Il Gladiatore, il secondo Gladiatore e
qualche riflessione sui film e la storia
Pregi e difetti di due film sull’antica
Roma
Durante l’ultimo mese e mezzo il Gladiatore II ha imperversato nei cinema di tutta Italia e ormai è prossimo a uscire dalla programmazione: perciò, posso tentare di condividere qui alcune riflessioni sull’argomento, diffondendomi anche (avviso chi non l’avesse ancora visto) sulla trama del film, il che implica per forza di cose delle anticipazioni. Al tempo stesso, però, bisogna ritornare indietro al Gladiatore originale, il classico, sempre firmato da Ridley Scott nel 2000: forse il maggior «peplum» o film di ambientazione storica antica dell’ultimo quarto di secolo. Anche se qui toccherò brevemente il problema degli errori storici di entrambi i film, tuttavia il problema non è solo quello, anzi; queste pellicole infatti ne implicano uno ancora più ampio, cioè: qual è e/o quale dovrebbe essere il rapporto tra cinema e storia? Documentaristico, fedele, molto fedele, libero o addirittura liberissimo (per non dire anarchico) come in Napoleon (sempre di Ridley Scott) o il Gladiatore II? Dipende. Per comprendere meglio, però, ripartiamo dal Gladiatore e da Massimo Decimo Meridio.
Non tutti sanno che il Gladiatore è quasi un «remake»: infatti prima c’è stato un altro noto film hollywoodiano, La caduta dell’Impero Romano, che uscì nel 1964 a opera del regista Anthony Mann (lo stesso che iniziò Spartaco, con Kirk Douglas, per poi essere sostituito da Stanley Kubrick): il cast a partire dalla nostra Sophia Loren, allora al vertice della fama, comprendeva alcuni dei più importanti attori degli anni ’60, come Stephen Boyd, Cristopher Plummer, Alec Guinness, James Mason, Omar Sharif, Mel Ferrer, Anthony Quayle eccetera. L’idea di Marc’Aurelio che non vuole lasciare il trono al figlio, bensì al molto più valido Livio, innamorato di Lucilla, di Commodo che uccide (questa volta per avvelenamento) il padre Marc’Aurelio e della lotta per il potere al vertice tra Commodo stesso e la sorella Lucilla, interpretata dalla Loren, viene da qui. Intanto, incombono i Germani da Nord: alla fine il trono sembra non passare a nessuno, proprio come nella pellicola di Ridley Scott. Questo autentico «kolossal», uno dei più costosi della storia del cinema e anche uno dei più incompresi, è stato però sistematicamente ignorato nelle discussioni sul Gladiatore, che invece gli deve molto[1].
Pare che Anthony Mann ne abbia avuto l’idea a partire dalla celebre opera di Edward Gibbon The History of the Decline and Fall of the Roman Empire (1776-1789); di sicuro, il concetto di base è che a partire dalla morte di Marc’Aurelio l’Impero Romano entrò in un periodo di crisi, concretizzatosi poi con l’epoca di anarchia militare del III secolo dopo Cristo: e questo potrebbe apparire tanto più paradossale, in quanto nel corso del II secolo l’Impero Romano raggiunse il suo massimo sviluppo sotto gli Imperatori d’adozione. Difatti, il problema che qui si presenta – e poi ripresentato dal Gladiatore di Scott, ma mai risolto, almeno nella trama, nonché sicuramente irrisolto anche nella realtà storica – è quello della successione al trono imperiale.
In effetti, quella della successione è forse la questione che più di ogni altra ha avvelenato i giorni dell’Impero Romano e lo ha precipitato periodicamente in crisi virulente: quella del 68-69, «l’anno dei 4 Imperatori», quando si esaurì con Nerone la dinastia Giulio-Claudia; il breve momento di crisi alla morte di Domiziano (96 dopo Cristo), cui successe Nerva, che, a sua volta, ebbe l’intelligenza straordinaria di adottare un valido Generale come Traiano; per non parlare, appunto, del periodo difficile seguito alla morte di Commodo, durante il quale si avvicendarono vari candidati al trono, come Elvio Pertinace e Didio Giuliano, entrambi uccisi nel 193[2]. Infine, il problema della successione esplose in tutta la sua violenza nel III secolo, critico anche per altri motivi, economici e sociali. All’origine del Gladiatore (e de La caduta dell’Impero Romano) si trova quindi il passaggio di potere da Marc’Aurelio morente al figlio Commodo, cioè dall’Imperatore filosofo per eccellenza a un figlio consacrato dalla storiografia come degenere. È un po’ come se il regista, e lo spettatore con lui, si ponesse il seguente interrogativo: ma com’è possibile che un Imperatore così saggio non abbia potuto garantire il trapasso del potere a un successore valido? Com’è possibile che da un Sovrano di questo calibro sia nato un figlio così deludente? Se la successione dell’Impero non può essere assicurata neanche da un Marc’Aurelio, al termine di un secolo esemplare per la storia romana, come poteva allora andare avanti l’Impero Romano? Gli storici mirano di solito a motivare questa successione con l’affetto paterno[3]; è possibile però che fosse del tutto naturale tornare alla successione familiare dopo quasi un secolo di Imperatori che, in realtà, non potevano che adottare il loro successore, in quanto privi di discendenza. Di certo, la morte di Marc’Aurelio segna l’inizio della crisi della compagine statale romana.
