decenni di angherie austro-ungariche. Il resto sarebbe sopraggiunto dopo la fine delle operazioni militari nella primavera del 1945, e formalizzato nel «diktat» del 1947.

Giova ricordare, perché generalmente trascurato, che l’eliminazione dell’elemento italiano in Jugoslavia era stata pianificata sin dagli anni Trenta da parte di Vaso Čubrilović, alto ufficiale dell’esercito jugoslavo. Egli fu l’unico esponente monarchico entrato nel Governo Nazional-Comunista di Tito la cui volontà era di utilizzare le foibe, gli annegamenti e gli altri strumenti di morte come mezzo terroristico per costringere all’esodo gli Italiani d’Istria, Fiume e Dalmazia. Gli scritti di vari compagni del dittatore comunista, «in primis» di Moša Pijade, non lasciano dubbi su tale volontà del Maresciallo; così come non ci sono dubbi sull’appoggio di Togliatti e dell’intero Partito Comunista Italiano al criminale disegno egemonico dello stesso Tito. Basti ricordare che già nell’ottobre 1944, dopo avere incontrato Milovan Gilas ed Edvard Kardelj, Togliatti aveva scritto che «l’occupazione jugoslava è un fatto positivo di cui dobbiamo rallegrarci, e in tutti i modi favorire». Analogamente si sarebbe pronunciato durante i famigerati «quaranta giorni» dell’occupazione di Trieste da parte slava (1945).

Per quanto riguarda più particolarmente l’Istria, si deve aggiungere che sulla sua annessione alla Croazia avevano pienamente convenuto a Pisino, sin dal 13 settembre 1943, i rappresentanti dei partiti comunisti italiano, jugoslavo e austriaco, con decisione confermata nel successivo novembre in sede AVNOJ (Consiglio Antifascista di Liberazione Nazionale della Jugoslavia).

Le rivendicazioni jugoslave nei confronti dell’Italia erano dunque chiare sin dalla fine del 1943 e sarebbero state ufficializzate anche a livello internazionale con il «Memorandum» del 18 settembre 1945. Invece, da parte alleata il futuro della questione triestina e del nuovo confine italo-slavo non fu preso in considerazione in alcuna conferenza delle grandi potenze svoltesi tra il 1943 e il 1945. Nei contatti che Tito ebbe in tale periodo con il Generale Alexander e con Sir Winston Churchill fu convenuto l’attestamento delle truppe jugoslave a Ovest della linea che da Fiume andava direttamente a Nord, senza pregiudizi per i confini futuri, ma la questione dell’occupazione militare della Venezia Giulia fu lasciata aperta. Tale mancanza di precisazioni, accompagnata dall’atteggiamento indeciso degli Anglo-Americani (che oltretutto avevano intendimenti diversi al proposito) doveva riflettersi pesantemente sulla futura sistemazione territoriale fra Italia e Jugoslavia permettendo a quest’ultima, con l’occupazione militare, di porre ipoteche che si sarebbero rivelate determinanti per l’annessione di gran parte dei territori stessi.

A fine conflitto la definizione delle frontiere nella regione era completamente aperta: gli Alleati non avevano un piano prestabilito e intendevano trattare la questione nel solo ambito della futura Conferenza di Pace, ma le anticipazioni della conflittualità erano già inequivocabilmente delineate e altrettanto chiaramente erano ormai percepite, con fatale ritardo, anche da parte americana e britannica.

Per quanto concerne l’Italia, il primo passo ufficiale presso gli Alleati dopo l’8 settembre, attinente alle zone di confine con la Jugoslavia, ebbe luogo il 10 giugno 1944, sei giorni dopo l’occupazione di Roma (nel quarto anniversario della dichiarazione di guerra) e prese forma in un «Memorandum» dove si sosteneva la necessità di inviare unità navali nei porti di Trieste, Fiume e Zara, e forze armate nei principali centri della Venezia Giulia utilizzando anche reparti italiani, in collaborazione con quelli anglo-americani. Il mancato accoglimento delle richieste italiane avrebbe dimostrato quanto contasse la nuova Italia democratica agli occhi degli Alleati: non a caso, nel diario di guerra del Generale Dwight Eisenhower, futuro Presidente Statunitense, si legge a tale proposito che «la resa dell’Italia fu uno sporco affare». Lo stesso Comandante Supremo delle Forze Armate Alleate aggiungeva che «tutte le Nazioni elencano nella loro storia guerre vinte e perse, ma l’Italia è la sola ad aver perduto questa guerra con disonore, salvato solo in parte dal sacrificio dei combattenti della Repubblica Sociale Italiana».

