La decadenza del sistema industriale italiano
Successi e crisi della motorizzazione della Nazione

Dopo la crisi italiana della multinazionale Stellantis, esplosa recentemente, un’altra notizia poco incoraggiante sulla salute del sistema manifatturiero italiano è venuta dall’Ape, il noto motociclo della Piaggio, che è volata via verso l’Asia, seguendo la precedente analoga sorte dello scooter Vespa.[1] La casa di Pontedera (Pisa), dopo quasi 80 anni di attività nei quali aveva prodotto due milioni di esemplari, cessa la produzione di questo motocarro a tre ruote, che d’ora in poi verrà prodotto solo in India.

Purtroppo il settore locomotorio dell’industria italiana è dipendente, ai giorni nostri, dalle importazioni, e a niente è valso il primato mondiale del primo motore a scoppio che fu progettato e sperimentato nel 1853 proprio in Toscana e ancora più precisamente a Lucca, per merito dei due scienziati Eugenio Barsanti e Felice Matteucci.

Per assistere alla sua rivoluzione industriale l’Italia, come noto, avrebbe dovuto attendere l’epoca giolittiana di fine ’800. Nel secolo successivo, all’inizio degli anni Trenta, la nostra motorizzazione era ancora lontana da quello sviluppo «di massa» conosciuto negli Stati Uniti d’America e in Europa. Oltre che della generale scarsità di mezzi di un’economia basata in prevalenza sull’agricoltura, la situazione era aggravata dalle spese militari sostenute nei primi decenni del Novecento, che avevano prosciugato gran parte delle già scarse disponibilità destinate ai consumi interni. La guerra del 1915-1918 aveva ulteriormente depresso l’economia, riducendo in miseria vasti strati della popolazione. Nel decennio tra il 1920 e il 1930 si assisteva a una vera e propria falcidia di quelle industrie motoristiche che, pur potenzialmente valide sul piano tecnico, cessate le commesse militari non riuscivano a riconvertire la loro attività. La ricerca di un’auto utilitaria di larga diffusione che potesse ridare fiato all’economia e alle industrie nazionali si scontrava con le ristrettezze economiche di vasti strati sociali non esclusa, comunque, la mentalità tipica degli Italiani che da sempre (ancora oggi) considerano l’auto uno «status symbol» e difficilmente sono disposti ad acquistare una vettura modesta, dall’apparente fragilità, magari con la carrozzeria in legno e tela. Al contrario di quanto avveniva, in quegli anni, in Francia, Germania e Gran Bretagna, anch’esse alle prese con i problemi derivanti dall’ultimo conflitto e dalla crisi americana del ’29, ma dove l’auto era considerata solo un mezzo di trasporto. L’industria motoristica nazionale sopravviveva essenzialmente, negli anni ’20, grazie alle esportazioni che all’inizio del decennio raggiungevano circa il 60% della produzione. Proprio in previsione di un successo all’estero, oltre che di un incremento delle vendite sul mercato interno, la FIAT – maggiore industria motoristica nazionale attiva non solo nel settore dell’auto – nel 1919 usciva con un modello di vettura che segnava una pietra miliare, in relazione ai tempi, nella diffusione della motorizzazione: la 501. Prodotta fino al 1926, veniva in pratica sostituita dalla 509, modello veramente utilitario anche nei consumi. Al cessare della produzione della 509, nel 1929, era immessa sul mercato la 514, fino al 1932, quando compariva sul mercato quella che è ancora oggi ricordata come la più famosa utilitaria della FIAT (prima della Topolino): la Balilla. Il regime fascista, ormai consolidato, all’inizio del terzo decennio del ’900 perseguiva una politica tendente a far riconoscere all’Italia una serie di primati che ne avvicinassero il prestigio a quello delle altre Nazioni Europee, ma per quanto riguardava la motorizzazione privata si era ancora ben lontani dai numeri esibiti da queste ultime. Inoltre le esportazioni, in conseguenza della crisi del ’29, si erano drasticamente ridotte subendo un durissimo colpo dalla politica deflazionista, simboleggiata dalla «quota 90», ossia dalla rivalutazione, fino a tale livello, della lira nei confronti della sterlina.[2] La FIAT provava a stimolare il mercato con la 508 «Balilla» e poi con la 509, raggiungendo più ampi strati della popolazione. La circolazione delle automobili private aumentava, anche se su un livello ancora insufficiente. Occorreva attendere il perfezionamento della 508 con il modello a quattro marce e poi, nel 1937, la nuova «Balilla 1100», chiamata anche ufficiosamente «1100 musone», che sarà uno dei modelli FIAT più fortunati. La nascita nel 1936 della 500 «Topolino» permetterà alla motorizzazione privata l’avvicinamento a un pubblico più vasto. Questo fino all’inizio del Secondo Conflitto Mondiale, nel 1940, che azzererà i progressi raggiunti.

