Nosside di Locri: la più grande poetessa della Magna Grecia
Alle radici della poesia calabra

Quando sentiamo parlare della poesia greca, subito pensiamo a Omero, o a qualche lirico dell’Attica o delle isole ioniche. Rischiamo però di dimenticarci che i Greci fondarono colonie anche fuori dalla madrepatria che divennero fari di civiltà e che espressero una cultura loro propria.

Questo articolo vuole parlare di una di queste piccole «luci», una poetessa che fu emula e al tempo stesso rivale della più famosa Saffo: «di me parlerai, ospite, allora; della Città che Locri mia s’appella, ripeterai di Nosside con quella tua grazia propria...».

Nosside di Locri

Francesco Jerace, Busto di Nosside di Locri, 1921, Pinacoteca Civica, Reggio Calabria (Italia)

Nosside si pone alle origini della poesia calabra. Dalle scarne notizie che possediamo possiamo dire che visse probabilmente tra la fine del IV e l’inizio del III secolo avanti Cristo nella colonia greca di Locri Epizefiri sulla costa ionica reggina, nel periodo della guerra vittoriosa contro i Bruzi intorno al 300 avanti Cristo (come ricorda l’epigramma 132 nel libro VI dell’Antologia Palatina: «Via dalle grame spalle questi scudi gettarono i Bruzzi») e dopo la morte del poeta Rintone di Siracusa (Antologia Palatina VII, 414).

Fu la più grande poetessa della Magna Grecia, e lei stessa si considerava la Saffo d’Occidente: nella seconda metà del I secolo avanti Cristo il poeta Antipatro di Tessalonica la inserì tra le nove Muse terrestri (contrapposte alle nove Muse celesti), ossia tra le più famose poetesse dell’antichità greca:

«Queste donne di divin favella allevò con canti l’Elicona
e lo stesso fece la vetta macedone della Pieria,
Prassilla, Merò, di Anite, Omero al femminile, la bocca,
Saffo gioiello delle Lesbie dalle belle chiome,
Erinna, la celebre Telesilla e te, Corinna,
che cantasti il temibile scudo di Atena,
Nosside dalla suadente voce femminile e il dolce canto di Mirtide,
autrici tutte di testi immortali.
Nove Muse generò il grande Urano, e nove anch’esse
da Gea generate, gioia perenne per i mortali»
(Antipatro di Tessalonica, Antologia Palatina IX, 26).

Nosside con molta probabilità discendeva da una famiglia appartenente alla nobiltà locrese e in uno dei suoi epigrammi (Antologia Palatina VI, 265) ci ha tramandato il nome della madre, Teòfili, e della nonna materna, Clèoca.

Nella sua poesia è preponderante l’elemento femminile; questa sua dedizione all’universo muliebre le valse l’epiteto di «Voce di Donna» (Antologia Palatina IX, 29).

La sua poetica, uno dei primi esempi occidentali di voci indiscutibilmente femminili, costituisce un canto alla vita, alla bellezza femminile e alla dolcezza dell’amore (Antologia Palatina V, 170: «Nulla è più dolce d’amore»). Nosside mostra una certa passionalità tipicamente meridionale, un amore vivo e sincero, e numerosi riferimenti alla cultura locrese (per esempio, nel già ricordato Antologia Palatina VI, 265 la vediamo lavorare con la madre). L’attenzione ai dettagli della vita muliebre rende i pochi versi superstiti di questa poetessa delle piccole perle che descrivono l’antica quotidianità femminile.

Della sua opera ci sono pervenuti appena 12 epigrammi, di argomento vario; sono giunti sino ai giorni nostri grazie alla loro registrazione nella cosiddetta Corona di Meleagro di Gadara, una raccolta di epigrammi di vari autori andata perduta nella sua forma originale ma che, nella sua parte superstite, ha costituito nel Medioevo il nucleo fondante per la realizzazione dell’Antologia Palatina.

Meleagro immaginò la sua opera come una ghirlanda nella quale inserire i fiori più belli che il prato della poesia greca avesse generato, e nel proemio indicò, per ogni poeta scelto, un fiore che lo identificasse, da intrecciare con quello di tutti gli altri poeti. A Nosside dedicò le parole:

«E con questo avendo intrecciato
il fresco e profumato giaggiolo di Nosside,
sulle cui tavolette
Eros in persona spalmò la cera»
(Meleagro di Gadara, Antologia Palatina IV, 1 9-10).

