Missioni segrete nell’orrore delle Foibe
Carsiche
Una storia italiana degli anni Cinquanta:
testimonianze d’epoca a un settantennio dai fatti
Nell’autunno del lontano 1957, Carabinieri e Militari dell’Esercito Italiano in assetto di guerra entrarono in territorio jugoslavo, nell’ambito di varie missioni segrete, con lo scopo di esplorare alcune foibe dove erano state compiute esecuzioni sommarie durante la plumbea stagione della Seconda Guerra Mondiale, e nel corso di quella immediatamente successiva. Le operazioni indussero la visita di alcune cavità contenenti vari resti umani: si fecero riprese fotografiche, si portarono alla luce diversi reperti, e si produssero specifiche memorie informative. Le missioni, organizzate molto verosimilmente dal SIFAR, antenato degli attuali Servizi Segreti, erano state precedute da un’operazione di copertura preliminare in agro di Trieste, con la discesa nelle foibe di Monrupino e Basovizza, le sole a essere rimaste in territorio italiano dopo il trattato di pace. Ciò, come da successive rievocazioni di Mario Maffi, all’epoca giovane Ufficiale del Genio Pionieri Alpini inquadrato nella Compagnia «Orobica» di Merano, sceso materialmente nelle foibe, anche dopo sconfinamenti in Jugoslavia onde raccogliere ogni utile informazione, e arruolato nella missione in virtù della sua esperienza di speleologo e di esperto di esplosivi: la sua testimonianza ha potuto aggiungere nuovi elementi alla conoscenza di un capitolo particolarmente drammatico della storia giuliana, istriana e dalmata.
La vicenda comincia all’inizio dell’ottobre 1957. Allora, Presidente del Consiglio era Adone Zoli, Vice Presidente Giuseppe Pella, e Ministro della Difesa Paolo Emilio Taviani, in un Governo diretto dalla Democrazia Cristiana. Mario Maffi aveva 24 anni, e apparteneva a una famiglia con solide tradizioni militari: il nonno era stato ufficiale del Battaglione Monviso nella Prima Guerra Mondiale, mentre il padre era ufficiale all’Istituto Geografico Militare. La madre era stata partigiana, e lo stesso Maffi da bambino aveva operato come staffetta nella Resistenza. Quando fu chiamato a svolgere il servizio militare, scelse di fare l’ufficiale di complemento. Era anche uno speleologo esperto, tra i fondatori del Gruppo Speleo Alpi Marittime del CAI di Cuneo, all’interno del quale avrebbe svolto per lungo tempo attività speleologica e didattica. Dopo il servizio militare Mario Maffi sarebbe entrato alla FIAT, dove rimase fino al 1988, per essere collocato in pensione con un anno di anticipo perché il periodo passato a Trieste fu considerato come «missione di guerra».
Nell’autunno del 1957, al termine delle esercitazioni estive, Maffi fu convocato al Comando di Brigata. «Il Generale – raccontava più tardi – mi disse che per una certa missione serviva un ufficiale esperto di grotte e di mine; aggiunse che l’operazione era coperta dal più assoluto segreto militare, e che era volontaria; non ero obbligato ad accettare, tanto più che comportava anche un certo rischio». Maffi non ebbe dubbi, accettando subito l’incarico. Scrisse due lettere per i familiari affidandole al cappellano e pochi giorni dopo partì per la sua intrigante avventura senza che nessuno gli spiegasse dove stava andando, e senza che lui potesse fare domande. Alla fine del viaggio si sarebbe ritrovato nella caserma dei Carabinieri di Monfalcone, dove venne finalmente a conoscenza dell’incarico: avrebbe dovuto scendere, assistito dagli speleologi del Gruppo Grotte locale, nella foiba di Monrupino «per constatare o meno la presenza di spoglie umane, stimarne la quantità e documentarle con fotografie». Poi avrebbe dovuto fare lo stesso nella foiba di Basovizza.
Il giovane tenente non aveva mai sentito parlare di foibe, e anzi udiva quella parola per la prima volta. Maffi non sapeva nemmeno che l’esplorazione delle due cavità triestine non era altro che un’operazione di facciata, e che la vera missione, ben più pericolosa, doveva cominciare in tempi successivi. Del resto, sia il pozzo della miniera di Basovizza, sia la foiba 149, erano già stati esplorati in precedenza, e a più riprese.
