Dieci febbraio: foibe ed esodo da Istria, Fiume, Dalmazia
Per non dimenticare

Il «Giorno del Ricordo» istituito[1] dal Parlamento con voto quasi unanime per l’approvazione della Legge 30 marzo 2004 numero 92, assunse un valore particolare nelle celebrazioni del 2011, in occasione della concomitanza col 150° anniversario dalla fondazione dello Stato Nazionale Italiano. In effetti, il 17 marzo di ogni anno si celebra l’Unità, peraltro incompiuta, perché nel 1861, oltre a Venezia e Roma, mancavano Trento, Trieste, Fiume, Pola e Zara, che sarebbero state annesse dopo la Grande Guerra. Si tratta di un motivo in più per «ricordare» consapevolmente, e se del caso, per compiacersi di apprendere.

Col trattato di pace firmato a seguito del Secondo Conflitto Mondiale, l’Italia aveva perduto, grazie al «Diktat» – come da pertinente definizione delle inique imposizioni perpetrate a suo danno il 10 febbraio 1947, quale data simbolica, poi scelta dal legislatore per la dolorosa celebrazione di Esodo e Foibe – gran parte dell’Istria e tutta la Dalmazia, la cui sovranità fu trasferita alla Jugoslavia[2]. Quell’atto si traduceva in un momento storico eccezionale, dalle conseguenze umane, civili e giuridiche davvero rivoluzionarie, e confermate, se per caso fosse stato necessario, dalla grande ondata dei 350.000 esuli senza ritorno.

Nella fattispecie, si chiuse un secolo di storia difficile e sofferta che negli ultimi decenni dell’Ottocento aveva visto il progressivo avanzamento politico dell’irredentismo[3], accresciuto dalle tante vessazioni dell’Austria Imperiale – il cui territorio si estendeva fino alla costa adriatica – ai danni degli Italiani e in favore degli Slavi. In effetti, il nuovo Stato Italiano era considerato con mal celato sospetto, tanto che nel 1908 il Generale Conrad, Capo di Stato Maggiore Asburgico, avrebbe voluto procedere alla sua «liquidazione» approfittando del terremoto di Messina e Reggio Calabria, che aveva messo il Paese in ginocchio.

Nel 1919, a seguito della Grande Guerra e del mancato riconoscimento di molte promesse fatte all’Italia quattro anni prima[4] per promuovere la sua discesa in campo contro gli Imperi Centrali, la Dalmazia, diversamente dall’Istria, rimase irredenta con la sola eccezione di Zara e di alcune isole (Cherso, Lussino e Pelagosa). Nello stesso tempo, ebbe luogo la costituzione statuale della nuova Jugoslavia e gli Italiani di Veglia, Sebenico, Traù, Spalato e delle altre città costiere furono protagonisti del cosiddetto «esodo dimenticato». Erano riusciti a tollerare le persecuzioni austriache ma sapevano che il nuovo regime sarebbe stato ancora peggiore. Quanto a Fiume, dopo alterne vicende iniziate con l’Impresa Dannunziana del 1919-1920, si sarebbe riunita alla madrepatria soltanto nel 1924.

Il ventennio fascista, iniziato il 28 ottobre 1922, coincise con la presenza di forti attività clandestine in Istria e Trieste per opera degli Slavi[5] che avanzavano pretese anche sui territori ex austriaci trasferiti all’Italia. La repressione fu condotta prioritariamente nel campo economico[6] e in quello culturale, mentre i Tribunali Speciali all’inizio degli anni Trenta pronunziarono cinque condanne a morte nei confronti dei responsabili di atti terroristici, alcuni con vittime italiane. Le cose cambiarono significativamente soltanto dal 1937, con il nuovo patto di amicizia italo-jugoslava firmato dal Presidente Milan Stojadinovic e dal Ministro degli Esteri Galeazzo Ciano.