I 12 epigrammi superstiti, minima parte di una produzione che doveva essere ben più ampia, soprattutto nella parte dedicata all’amore, sono collocati nei libri V (epigrammi d’amore), VI (epigrammi votivi), VII (epigrammi funerari) e IX (epigrammi descrittivi che vedono le donne, specialmente le cortigiane, protagoniste di offerte votive nei templi di Afrodite) dell’Antologia Palatina.

Di tali epigrammi due, in maniera particolare, vanno segnalati: quello già citato dedicato all’amore (Antologia Palatina V, 170) che appare quasi come un proemio alla sua opera; e quello che comincia con «Oh straniero» (Antologia Palatina VII, 718) che sembra possa essere stato il carme conclusivo della sua opera o forse il testo, scritto da Nosside stessa, per il proprio epitaffio.


I 12 epigrammi: l’opera superstite di Nosside

«Nulla è più dolce d’amore; e ogni altra gioia
viene dopo di lui: dalla bocca sputo anche il miele.
Così dice Nosside: e chi Cipride non amò,
non sa quali rose siano i fiori di lei»
(Antologia Palatina V, 170).


«Via dalle grame spalle questi scudi gettarono i Bruzzi,
percossi nella mischia dai Locresi veloci alla lotta,
ora, deposti nel tempio, levan inni al valore di questi,
né rimpiangon le braccia dei vili, che lasciarono privi di sé»
(Antologia Palatina VI, 132).


«Erinna santa, che spesso scendendo in terra dal cielo
visiti il tuo santuario Lacinio fragrante d’incensi,
accetta il peplo di bisso che Teòfili figlia di Clèoca
ha tessuto per te con Nosside, sua nobile figlia»
(Antologia Palatina VI, 265).


«Artemide, che regni su Delo e sull’amabile Ortigia,
riponi in grembo alle Cariti l’arco e le frecce intatte,
purifica il tuo corpo nelle acque dell’Inopo, e vieni
nella casa d’Alceti, a liberarla dalle difficili doglie»
(Antologia Palatina VI, 273).


«Con piacere avrà accolto Afrodite l’amabile offerta
della piccola cuffia che avvolgeva il capo di Sàmita:
è, infatti, di fine fattura e odora lieve del nettare
con cui la dea asperge il bell’Adone»
(Antologia Palatina VI, 275).


«Ecco Melinna in persona! Vedi, il suo volto leggiadro
pare che a noi rivolga lo sguardo dolcemente soave.
Come davvero la figlia alla madre in tutto s’assembra.
Com’è bello che i figli assomiglino ai genitori!»
(Antologia Palatina VI, 353).


«Anche da lontano appare riconoscibile l’effigie
di Sabétide, piena di forma e maestà.
Abbandonati a contemplarla: ti par di vedervi di lei
la saggezza e la dolcezza. Lode a te, mirabile donna!»
(Antologia Palatina VI, 354).


«Passa accanto a me con riso squillante, e poi dimmi
una parola amica: io sono Rintone, quello di Siracusa,
un piccolo usignolo delle Muse; con i flìaci
tragici seppi cogliere un’edera diversa, e mia»
(Antologia Palatina VII, 414).


«Oh straniero, se navigando ti recherai a Mitilene dai bei cori,
per cogliervi il fior fiore delle grazie di Saffo,
dì che fui cara alle Muse, e la terra Locrese mi generò.
Il mio nome, ricordalo, è Nosside. Ora va’!»
(Antologia Palatina VII, 718).


«Giunte nei pressi del tempio miriam d’Afrodite
questa statua, dalla veste tutta trapunta d’oro.
A offrirla fu Poliàrchide, che molti e lauti guadagni
seppe trarre dalla formosità del suo corpo»
(Antologia Palatina IX, 332).


«Il quadretto mostra la bella forma di Taumàreta: con arte
raffigurò la grazia altera della giovane dalle tenere ciglia.
La cagnolina di guardia alla casa scodinzolerebbe
al vederti, credendoti la sua padrona stessa»
(Antologia Palatina IX, 604).


«Nel tempio della bionda Afrodite Callò dedicò questo quadro,
dall’effigie in tutto simile, da lei fatta dipingere.
Che composto atteggiarsi! E quale grazia la pervade!
Salve! Nulla la vita potrebbe rinfacciarti»
(Antologia Palatina IX, 605).

(luglio 2024)

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