L’ufficiale non pensava a tutto ciò nello scendere lungo i 126 metri della foiba di Monrupino. Assieme a lui procedeva un noto speleologo monfalconese, Giovanni Spangher. «Fui calato con una specie di seggiolino – ricordava il Maffi – e quando arrivai sul fondo mi sentii accapponare la pelle: tra il pietrisco su cui camminavo spuntavano ossa umane, una mandibola, alcune costole, e l’intero braccio di un bambino che avrà avuto non più di otto anni, viste le dimensioni delle ossa». Maffi scattava fotografie e prendeva appunti. Accertava che le pareti della grotta erano state fatte saltare con esplosivo, e ipotizzava l’esistenza di altri resti umani sotto i detriti: probabilmente, quelli «dei soldati tedeschi degenti all’ospedale di Trieste, che si diceva fossero stati gettati nella grotta prima di farla esplodere». Il giorno dopo, sarebbe stata la volta della seconda prospezione nella foiba di Basovizza.
La missione doveva essere segreta, ma in realtà era come se si svolgesse alla luce del sole, tanto che i giornali ne avrebbero riferito anche ampiamente, con tanto di nomi e cognomi. La discesa nel pozzo della miniera ebbe luogo con l’ausilio degli speleologi della Commissione Grotte «Boegan» delle Alpi Giulie. Stavolta per scendere e salire furono utilizzate le scalette, e Maffi avrebbe impiegato quasi un’ora solo per discendere i 130 metri di pozzo artificiale. «Sul fondo – avrebbe poi narrato – non c’era niente, soltanto immondizia; là dentro era stato scaricato di tutto, anche materiali bituminosi che avevano lasciato una specie di bava saponosa sulle pareti del pozzo; il fondo era melmoso e maleodorante; mi fu detto che i resti umani erano più sotto, coperti dal materiale di scarico; dov’ero io, peraltro, non c’era nulla, a parte una ruota di bicicletta e altre porcherie».
Maffi avrebbe eseguito scrupolosamente il proprio lavoro e sarebbe tornato in superficie concludendo la missione con una lauta cena offerta dall’Esercito a tutti gli speleologi, con brindisi e foto di rito. Il giorno dopo, la musica sarebbe repentinamente cambiata, con l’illustrazione a Maffi del nuovo piano operativo. Gli fu ordinato di non avere rapporti con chicchessia, di diffidare di chiunque, e di vestire abiti borghesi. I Carabinieri gli consegnarono documenti con falsa identità, precisando che doveva restare nella camera d’albergo e non muoversi. «Rimasi segregato un paio di giorni – disse successivamente – uscendo a passeggiare alla mattina mentre nel pomeriggio stavo chiuso in camera in attesa di ordini; poi mi fecero cambiare albergo».
Comincia la vera missione: «Ogni pomeriggio mi veniva consegnata una lettera normalissima con l’indirizzo scritto a mano; all’interno c’era una seconda busta sigillata con scritto “Da aprire solo dopo le ore x” e dentro quest’ultima c’erano le istruzioni alle quali dovevo attenermi». Per quattro notti consecutive tutto si svolge nello stesso modo. All’ora convenuta il tenente Maffi apre la busta, verso le 23 esce dell’albergo e seguendo le istruzioni raggiunge un’auto civile con persone in borghese. Nessuno parla, nessuno chiede nulla. L’auto raggiunge una zona poco frequentata, sempre diversa, dove si trova in attesa una «Matta», la camionetta dei Carabinieri. Maffi si avvicina e pronuncia la parola d’ordine, cui si risponde con la contro-parola, e quindi l’ufficiale salta sul mezzo. «Mentre la camionetta procedeva – ricorda Maffi – mi cambiavo indossando tuta, elmetto, scarponi, cinturone con pistola e due caricatori, uno innestato e uno in fondina; a fine corsa scendevo, e scortato da due Carabinieri armati, ma senza mostrine e gradi, proseguivo per un lungo tratto fra le sterpaglie; a un certo punto i miei accompagnatori si fermavano e piazzavano il mitragliatore pesante in postazione, mascherandolo con alcuni rami; messi i colpi in canna un solo milite, strisciando con me, mi indicava il percorso fino a quando potevo individuare nel buio la dolina prescelta; da lì proseguivo da solo fin all’orlo della foiba».