Dopo la catastrofe bellica l’Italia si ritrovava, nel 1945, con un reddito nazionale ridotto alla metà di quello del 1938. Ancora nel 1946 il Meridione era percorso da treni che procedevano a passo d’uomo, fra un ponte semidistrutto e un campo minato, l’acqua era venduta a caro prezzo, a Sud di Latina era tornata la malaria e l’Appennino era infestato dal brigantaggio. Anche a Lucca si conobbero le vicende della famigerata Banda Fabbri, responsabile di una lunga serie di rapine, nonché del «delitto dell’autostrada», in cui persero la vita l’ingegnere Ciurlo e il ragioniere Sogno e dell’eccidio di Anchiano di cui furono vittime i fratelli De Paoli e l’industriale Pecile di Udine.

Eppure, in pochi anni, l’Italia si risollevava dalle distruzioni e iniziava un cammino di riscatto dalla miseria. Grazie agli aiuti internazionali, alla liberalizzazione del commercio con l’estero degli anni Cinquanta, alla volontà e alla fantasia italiana, in poco più di un decennio l’economia giungeva al «miracolo economico» degli anni ’60. L‘aumento delle importazioni di petrolio e del consumo di altre materie prime indicavano la rapida espansione dell’uso dei mezzi automobilistici. In questo periodo si verificarono spostamenti di popolazione mai riscontrati prima. Il numero delle patenti di guida rilasciate ogni anno, nel periodo che va dal 1952 al 1962, passò da 225.099 a 1.250.400 e solo nel 1962 furono rilasciate 531.200 patenti nuove, che raddoppiò in pratica il numero esistente nel 1960. Le strade italiane, che erano assolutamente inadeguate, vennero migliorate con la realizzazione dell’Autostrada del Sole, che collegava Milano a Salerno. Nell’ottobre del 1964, quando fu completata, erano già iniziati i lavori per la sua estensione da Salerno a Reggio Calabria e altre autostrade erano in fase di progettazione, o di appalto, o erano già in costruzione.

Gli automezzi lasciati in Italia dalle truppe americane dettero, poi, un fondamentale aiuto. Per almeno tre anni dalla fine della guerra l’industria automobilistica italiana non fu in grado di produrre mezzi sufficienti. In un Paese distrutto, l’afflusso immediato di jeep, Dodge, camion ribaltabili o variamente attrezzati, rimorchi, pneumatici, motocicli, fece riscoprire l’automezzo a moltitudini ferme alla trazione animale, favorendo la ripresa economica.

Le officine meccaniche si diffusero di conseguenza e permisero sufficienti manutenzioni degli automezzi. I mercati erano riforniti sempre più tempestivamente e l’economia poté mantenersi su alti livelli di sviluppo, offrendo maggiori opportunità per tutti.[3]

A portare una ventata di dinamismo e di libertà per migliaia di persone, che poterono scoprire luoghi mai visti prima e arricchire le proprie esperienze, contribuirono gli scooter Vespa della Piaggio e Lambretta della Innocenti, veicoli accessibili alle tasche di molti Italiani, che aiutarono il Paese a «camminare con le proprie gambe» (sarebbe meglio dire «sulle proprie ruote»).

La storia della Piaggio aveva avuto una svolta nel dopoguerra, quando il 23 aprile 1946, su progetto dell’ingegnere Corradino D’Ascanio, veniva brevettato uno scooter il cui nome diverrà famoso, quasi un sinonimo di «Piaggio»: cioè la Vespa. Il primo progetto per questa moto fu prodotto a Pontedera nel 1946 e il nome fu coniato da Enrico Piaggio (figlio di Rinaldo, il fondatore dell’azienda nel 1884), il quale di fronte al prototipo del nuovo mezzo esclamò «Sembra una vespa!» per la sua somiglianza con il fastidioso insetto, in particolare per il ronzio del suo motore. Soltanto a partire dal 1948, con l’uscita della Vespa 125, il veicolo registrò un successo di pubblico, toccando nel 1988 il traguardo dei dieci milioni di esemplari prodotti.

Nel 1948 era nato anche il veicolo a tre ruote dal nome di un altro insetto: l’Ape, che per la sua versatilità troverà varie applicazioni pratiche: l’Ape risciò, l’Ape cassone, l’Ape taxi, l’Ape calessino. L’altro artefice di questo clima più fiducioso nel futuro fu Ferdinando Innocenti, nato il 1° settembre del 1891, a Pescia, nella Val di Nievole, che allora era parte integrante della Lucchesia. Il suo nome è legato a un capitolo forse poco conosciuto dell’industrializzazione italiana e della sua figura di imprenditore innovativo, anche socialmente e politicamente impegnato, merita trattarne in altro articolo. Egli aveva trovato l’ingegnere giusto nella figura di Pierluigi Torre, che viene considerato il padre della Lambretta, nata come «un tubo con un motore e due ruote». Nel 1947 lo scooter è pronto e viene lanciato sul mercato (nel 1953 raggiungerà l’apice delle vendite). Di buon successo fu anche la produzione dei motocarri Lambro (dal nome del fiume lombardo dove aveva sede l’azienda), molto apprezzati sui mercati esteri.

