30 aprile 1945-30 aprile 2025
Ottantennio dell’appello inviato da Palmiro Togliatti – Segretario Nazionale del Partito Comunista Italiano – ai lavoratori triestini

A cinque giorni dalla fine della Seconda Guerra Mondiale sul fronte italiano (25 aprile 1945) il Segretario del Partito Comunista Italiano Palmiro Togliatti[1] inviava alla Federazione triestina del suo gruppo politico un documento destinato ai lavoratori della città di San Giusto che vale la pena di ricordare e commentare, in occasione del suo ottantesimo anniversario. Sotto i ponti è passata tanta acqua: nondimeno, vale la pena di commentare brevemente quell’intervento, destinato a restare negli annali della storia quale attestazione del pensiero e dell’azione che il «Migliore» intendeva proporre ai suoi fedelissimi quale prassi operativa, immediata e futura.

Bisogna evidenziare subito che il Segretario non mancava di una sollecitudine molto solerte, tenuto conto che le prime avanguardie dei «liberatori jugoslavi» destinate a spadroneggiare senza remore durante i tristemente celebri «40 giorni» di occupazione, sarebbero giunte in città alle calende di maggio. D’altro canto, è naturale che il Segretario fosse perfettamente informato circa i movimenti dell’Armata Popolare Jugoslava e la priorità riservata alla «conquista» di Trieste rispetto a quelle di Fiume e persino di Lubiana.

Togliatti esordiva salutando «fraternamente» il popolo giuliano e chiariva subito che il dovere categorico dei comunisti triestini era quello di «accogliere le truppe di Tito come liberatrici, e di collaborare con esse nel modo più stretto per schiacciare ogni resistenza tedesca o fascista, e condurre a termine al più presto la liberazione della città». Quindi, ordinava di «evitare ogni «discordia tra il popolo italiano e la Jugoslavia democratica»; confermava che l’obbligo dei cittadini era di «schiacciare le ultime resistenze tedesche e farla finita per sempre col fascismo»; e chiudeva esortando a punire i «responsabili dei delitti commessi dal fascismo contro la Jugoslavia» e «risolvere in comune tutte le questioni che interessano i due popoli nel reciproco rispetto delle due nazionalità».

Enfasi a parte, il Segretario mentiva sapendo di farlo. Gran parte delle residue forze tedesche si era già ritirata prima della fine di aprile, lasciando un ristretto presidio nel castello di San Giusto per consegnarsi agli Anglo-Americani annunciati in arrivo, ma incomprensibilmente bloccati alle soglie della città, e l’insurrezione popolare di fine mese aveva già provveduto alla liberazione del capoluogo anche dagli ultimi fascisti parimenti in fuga, ignorando che l’Armata Popolare Jugoslava avrebbe dato inizio al nuovo terrore, come accadde prontamente, a distanza di poche ore, avvalendosi della priorità del suo arrivo rispetto a quello degli Alleati, di poche ore più tardi.

Presentando le poche righe del messaggio di Togliatti, il comunicato del Partito Comunista non mancava di attirare l’attenzione dei lettori sul fatto che le «truppe di Tito liberatrici» stavano «combattendo l’ultima battaglia contro l’occupatore e le bande fasciste» insistendo nella medesima menzogna fatta propria dal Segretario, e non senza esaltare l’azione di quelle che a loro giudizio erano «le forze più progressiste del nostro popolo» sempre impegnate nell’azione, poiché i «nemici» della volontà popolare erano sempre attivi, sia pure in forme diverse, rendendo necessaria una perseveranza nell’impegno per far «trionfare definitivamente» la causa comunista.