Nella primavera del 1941, quando l’Italia era già entrata in guerra da circa dieci mesi contro gli Alleati Occidentali, il colpo di Stato compiuto a Belgrado da elementi filo-britannici diede luogo all’improvviso cambiamento di campo da parte della Jugoslavia e gli Stati dell’Asse (Italia, Germania, Bulgaria e Ungheria) furono costretti all’intervento. La guerra ebbe una durata molto breve e si chiuse a favore dell’Italia con l’acquisizione delle nuove province di Lubiana, Spalato e Cattaro: gran parte della Dalmazia era finalmente redenta, con la sola eccezione dei territori che rimasero al nuovo Stato Croato, satellite dell’Asse.

Tuttavia, la fine della guerra non coincise con l’avvento della pace: ebbe rapido sviluppo la guerriglia contro le forze di occupazione, condotta sia dai reparti rimasti fedeli al Governo ufficiale in esilio (Cetnici), sia da quelle agli ordini del Maresciallo Tito, comunista croato formatosi alla scuola stalinista di Mosca. Questi fu talmente abile da farsi riconoscere nel 1944, da parte degli Alleati, quale unico rappresentante della «nuova» Jugoslavia[7].

Gli ultimi anni del conflitto (1943-1945) furono assai sanguinosi, con frequenti imboscate e rappresaglie, in condizioni rese più complesse dall’armistizio dell’8 settembre con cui il Regno d’Italia era uscito dal conflitto, dalla conseguente occupazione di Istria e Dalmazia per opera delle forze tedesche, e dalla costituzione della Repubblica Sociale Italiana[8].

In tale ultimo periodo ebbe inizio l’allucinante vicenda delle foibe – le cavità carsiche a imbuto, talvolta profondissime, che insistono sul territorio giuliano e dalmata – in due diverse ondate: la prima, del settembre-ottobre 1943, poi ridotta, a seguito della riconquista tedesca dei maggiori aggregati urbani; e la seconda, di maggiore consistenza, dall’aprile 1945 in poi, protrattasi ben oltre la fine della guerra.

Quello delle foibe (ma anche di fucilazioni, impiccagioni, annegamenti, e persino di lapidazioni) fu un disegno di pulizia etnica a danno degli Italiani, come avrebbero poi ammesso gli stessi maggiori luogotenenti di Tito, quali Milovan Gilas e Edvard Kardelj; ma nello stesso tempo fu un’esplosione di violenze indiscriminate a sfondo classista, cui collaborarono anche diversi comunisti di espressione italiana.

La tecnica delle uccisioni in foiba era particolarmente efferata: le vittime, già seviziate e torturate, erano fatte precipitare nell’abisso, talvolta legate tra di loro e ancora vive, e non sempre la morte era immediata. Fra gli episodi che sono diventati più conosciuti, si ricorda il sacrificio di Norma Cossetto, giovane studentessa ventiquattrenne, rifiutatasi di collaborare con gli Slavi[9], ripetutamente violentata e gettata nella foiba di Villa Surani dopo indicibili sofferenze nella notte del 5 ottobre 1943: il suo cadavere fu tra i pochi che vennero recuperati da una squadra di Vigili del Fuoco di Pola[10] dopo il temporaneo ritiro delle bande titoiste.

Salvarsi dalla foiba era sostanzialmente impossibile. Il miracolo si è verificato soltanto tre volte, per una serie di straordinarie combinazioni, e quindi in misura sostanzialmente irrilevante sia sul piano statistico, sia su quello politico[11].

La violenza si espresse anche attraverso delitti a carattere collettivo, quasi a rendere più evidente il tentativo di genocidio che era stato programmato. Fra le stragi più ragguardevoli anche sul piano delle cifre si ricordano quelle della motonave Lina Campanella carica di prigionieri italiani, affondata nel maggio 1945, e della spiaggia di Vergarolla nei pressi di Pola (agosto 1946), in cui perirono, complessivamente, oltre 250 persone[12]. Non meno tragiche furono le uccisioni compiute dai partigiani, dopo atroci sevizie, a danno di servitori della cosa pubblica, come i 97 Finanzieri ricordati nel «memoriale» di Basovizza o i Carabinieri di Cave del Predil massacrati nell’eccidio di Malga Bala.

