Giustizia partigiana jugoslava
Riflessioni sulle sentenze jugoslave
dell’immediato dopoguerra (1945)
Quasi sempre, il sistema giudiziario dei vincitori è privo delle opportune garanzie, fatta eccezione per quelle a loro vantaggio, e di ogni pur minima conformità alle regole fondamentali del diritto. Nel caso della Jugoslavia, quello adottato nel 1945, e protrattosi per parecchio tempo, fu largamente travolto dalla cosiddetta giustizia sommaria, in cui i comandi partigiani erano arbitri della vita e soprattutto della morte, come attestano, per la sola parte relativa al genocidio perpetrato a danno degli Italiani[1], le 20.000 vittime infoibate o diversamente massacrate, per non dire dei 350.000 esuli da Istria, Fiume e Dalmazia.
In alcune fattispecie, peraltro largamente minoritarie, la Jugoslavia ritenne utile dare una parvenza di copertura formale alla liquidazione dei «nemici del popolo». Ne scaturirono alcuni processi la cui sentenza era scritta a priori, come quelli a carico di martiri «eccellenti» tra cui Stefano Petris, ultimo eroico difensore di Cherso Italiana ed estensore di un nobilissimo testamento spirituale, passato per le armi a Fiume verso la fine del 1945, e Vincenzo Serrentino, ultimo eroico Prefetto di Zara, fucilato nel 1947 a Spalato, addirittura come «criminale di guerra». Non mancarono fatti ancora più aberranti, come i processi postumi intentati contro alcune vittime, non tanto per confermarne le condanne a morte già eseguite dalla «giustizia popolare» quanto per statuire la confisca dei loro beni e dare una sembianza di legittimazione al furto programmato.
Non mancano alcuni casi meno noti, che tuttavia è congruo approfondire, se non altro per meglio comprendere la prassi della giustizia partigiana. Un esempio probante è quello del processo tenutosi il 2 giugno 1945 presso il Tribunale Militare di Fiume nei confronti della trentenne Virginia Mengotti Messori, e concluso con la condanna capitale, puntualmente eseguita nel breve termine, assieme alle pene accessorie della perdita di tutti i diritti civili e della confisca dei beni[2].
La signora Mengotti Messori era accusata di essere una «spia dei fascisti e della Gestapo» e di avere denunciato alcune persone, tra cui un carabiniere italiano «che intendeva unirsi ai partigiani» (in effetti, detto personaggio, fidanzato con una «drugariza» slava, venne arrestato ma evidentemente senza conseguenza veruna, visto che ebbe modo di deporre contro l’imputata nel procedimento in questione). Va aggiunto che la condannata, come emerge dagli atti, era rea confessa: ma non è azzardato immaginare a fronte di quale istruttoria, compiuta nel primo durissimo mese di occupazione partigiana (le forze di Tito erano giunte a Fiume all’inizio di maggio).
Per comprendere meglio questa triste storia, vale la pena di leggere le motivazioni della sentenza da cui emerge testualmente che il «tribunale non ha ottenuto prove concrete del fatto che qualcuno, in seguito alla denuncia dell’imputata, sia stato fucilato od abbia subito gravi conseguenze». Nondimeno, la responsabilità oggettiva della signora Mengotti Messori restava «sufficiente a fondare la suddetta pena» in quanto (per quei giudici) era congruo «supporre che qualcuno, in base a simili tesi spionistiche, abbia perso la vita od abbia gravemente sofferto».
Si rimane esterrefatti: la condanna venne pronunciata in base ad una semplice presunzione di reato, o meglio ad una supposizione del collegio giudicante. Sarebbe stato più razionale condannare sulla scorta della sola confessione che l’imputata, oltretutto incensurata e «benestante» (forse un’ulteriore colpa nell’ottica della «giustizia» partigiana), aveva reso durante l’interrogatorio, ma non è azzardato presumere che la Corte, consapevole dei metodi d’indagine tipici dell’epoca, intendesse integrare la «prova regina» con altre motivazioni supplementari.
Si deve aggiungere che non fu riconosciuta alcuna circostanza attenuante, mentre quali aggravanti vennero considerate la «cattiva condotta morale dell’imputata» e la sua «perseveranza nello spionaggio»: entrambe opinabili, da un lato perché la vita privata di Virginia Mengotti Messori non poteva costituire un fattore significativo ai fini del giudizio, essendo ininfluente il presunto rapporto affettivo con un ufficiale italiano, e dall’altro perché non erano emersi elementi probanti nemmeno circa la presunta iterazione del «reato».
Si tratta di un esempio di «giustizia partigiana» che non ha bisogno di troppi commenti, anche se le motivazioni per mandare la condannata davanti al plotone d’esecuzione risultano tali da consentire l’equiparazione della vittima ai martiri infoibati od altrimenti massacrati durante la lunga mattanza a danno degli Italiani e di tutti coloro che non erano allineati al nuovo verbo.
Nel 1952, una Corte Tedesca provvide alla riabilitazione del Feldmaresciallo Jodl, che nel maggio 1945 aveva firmato la resa della Germania e che l’anno dopo sarebbe stato impiccato a Norimberga con l’infamante accusa di avere compiuto «crimini di guerra»[3]. A quando analoghe pronunzie di pur esclusiva valenza morale da parte ex-jugoslava, o, in mancanza, da parte italiana, se non altro quale riconoscimento postumo di palesi ingiustizie? A quando la restituzione delle spoglie mortali del Senatore Riccardo Gigante e degli altri martiri di Fiume soppressi a Castua quali «nemici del popolo»? A quando una più matura e completa consapevolezza critica del buon diritto, umano e civile, ad un’oggettiva revisione dei giudizi storici?
1 Italo Gabrielli, Istria Fiume Dalmazia: Diritti negati – Genocidio programmato, Lithos Stampa, Udine 2011. La piena applicabilità dell’assunto al contesto istriano, fiumano e dalmata vi è mutuata, in particolare, dalla dottrina che si richiama al giurista polacco Raphael Lemkin.
2 Per maggiori dettagli sul «processo» a carico di Virginia Mengotti Messori, tenutosi presso il Tribunale Militare di Fiume (Presidente Zlatko Matkovic, giudici Marcelo Kovacic e Josip Susic, segretario Karl Jezine, interprete Arturo Farina), confronta C’era una volta Fiume, a cura di Massimo Gustincich, Roma 2016, pagine 351-356.
3 Giova ricordare che il sepolcro del Feldmaresciallo Jodl, in faccia alle limpide acque bavaresi del Chiemsee, presso Prien, continua ad essere omaggio dei suoi vecchi soldati e di quanti ritengono doveroso rivolgere una preghiera, o lasciare un fiore sul marmo che ne custodisce le spoglie.