Ecco allora che il film di Ridley Scott compie un passo ulteriore e trasforma la storia: un saggio come Marc’Aurelio non avrebbe voluto che restaurare la Repubblica, per quanto ciò fosse del tutto impossibile dopo due secoli e passa di Impero; ecco quindi il sogno di restituire la «Res publica», nel senso proprio di «Stato», al Senato e al popolo romano con l’aiuto di un «Imperator» («Generale») esemplare quale il personaggio fittizio di Massimo Decimo Meridio. Questi incarna il meglio della tradizione militare e patriottica romana, calco di uno di quei tanti Generali, da Scipione l’Africano a Marco Vipsanio Agrippa, passando per Decio Mure, Marco Claudio Marcello, Scipione l’Emiliano, Gaio Mario, Gneo Pompeo, Giulio Cesare e così via, che hanno fatto grande Roma e che non di rado hanno sacrificato la vita per la Città Eterna.
Se il Gladiatore, nonostante i ripetuti e frequentissimi errori storici, funziona[4], ciò è dovuto al fatto che, a mio avviso, esso si fonda su di una miscela indovinatissima di grandi motivi tipici della storia di Roma. Che lo si voglia o no, bisogna ammettere che il primo personaggio storico ad averlo ispirato è stato uno dei nemici più incredibili della storia di Roma: Spartaco, lo schiavo ribelle, che aveva combattuto come ausiliare dell’esercito romano e ne conosceva benissimo le tecniche di guerra, ma che probabilmente disertò, fu quindi ridotto in schiavitù per poi divenire gladiatore e, a partire dall’arena, tentò di tracciare per sé e i suoi un cammino di liberazione allo scopo di ritornare a casa[5]. Per quanto non fosse propriamente Romano, fu un grande «leader» incluso nel sistema romano, a tal punto da divenire nel corso dei secoli una sorta di modello di riscatto per gli oppressi; ancora nell’Ottocento affascinò Manzoni, il quale intendeva dedicargli una tragedia poi rimasta incompiuta[6]. L’idea di un gladiatore ribelle che giunge alle soglie dell’Impero difficilmente sarebbe venuta a Scott senza il precedente di Spartaco, che certo ebbe una storia diversa, ma preoccupò non poco i Romani, tanto da suscitarne una certa, tacita ammirazione.
A questo si unisce il tema della «libertas», la libertà dal dispotismo tirannico, rimasta sempre un valore imprescindibile nel cuore dei Romani persino in età imperiale: infatti, l’Imperatore Romano non era affatto il proprietario dello Stato, come lo sarebbero stati poi i Sovrani Medievali, bensì era la persona di fiducia cui il Senato e il popolo romano, di comune accordo, affidavano lo Stato perché lo gestisse a loro beneficio[7]. Del resto, proprio nel periodo degli Imperatori d’adozione e a partire da Traiano è stata creata l’ideologia dell’«optimus princeps»: se proprio il Sovrano non aveva figli e quindi doveva scegliere un successore, questo doveva essere il migliore possibile. Questa idea permane anche sullo sfondo della creazione del personaggio di Massimo Decimo Meridio, che, nonostante il nome ben poco corrispondente all’onomastica romana (nessuna delle tre parti del nome romano corrisponde all’uso), appare proprio come la migliore incarnazione in potenza dell’«optimus princeps»: coraggioso, leale, nobile, legato ai valori tradizionali del «mos maiorum», l’uso degli antichi (non a caso, viene mostrato mentre venera i Penati, cioè gli avi); per questo a lui Marc’Aurelio affida il ristabilimento della Repubblica, cioè della «libertas». D’altronde il film allude chiaramente al continuo alternarsi di Sovrani «buoni», che regnano nel rispetto delle leggi e in sintonia col Senato – come recitava la tradizione storiografica da Tacito in giù, quella appunto di taglio senatorio – e quelli invece «malvagi», come il Commodo descritto nel film (che, a dire il vero, anche se nella realtà amava veramente combattere nei giochi dell’arena, nella sinistra perversione esibita dal personaggio del film ricorda piuttosto Caligola): Imperatori che preferivano un dispotismo di taglio orientale, pronti ad accattivarsi il popolo con «panem et circenses», «pane e giochi del circo», per godere di un potere senza limiti (e difatti, in una delle scene vengono lanciati dei pani agli spettatori sulle gradinate).