Ben pochi furono i «processi» sia pure sommari improvvisati dai cosiddetti tribunali del popolo, che spesso esistevano soltanto sulla carta: le esecuzioni, in realtà, erano decise in modo discrezionale, il più delle volte, dai caporioni di turno.

Le vittime non avevano colpe di sorta: in genere, si trattava di persone appartenenti al mondo civile (pubblici funzionari, impiegati, operai, studenti, casalinghe) o di militari, segnatamente di basso grado, perché quelli più alti si erano già salvati con la fuga. Va aggiunto che nel «pogrom» non caddero solo gli Italiani, ma anche tantissimi Slavi che non condividevano il disegno totalitario di Tito.

L’estremo sacrificio vide grandi protagonisti come il Senatore Riccardo Gigante, uomo di alta probità che non volle abbandonare Fiume e mettersi in salvo, affermando che il suo posto era nella sua città e che non aveva da temere perché non aveva fatto male a chicchessia, salvo essere torturato e ucciso nelle campagne di Castua; come il Dottor Mario Blasich, leader del movimento autonomista e lontano da ogni «compromissione» fascista, strozzato nel suo letto di invalido perché si era rifiutato di avallare l’unione di Fiume alla Jugoslavia; come Stefano Petris, Eroe dell’ultima difesa di Cherso, fucilato col nome d’Italia in gola dopo avere scritto un nobilissimo testamento spirituale su una pagina della sua Imitazione di Cristo, unico conforto nella plumbea prigione titoista durante la notte prima dell’esecuzione.

Accanto a loro, furono parecchie migliaia le persone comuni, uomini e donne della «porta accanto», a essere uccise, spesso dopo sevizie allucinanti, in maniera indiscriminata, e generalmente senza alcun conforto, se non altro religioso.

Quante furono le vittime? Un calcolo preciso è impossibile, ma secondo le stime più autorevoli e documentate, tra cui quella di Luigi Papo, è ragionevole parlare di almeno 16.500 uccisioni. È tragico dover porre in evidenza che la maggior parte degli eccidi ebbe luogo a guerra finita, quando le stesse Trieste e Gorizia dovettero pagare un altissimo tributo di sangue[13] durante i famigerati «Quaranta giorni» di occupazione jugoslava (1° maggio-12 giugno 1945) al cui termine gli invasori dovettero ritirarsi dai due predetti capoluoghi, oltre che da Pola, a seguito degli accordi temporanei fra Tito e il Generale Alexander[14].

Alla vicenda delle foibe è strettamente connessa quella del grande Esodo Italiano, che alla fine coinvolse circa 350.000 persone e fu imposto dalla minaccia di violenze che potevano tradursi nella perdita della vita; dalle nuove condizioni di miseria aggravata dalle confische; e dalla mancanza di prospettive per un’esistenza tranquilla e dignitosa. Tutti persero tutto: case, terreni, beni materiali[15] e persino le tombe degli Avi, rimaste alla piena discrezione degli usurpatori nei 300 cimiteri che si erano dovuti abbandonare.

Un caso tragico e anche beffardo fu quello di Pola, che si era confidato di salvare, se del caso come «enclave» italiana, tanto più che il capoluogo istriano, al pari di Trieste, dal giugno 1945 era stato affidato al Governo Militare Alleato, sia pure limitatamente alla città. Invece, oltre un anno dopo, la Conferenza della pace di Parigi avrebbe deciso in senso contrario: la città rispose con un esodo pressoché totale – pari a oltre nove decimi degli abitanti – concentrato nel primo trimestre del 1947 con i tristemente noti viaggi del piroscafo Toscana che faceva la spola con Venezia e Ancona. Uno di questi trasporti, come ha testimoniato Lino Vivoda, che più tardi fu Sindaco di Pola in Esilio, avrebbe potuto terminare con una tragedia dalle dimensioni bibliche, peggiore di quella già avvenuta a Vergarolla, se non fosse stato scoperto un carico di esplosivo destinato a far saltare in aria la nave dopo la partenza.