Molte bugie hanno le gambe corte, ma quelle di Togliatti le hanno avute cortissime, perché nel maggio del 1945 furono sufficienti pochi giorni per dimostrare l’infondatezza dei suoi assunti, sia nelle affermazioni circa lo «schiacciamento» delle opposizioni per opera dei partigiani slavi che giunsero a Trieste a cose ormai fatte, sia in quelle riguardanti il «progressismo» degli invasori, responsabili di tanti immediati misfatti. In effetti, il loro comportamento avrebbe permesso di aprire gli occhi anche ai più ingenui, suffragando la volontà degli Alleati Anglo-Americani di espungere i nuovi arrivati dal capoluogo giuliano, anche alla luce della necessità di utilizzare le sue strutture portuali per i rapporti con l’Europa Continentale e Orientale.

In buona sostanza, al pari di quanto sarebbe accaduto a Pola e Fiume, e di ciò che era successo a Zara sin dallo scorcio dell’anno precedente, il comunismo titoista fece conoscere subito quale fosse il suo vero volto, disattendendo ogni speranza e togliendo ogni illusione a chi aveva presunto di poter vivere in maniera accettabile con il nuovo regime jugoslavo. Del resto, il Partito Comunista Italiano di Palmiro Togliatti, nonostante le forti simpatie iniziali, rivenienti soprattutto dalla partecipazione maggioritaria alla Resistenza, non sarebbe mai pervenuto a successi elettorali decisivi.

Anzi, nelle elezioni generali del 18 aprile 1948 per il primo Parlamento della nuova Italia Repubblicana, avrebbe fatto registrare una sconfitta imprevedibile nonostante l’alleanza con il Partito Socialista Italiano, a tutto vantaggio della Democrazia Cristiana, che nella consultazione per la Camera pervenne alla maggioranza assoluta dei voti, anche a prescindere dal concorso dei tre movimenti laici a essa collegati (Liberali, Repubblicani e Socialdemocratici). Non a caso, l’Onorevole Mario Scelba, Ministro degli Interni nel Governo di Alcide De Gasperi, in un primo commento a caldo, avrebbe affermato che si era trattato di un vero e proprio diluvio: ormai, l’Italia aveva voltato pagina, e si apprestava a consolidare in termini definitivi il nuovo assetto democratico[2].


Note

1 Palmiro Togliatti (Genova 1893-Jalta 1964) dopo la laurea in Legge conseguita a Torino nel 1915, fu partecipe di «Ordine Nuovo» che intendeva predisporre strumenti di potenziale impiego rivoluzionario, e nel 1921 fu tra i protagonisti della scissione al Congresso Socialista di Livorno che si concluse con la fondazione del Partito Comunista. Emigrato nell’Unione Sovietica a decorrere dal 1926, ne assunse la «leadership» in linea con le scelte di Giuseppe Stalin, rientrando in Italia soltanto nel marzo 1944 quando prese parte alla cosiddetta «svolta di Salerno» d’intesa con gli altri partiti antifascisti. Subito dopo sarebbe entrato nel secondo Governo Badoglio quale Ministro Senza Portafoglio come Benedetto Croce, per fondare, dopo la fine del conflitto, un partito di massa veramente nuovo, con l’intento di trasferire anche in Italia le «conquiste» d’oltre cortina. Sempre all’opposizione dopo le elezioni del 1948, e poco propenso ad accettare le denunzie dei crimini sovietici, si sarebbe comunque adeguato alla prassi della democrazia parlamentare, ma conservando rapporti di cooperazione con la nuova dirigenza sovietica, fino a quando scomparve durante un soggiorno a Jalta, dove si trovava con Nilde Jotti per colloqui politici e per un periodo di riposo.

2 Un segnale di particolare importanza circa il nuovo corso della politica estera italiana dopo le elezioni del 1948 fu l’adesione al Patto Atlantico, formalizzata nell’anno successivo dopo una durissima opposizione social-comunista, ma nello stesso tempo con ampie maggioranze sia alla Camera dei Deputati (con 342 voti a favore e 170 contrari) sia al Senato della Repubblica (con 183 voti contro 112).

(giugno 2025)

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