Se a questo uniamo il motivo di Roma che combatte con convinzione per portare la civiltà agli altri popoli, ci troviamo in pieno nei valori romani più classici: «Conosco buona parte del resto del mondo» afferma Massimo all’inizio della pellicola, «è oscuro e barbaro. Roma è la luce». Queste battute ricordano molto i celebri versi in cui Virgilio tratteggia il destino imperiale di Roma:
«Excudent alii spirantia mollius aera,
credo equidem, vivos ducent de marmore voltus,
orabunt causas melius, caelique meatus
describent radio, et surgentia sidera dicent.
Tu regere imperio populos, Romane, memento:
hae tibi erunt artes, pacisque imponere morem,
parcere subiectis et debellare superbos»
(«Altri scolpiranno il bronzo con maggiore delicatezza,
tanto da farlo sembrar respirare,
oppure vivi trarranno dal marmo i volti,
altri peroreranno meglio le cause,
tracceranno con la bacchetta i moti del cielo
e prediranno il sorgere degli astri;
Tu, Romano, ricorda, di governare i popoli col tuo potere:
queste saranno le tue arti, imporre la civiltà della pace,
risparmiare i soggetti e sconfiggere i superbi»
Virgilio, Eneide,
VI, 847-853[8]).
In effetti, per buona parte del film spira questo orgoglio di Roma. Per molto tempo è invalsa una lettura, per così dire, «schizofrenica» dell’Eneide, dato che da molti studiosi non si voleva accettare il pieno sostegno di Virgilio ad Augusto; quindi, era invalsa la persuasione che il poeta sostenesse il primo Imperatore in modo esteriore, quasi adulatorio, mentre il «vero» Virgilio si sarebbe manifestato nella deprecazione della guerra e in quei passi del poema in cui piange tante giovani vite spezzate: Pallante, Eurialo, Niso, Camilla. In realtà, come hanno evidenziato le letture più recenti e coerenti col dettato virgiliano, non solo Virgilio era un convinto sostenitore di Augusto e dell’imperialismo romano, ma faceva parte di un gruppo di poeti sinceramente grati a colui che aveva riportato la pace nello Stato Romano; perciò, credeva profondamente ai versi citati sopra[9].
In conclusione, è perfettamente vero che il Gladiatore contiene molti errori storici, dall’omicidio di Marc’Aurelio, alla durata troppo ridotta del Regno di Commodo, dagli abbinamenti sbagliati dei gladiatori, all’uso delle catapulte in battaglia campale, dal nome improbabile di Massimo Decimo Meridio, alla scritta in falso latino sopra l’entrata della scuola dei gladiatori, e potremmo andare avanti per un bel pezzo; però lo spirito di questo film è romano, parla di valori romani. Perciò, mi è sempre parso come una magnifica parabola che riunisce in sé una sorta di sintesi della storia dell’Urbe. Inoltre, anche se indubbiamente in questo film si percepiscono come molto forti delle tematiche odierne (a esempio, i pericoli inerenti la spettacolarizzazione del potere, la manipolazione di massa tramite i media, la propaganda eccetera[10]), tuttavia il Gladiatore rimane un gran bel film storico almeno nello spirito, se non nei fatti: possiede un profondo afflato epico, lascia emergere un sincero amore per Roma e costruisce una magnifica figura di eroe come ormai di rado succede nel cinema odierno.