Ferdinando Innocenti morì a Varese il 21 giugno 1966. Il figlio Luigi cedette dapprima la sezione meccanica pesante dell’azienda e in seguito, nel 1972, anche la sezione «automobili»; nello stesso anno, tutti gli impianti e i macchinari di Lambrate per la produzione della Lambretta furono acquistati dalla Scooters of India Limited, azienda di Stato con sede a Lucknow, capitale dell’Huttar Pradesh.[4]

Oggi, in un preoccupante quadro di declino produttivo e di incerte prospettive, sembrano «venuti al pettine quei nodi» della mancata «programmazione economica» richiesta al Governo da quel Ministro attento e rigoroso che fu Ugo La Malfa, il quale metteva in guardia – con la sua «nota aggiuntiva» al bilancio dello Stato del 22 maggio 1962 – sul fatto che lo sviluppo del decennio postbellico passato non sarebbe continuato a lungo se non si fossero gestite le risorse del Paese in modo oculato (in particolare, per superare i problemi delle aree depresse). Invece accadeva il contrario: crescita incontrollata dei consumi privati, mancato controllo della spesa pubblica, sperperi che si moltiplicavano a tutti i livelli (evasione fiscale, assunzioni clientelari, posti di lavoro fittizi a carico del bilancio pubblico, record di pensioni di invalidità eccetera). Si parlò allora del fenomeno della «giungla dei redditi» che bloccò ogni programmazione per uno sviluppo corretto e omogeneo, dove molte categorie professionali guadagnavano assai di più delle omologhe dei Paesi Europei, il reddito nazionale dei quali era molto superiore al nostro. In particolare il fenomeno fu evidente nella dirigenza economica, nel giornalismo e in particolare nel mondo della medicina.

La nazionalizzazione dell’energia elettrica, che avvenne in quegli anni, la dice lunga sulla mancata oculatezza: appena messo su l’Enel, 60 miliardi partirono subito in aumenti di stipendi e di salari. Anche i sindacati non furono all’altezza della situazione prendendo a modello i salari dei Tedeschi, per parificare a essi quegli degli Italiani, non capendo che i salari alti erano il punto di arrivo e non di partenza. Fu detto che l’Italia faceva le riforme con spirito corporativo (non nell’interesse generale, ma di certi gruppi di potere) e quindi esse diventavano controriforme.[5]

Il quadro complessivo oggi è appesantito da modelli illusori di consumismo esasperato, che indeboliscono ancora di più una società sempre più pavida e viziata, alle prese con colossali problemi: prima la pandemia e poi le guerre che minacciano di sfociare in un terzo conflitto mondiale. Il futuro è preoccupante per l’Occidente e per l’Europa (divisa al suo interno) che sembra non avere una politica estera efficace per fronteggiare lo strapotere produttivo di USA e Cina (e di non possedere un adeguato esercito per difendersi da eventuali aggressioni). Per l’Italia, in particolare – priva di materie prime, senza fiumi navigabili, con poche pianure coltivabili, ad alta densità di popolazione, che si è sviluppata sostanzialmente con la manifattura di trasformazione –, si fa notare che la sua economia non può basarsi solo sull’utilizzo delle bellezze naturali, sul settore vacanziero, sugli affittacamere, sul «gastronomico», settori che sembrano giunti al punto di saturazione. Sempre un maggior numero delle nostre città scontano un flusso turistico incontrollato e sciatto che riporta alla mente i giudizi dello scorbutico Giosuè Carducci, sulla società della sua epoca: «Papalina, torpida, trafficona, scettica, […] che vende(va) di tutto, coscienza, santità, erudizione, reliquie false di martiri» – simbolo di «un’opacità del presente», che era per il poeta «più degno invero di un popolo di eunuchi che non di robusti e dignitosi Italiani».


Note

1 «Corriere della Sera», lunedì 9 dicembre 2024, pagina 52, «Corriere Motori»: Giorgio Terruzzi, Il contadino, il muratore e Valentino. L’anima della 3 ruote resta immortale.

2 La rivalutazione della lira, attuata nel 1926 per volontà di Mussolini, fissò il cambio a 90 lire per una sterlina. La rivalutazione della nostra moneta contribuì, da un lato, a consolidare in alcuni ceti sociali la popolarità del regime, ma dall’altro, penalizzò le industrie, in particolare quelle che dipendevano dall’esportazione dei propri prodotti sui mercati internazionali.

3 Confronta Norman Kogan, Storia politica dell’Età Repubblicana, Laterza, Roma-Bari, 1982.

4 Confronta Roberto Pizzi, Conoscere Lucca. Industria e prodotti del Territorio, Maria Pacini-Fazzi editore, Lucca, 2019.

5 Confronta Alberto Ronchey, La Malfa. Intervista sul non Governo, Laterza, Bari, 1977.

(gennaio 2025)

Tag: Roberto Pizzi, decadenza del sistema industriale italiano, Stellantis, Ape, Piaggio, Vespa, Pontedera, Eugenio Barsanti, Felice Matteucci, industria motoristica nazionale, FIAT, 501, Topolino, Balilla, quota 90, automobili private, Autostrada del Sole, Lambretta, Corradino D’Ascanio, Enrico Piaggio, Ferdinando Innocenti, Pierluigi Torre, Lambro, Ugo La Malfa, giungla dei redditi, Giosuè Carducci.