Il tenente ha in dotazione due spezzoni arrotolati di scala da dieci metri l’uno; senza fare il minimo rumore per non essere scoperto dalle pattuglie jugoslave fissa la scala a un appiglio sicuro, poi scende nella foiba senza strumentazione di sicurezza: anche per questo, il rischio è tutt’altro che marginale.
Arrivato sul fondo della foiba documenta quanto vede, poi torna su con la massima cautela. Recupera le scale, le arrotola e strisciando raggiunge il compagno non prima di aver lanciato il segnale convenuto, «un fischio a imitazione del verso del gufo». «Questa prassi – come da testimonianza di Maffi – si sarebbe ripetuta per quattro notti durante le quali visitai quattro foibe diverse, tutte oltre la linea del confine; mi avevano detto che le imboccature potevano essere minate, ma solo una volta mi imbattei in un oggetto che poteva essere proprio una mina, e gli girai al largo».
Maffi aveva riscontrato l’esistenza di «diversi resti umani, non in quantità esorbitanti ma, purtroppo, in condizioni atroci: alcuni teschi con lo sfondamento della nuca, mani o piedi avvolti da filo spinato, la stessa situazione su una cassa toracica; trovai uno scheletro rannicchiato in un anfratto: quel poveretto doveva essere ancora vivo quando fu scagliato nell’abisso; alcuni avevano lembi di divise militari o vestiti civili, per altri non c’era traccia di indumenti; ricordo un cranio con i capelli lunghi, probabilmente una donna; in tutte e quattro le foibe era stato usato l’esplosivo».
La mattina dopo la quarta sortita, Maffi fu svegliato dal portiere dell’albergo: «Mi disse che un certo signore mi aspettava nella hall; era un segnale convenuto, significava che dovevo lasciare l’albergo in tutta fretta, perché il controspionaggio era venuto a sapere qualcosa». Due giorni dopo il tenente Maffi sarebbe stato di nuovo a Merano: in caserma avrebbe stampato le fotografie, facendone anche copia per sé, e avrebbe scritto il suo rapporto, notando che almeno per le foibe visitate, a cominciare da quelle in agro di Trieste, era impossibile organizzare un razionale ed esaustivo recupero delle salme e dei reperti, non soltanto umani.
La storia della missione segreta del tenente Maffi termina qui, senza alcun altro elemento informativo. Lo speleologo piemontese non avrebbe saputo mai indicare quali furono esattamente le cavità da lui visitate in Jugoslavia, né i motivi per cui il Governo Italiano aveva deciso di intraprendere quella missione, e neppure dove si sarebbero trovati i documenti relativi all’intera operazione. Questa, caso mai, è materia storica. In effetti, Maffi sapeva solo che dopo il congedo e una vita dedicata al lavoro nelle officine della FIAT, il ricordo di quella missione da 007 gli era rimasto impresso nel fondo dell’anima, e che quando sentiva pronunciare la parola «foiba» veniva preso da un nodo alla gola, e da una sensazione di insopprimibile disagio.
Per concludere, a leggerla oggi si tratta di una deposizione piuttosto deludente, se non altro per il carattere approssimativo delle missioni, all’insegna di un dilettantismo organizzativo non certo imputabile al Maffi, bensì alle alte sfere che avevano programmato l’iniziativa senza autentici obiettivi strategici e tattici, col solo risultato di mettere a repentaglio la vita del protagonista e di avere conferma di una realtà ormai assodata e dimostrata: quella delle foibe come luogo di morte orribile e d’ineludibili sofferenze atroci prima della fine, senza alcun risultato di qualche rilevanza neppure dal punto di vista delle operazioni militari.
Alla luce della testimonianza di Maffi, in ogni caso preziosa perché oggettivamente unica nel suo genere, emerge la consapevolezza di una realtà delle foibe quali strumenti di torture, che ormai è largamente noto essere state utilizzate, soprattutto da parte jugoslava, quale strumento di tortura, e conseguentemente di terrore per coloro che avevano la sventura di conoscerle e di trovarvi una fine troppo spesso lunga, atroce, e conseguentemente allucinante. In questo senso, è giusto che la loro memoria sia entrata a far parte della comune informazione con tutti i dettagli di una grande tragedia collettiva e di un genere umano ritornato alla stagione degli antichi «bestioni tutta ferocia» di cui all’immaginifica descrizione di Giambattista Vico. In sintesi, si tratta di una pagina di storia su cui riflettere compiutamente, per la sua natura disumana e per la negazione di ogni valore civile.