Alla fine, oltre 28.000 cittadini di Pola, pari – per l’esattezza – al 93% della popolazione residente, avrebbero preso la via dell’esilio: se qualcuno avesse avuto ancora dubbi, sarebbero stati fugati dalla strage di Vergarolla di cui si è detto, ordita dall’OZNA, la polizia politica di Tito, come emerso ufficialmente nel 2008, a seguito dell’apertura degli archivi inglesi del Foreign Office[16].

L’Italia era in condizioni difficili, anche moralmente: gli esuli furono accolti in modo spesso iniquo, confinati in 110 «campi» dislocati su tutto il territorio nazionale – il potere centrale temeva[17] ogni loro eventuale concentrazione potenzialmente eversiva pur essendo noto il carattere tranquillo e spesso rassegnato del mondo esule – e costretti a vivere in condizioni subumane.

Non a caso, almeno un quarto dei profughi decise di emigrare verso Paesi lontani, quali le Americhe e l’Australia, dove molti avrebbero affermato con successo la dignità di un duro lavoro e di una straordinaria pazienza, conforme allo spirito cristiano della civiltà giuliana e dalmata, fondamento di 2.000 anni di storia, prima romana, poi bizantina e infine veneta.

Qualche esempio di accoglienza? A Bologna il treno dei profughi «fascisti» non fu autorizzato a sostare in stazione per consentire alla Pontificia Opera d’Assistenza di distribuire qualche genere di conforto, pena lo sciopero generale minacciato dai ferrovieri comunisti. A Venezia furono accolte con fischi e sputi persino le ceneri di Nazario Sauro, il Martire irredentista del 1916, vittima del capestro austriaco. Ad Ancona, lo sbarco esule avvenne con parecchie difficoltà innescate dalle grida ostili dei dimostranti, imponendo partenze immediate dei profughi verso i campi di raccolta. In Liguria, durante la campagna elettorale del 1948, i candidati del Fronte Democratico Popolare non esitarono a definire quali «banditi» gli esuli che avevano osato abbandonare il «paradiso di Tito» assieme a ogni loro avere[18], bollandoli quali «fascisti» della peggiore specie.

Molta acqua avrebbe dovuto passare sotto i ponti, e altre infamie si sarebbero dovute consumare, a cominciare dal trattato di Osimo del 1975, con cui l’Italia rinunziò senza contropartite all’ultimo lembo di terra istriana (Zona «B» del cosiddetto Territorio Libero di Trieste) e dal riconoscimento parimenti «gratuito» delle nuove Repubbliche di Croazia e Slovenia (1990), prima che un barlume di giustizia abbondantemente postuma vedesse la luce con la legge istitutiva del «Giorno del Ricordo».

Oggi, è giusto e doveroso affidare alla memoria collettiva un grande dramma della storia italiana che era stato colpevolmente dimenticato. Bisogna farlo, non già per un accademico esercizio culturale o per il pur commosso omaggio al sangue versato, ma perché sia chiaro che esiste un aggregato insopprimibile di valori umani, civili e patriottici per cui vale la pena di battersi sempre, perché appartiene al patrimonio spirituale dell’Italia, ora più che mai una, libera e indipendente.


Note

1 La legge istitutiva fu oggetto di approvazione da parte del Parlamento Italiano con un’opposizione nell’ordine dei due punti percentuali. Basti ricordare che alla Camera dei deputati i suffragi contrari, espressi soltanto dall’Estrema Sinistra, furono appena 15, mentre al Senato non si ebbero dissensi.