L’Italia del dopoguerra continuò a nutrire la speranza illusoria secondo cui la sua «cobelligeranza» – non fu mai considerata uno Stato in rapporto di autentica alleanza – le avrebbe consentito di porsi tra i «vincitori» del nazifascismo: non a caso, Aldo Moro nel trentennale della Resistenza sosteneva ancora che l’Italia non aveva perduto la guerra, ma l’aveva vinta per merito della Resistenza medesima. Dal canto suo, il 24 luglio 1947, Benedetto Croce aveva invano ricordato all’Assemblea Costituente che «noi Italiani abbiamo perduto una guerra e l’abbiamo perduta tutti», compresi tutti «coloro che furono perseguitati dal regime che l’ha dichiarata, consapevoli come eravamo tutti che la guerra sciagurata, impegnando la nostra Patria, impegnava anche noi, senza eccezioni, noi che non possiamo distaccarci dal bene e dal male della nostra Patria né dalle sue vittorie né dalle sue sconfitte». Ciò, aggiungeva il filosofo dell’idealismo italiano e massimo storico dell’epoca, «è pacifico quanto evidente».

Le richieste contenute nel citato «Memorandum» del 10 giugno 1944 furono rinnovate in agosto e settembre, ricevendo l’assicurazione dell’Ammiraglio Stone, Capo della Commissione di Controllo Alleata in Italia, che erano state portate a conoscenza del Comando Supremo Alleato, il quale aveva l’intenzione di mantenere sotto il Governo Militare Alleato Bolzano, Gorizia, Trieste, Fiume e Pola, unitamente ai loro territori provinciali. Tuttavia si precisava, in modo eloquente, che le disposizioni finali circa le zone in parola e il tracciato delle frontiere, erano una questione da decidersi nella determinazione dell’assetto post-bellico.

Dopo il successivo incontro fra Tito e il Generale Alexander, e col precipitare degli eventi sui campi di battaglia, Alcide De Gasperi avrebbe iniziato nel marzo 1945 un’azione diplomatica nei confronti degli Americani per ottenere l’occupazione alleata di tutta la Venezia Giulia. Washington rispose affermando subito che la questione territoriale sarebbe stata risolta in sede di Conferenza della Pace, che i territori giuliani sarebbero stati occupati dalle truppe anglo-americane fino ai confini del 1939 – cosa che non avvenne – e che non era in essere alcun accordo al riguardo con Mosca. Implicitamente, era sottinteso che gli altri territori dovevano ritenersi abbandonati alle pretese della Jugoslavia, e che la dura legge del vincitore avrebbe colpito senza remore, iterando – dopo oltre due millenni – la terribile sentenza di Brenno: «Guai ai vinti!».

Nella fondamentale distinzione tra lo «status» di Stato vincitore alla fine della Grande Guerra, appartenente all’Italia, e quello di Paese vinto a conclusione del Secondo Conflitto Mondiale, non è difficile cogliere un’analogia di trattamento discriminante su cui conviene riflettere, se non altro per quanto concerne la costante incapacità di una più matura autotutela, manifestata da parte italiana in entrambe le circostanze. Da un lato, ciò si deve attribuire alla storia lungamente divisiva e nello stesso tempo alla realtà unitaria scaturita da non pochi compromessi, e dall’altro, all’improvvisazione con cui l’Italia avrebbe scelto di scendere in campo nel 1940, resa più tragica dalla guerra civile, sovrapposta a quella precedente, dopo l’armistizio del 1943.

Del resto, un acuto osservatore diplomatico di origine dalmata come l’Ambasciatore Gianfranco Giorgolo ha posto opportunamente in luce che l’Italia, a prescindere da tempi, luoghi e vicende specifiche, è stata sempre «maestra nel fare gli interessi degli altri» in una sorta d’improvvido lassismo che la dice lunga, nella migliore delle ipotesi, sulle improvvisazioni della sua politica estera, dovute solo in parte all’inesperienza, perché indotte, in taluni casi, da connivenze e tradimenti.

In ogni caso, esiste un minimo fattore comune ravvisabile nella precarietà dell’idea nazionale e del senso dello Stato, supportata dal permanente individualismo di troppi cittadini italiani che non è facile esorcizzare nel breve termine, perché presume una maturazione delle coscienze e dell’amore patrio che richiede impegno civile, conoscenza della storia e consapevolezza dei propri doveri, ben prima di troppo conclamati diritti: un percorso ancora lungo.

(luglio 2024)

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