2 La firma del trattato, altrimenti definito «diktat» per sottolinearne il carattere di autentica imposizione, fu apposta dal Ministro Plenipotenziario Antonio Lupi di Soragna, il 10 febbraio a mezzogiorno. In quel momento, tutta l’Italia si fermò per dieci minuti, allo scopo di esprimere la protesta popolare nei confronti di una palese iniquità. Il trasferimento effettivo di sovranità ebbe luogo alla mezzanotte del 15 settembre 1947, quando una maggioranza plebiscitaria della popolazione italiana aveva già scelto la soluzione dell’esilio.

3 Quale momento particolarmente significativo nella storia giuliana e dalmata si deve ricordare la fondazione di «Italia Irredenta»: questa Società, costituita nel 1876 da Giuseppe Avezzana e Matteo Renato Imbriani, esponenti della Sinistra democratica, avrebbe avuto un ruolo importante in rivendicazioni che sul piano culturale traevano spunto da vecchie intuizioni nazionali e in particolare, dal pensiero di Gian Rinaldo Carli.

4 Il Patto di Londra, stipulato da Italia, Francia e Gran Bretagna nell’aprile del 1915, aveva garantito l’acquisizione del Trentino, dell’Istria e di una parte maggioritaria del territorio dalmata, ma sarebbe stato vanificato in sede di Conferenza della pace per l’opposizione degli Stati Uniti e per la volontà degli Alleati di dare vita a un forte Stato Jugoslavo.

5 Si ricordano, in particolare, le Associazioni segrete «Orjuna» e «Tigr» che, per l’appunto, furono protagoniste di attentati con vittime. I processi a carico dei responsabili videro la condanna a morte, dapprima di Vladimir Gortan, poi di altri quattro alloglotti, e con la comminazione di pene detentive. Dopo la Seconda Guerra Mondiale, tutti i condannati sarebbero stati ampiamente riabilitati.

6 Tra le opere di maggiore importanza realizzate dal Governo Italiano dopo l’acquisizione dell’Istria, devono ricordarsi per rilevanza prioritaria il grande Acquedotto che permise di risolvere un grande problema infrastrutturale, e l’impulso alle attività industriali, con particolare riguardo a quelle minerarie e trasformatrici, tradottosi, fra l’altro, nelle nuove «città di fondazione» (Arsia e Pozzo Littorio).

7 Gli Alleati abbandonarono al proprio destino il Generale Draza Mihajlovic, leader dei partigiani «bianchi» fedeli al Governo Monarchico in esilio, che a guerra finita sarebbe stato processato da una corte titoista e fucilato a Belgrado.

8 All’armistizio, firmato a Cassibile (Siracusa) il 3 settembre 1943 e reso di pubblico dominio con un ritardo di cinque giorni, fece seguito lo sfascio delle forze armate italiane, particolarmente accentuato in Jugoslavia, dove quelle di Tito ebbero un rapido sopravvento, eliso in misura limitata dal successivo avvento della Repubblica Sociale Italiana (23 settembre) e soprattutto dalla riconquista tedesca dell’Istria e di parte della Dalmazia, compiuta in ottobre e rimasta in vigore fino all’aprile 1945.

9 Norma Cossetto, assurta a simbolo del martirologio giuliano e dalmata, è stata insignita della laurea «honoris causa» da parte dell’Università di Padova, a iniziativa di Concetto Marchesi, Rettore comunista dell’epoca; e della Medaglia d’Oro al Merito, da parte del Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi.

10 La squadra era comandata dal Maresciallo Arnaldo Harzarich che riuscì a recuperare parecchie vittime portandosi nella foiba di Vines, a una profondità massima di oltre 140 metri. Di tale opera lasciò un’esauriente memoria; più tardi, fu costretto al rapido esodo per sottrarsi alla persecuzione degli Slavi che non gli perdonavano di avere comprovato l’efferatezza di tante uccisioni indiscriminate.

11 Il salvataggio più noto è quello descritto da Graziano Udovisi, poi esule a Reggio Emilia, che riuscì a evitare la morte in foiba perché trattenuto da un arbusto all’atto della caduta, a breve distanza dall’inghiottitoio. Liberatosi con indicibili sofferenze del filo spinato che gli stringeva i polsi, ebbe la ventura di guadagnare l’uscita assieme a Giovanni Radeticchio dopo alcune ore di attesa angosciosa e di tornare a Pola, ancora occupata dagli Alleati, evitando fortunosamente le pattuglie slave. La terza superstite, riuscita a riemergere da una forra del Goriziano fu la Professoressa Giulia Venezia, che peraltro sopravvisse brevemente a causa delle gravi ferite riportate con la precipitazione.

12 Particolarmente atroce fu l’eccidio di Vergarolla, compiuto in una domenica d’estate (18 agosto) durante la festa natatoria della «Pietas Julia», a un anno e mezzo dalla fine della guerra. Furono fatte esplodere 29 bombe di profondità contenenti nove tonnellate di tritolo, stoccate nelle vicinanze e già disinnescate dagli Alleati: le vittime, in maggioranza donne e bambini, per un’età media di ventisei anni, furono massacrate, tanto da renderle spesso irriconoscibili. Si trattò di un atto perentorio a carattere criminale, compiuto per convincere anche gli ultimi incerti circa la «necessità» della fuga e del conseguente esodo di massa.

13 Nelle sole Trieste e Gorizia si contarono migliaia di scomparsi: molti trovarono la morte in foiba, segnatamente a Basovizza e Monrupino, nelle immediate vicinanze del capoluogo giuliano. Altri furono fucilati o deportati nei campi di prigionia della Jugoslavia, tra cui quelli tristemente noti di Borovnica, Lubiana, Skofja Loka, Stara Gradiska, Mitrovica e Isola Calva, da dove tornarono in pochi.

14 Meno di due anni dopo, gli accordi in questione furono annullati dal trattato di pace, con cui l’Italia si vide costretta a cedere alla Jugoslavia, oltre alla Dalmazia e a Fiume, la gran parte dell’Istria, sacrificando il 3% del territorio nazionale a tutto vantaggio di uno Stato che aveva contribuito in misura largamente minoritaria, e non senza forti dissidenze, alla vittoria dei 21 Alleati firmatari del «Diktat».

15 Gli esuli proprietari di beni furono meno di un terzo del totale, ma anche i nullatenenti fecero la medesima scelta plebiscitaria, che ebbe un carattere decisamente interclassista, a conferma delle pregiudiziali di natura civile e morale che vi presiedevano.

16 Oggi si conoscono anche i nomi degli esecutori materiali: si trattava di un gruppo di Italiani guidati da un disertore della Marina, che prendeva gli ordini direttamente dall’OZNA. È inutile aggiungere che la strage, al pari delle altre, è rimasta impunita: del resto, nei rarissimi casi in cui è stato possibile compiere un’istruttoria a carico di alcuni imputati come Ivan Motika e Oskar Piskulic, i processi non si celebrarono perché le Corti Italiane accolsero le eccezioni d’incompetenza territoriale, sebbene infondate perché la sovranità italiana sulle zone interessate era venuta a cessare soltanto il 15 settembre 1947.

17 Furono ipotizzate ma prontamente escluse le ipotesi di ricostituire importanti nuclei istriani nel Gargano e in Sardegna. Chi non aveva altre opportunità personali dovette rassegnarsi alla triste promiscuità dei campi di raccolta fra cui quelli, quantitativamente più importanti e tristemente noti, di Padriciano (Trieste), di Pradamano (Udine), delle Casermette (Gorizia), di Tortona (Alessandria) e di Laterina (Arezzo).

18 A esprimersi in questi termini fu Eros De Franceschini, che in un comizio tenuto a Camogli si spinse fino all’incredibile assimilazione dei «banditi giuliani» al «bandito Giuliano» che all’epoca infestava la Sicilia con la sua temuta banda.

(febbraio 2025)

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