Per chi come me aveva amato molto il Gladiatore, il «sequel» ha costituito una vera e propria doccia fredda. So bene che Ridley Scott, a fronte delle continue proteste contro gli errori storici di cui ha riempito il suo ultimo film, ha risposto ripetutamente (e ostinatamente): «Get a life»[11], cioè «Fatevi una vita», che è una maniera un po’ più garbata per dire sostanzialmente: «Arrangiatevi: io faccio quello che voglio». Il problema però è che in questa pellicola la quantità e il livello degli errori storici, oltre alle inverosimiglianze della trama, hanno raggiunto delle proporzioni colossali. Uno dei miei studenti (non uno storico di professione) mi ha rivelato con malcelato sconcerto che nel film compariva la conquista della Numidia alle spese di Giugurta spostata di tre secoli all’inizio del III dopo Cristo (guerra combattuta da Mario e poi risolta da Silla con la cattura di Giugurta fra il 112 e il 104 avanti Cristo): un po’ come se si spostasse Cristoforo Colombo all’epoca di Dante. Posso anche capire la libertà artistica: anche se sono convinta che un grande artista possieda le risorse e le capacità per trasformare in opera d’arte e in scene indimenticabili persino i dettagli più realistici e anodini della storia antica, così come Michelangelo sapeva adeguarsi alle imperfezioni del marmo per trarne dei capolavori. Ma evidentemente questo principio artistico, quello cioè di sapere sfruttare al massimo la realtà per quel che è, ormai è diventato obsoleto perché siamo arrivati, temo, al soggettivismo più assoluto e sfrenato.
Il Gladiatore II, a mio modesto avviso, è un film molto deludente e per più motivi. Gli errori storici sono tali e tanti che qualsiasi spettatore a un certo punto non riesce più a immergersi nella finzione cinematografica e ad accettare di lasciarsi piacevolmente ingannare da essa, ma se ne disconnette completamente: come è successo a me, nonostante tutta la mia buona volontà, quando ho visto i Romani arrivare in Numidia con tre secoli di ritardo. Qui non si tratta di creare una sorta di parabola sulla storia romana enucleandone alcuni temi fondamentali, come nel primo film: si tratta di stravolgere la storia romana in una maniera assurda, che si tratti delle modalità strampalate in cui Caracalla ammazza Geta, del fatto che incrocino degli squali nell’acqua profonda poche decine di centimetri del Colosseo allagato per i giochi nautici, della surreale scena della battaglia con le scimmie, oppure del fatto che le torri d’assedio vengano montate su delle navi (il che, a mia conoscenza, può solo ricordare le sambuche, torri d’assedio montate su più navi e con tanto di ponte levatoio, da agganciare alle mura; ma non è quanto avviene nel film).
Il livello di errori storici in questo film ha raggiunto un punto tale da compromettere la stessa qualità e credibilità artistica della pellicola: se la storia è così lontana da quella vera, se ci troviamo ormai davanti non a un «peplum», ma a un fantasy in salsa romana (come ho pensato guardando la scena assurda delle scimmie), a questo punto, artisticamente il film non sta più in piedi. E questo è un vero peccato perché in realtà le pellicole di Ridley Scott sono interpretate molto bene dagli attori, sono ben dirette e visivamente molto belle, con scenografie curate, costumi ricostruiti con attenzione e una fotografia che ricorda dipinti famosi: per esempio, mio fratello Samuele Magri, che insegna Storia della Moda, mi fece notare in passato che le armature del Gladiatore sono state realizzate sul modello di quelle rappresentate sulla Colonna Traiana. Nel «sequel» alcune scene sono ispirate visibilmente a quadri come Le rose di Eliogabalo di Lawrence Alma Tadema (1888) o La distruzione dell’Impero Romano di Thomas Cole (1836). Altre sono effettivamente molto poetiche: come quella finale, oppure quella in cui si vede giungere la barca di Caronte. Ma per il resto, ripeto, la vicenda non appare credibile. Non a caso, Peter McPhee, docente a Melbourne, ricordava ai colleghi che il problema con questi film non consiste tanto nel ricercare uno per uno i dettagli storici sbagliati, quanto nel verificare l’«autenticità» globale della pellicola: cioè vedere se essa cattura lo spirito di un periodo[12]. Inutile dire che la questione è miseramente fallita sia in Napoleon, che nel Gladiatore II.
Ma c’è anche un altro motivo ben più grave che condanna inesorabilmente questo film. Il Gladiatore II è soprattutto un naufragio dal punto di vista artistico perché si ostina a ricalcare la trama del primo, invece di far decollare la vicenda per conto suo. A me che so letteralmente a memoria il primo film risultava impossibile guardare il secondo senza che mi ritornassero in mente spezzoni interi del primo, il che mi dava la spiacevolissima sensazione di un abborracciato «taglia e incolla»: ci ritroviamo davanti i personaggi sopravvissuti a fare esattamente la stessa cosa a distanza di vent’anni, quindi Lucilla a complottare, i senatori a tramare contro gli Imperatori malvagi, il protagonista perde pure lui la moglie, diventa gladiatore e così via. È come se il secondo film fosse un «frullato» del primo. Il calco è la morte di ogni iniziativa artistica: questo significa allora che ci viene propinato semplicemente un prodotto di «marketing», destinato soltanto a «vendere» come ha venduto il primo. Il risultato è per forza di cose estremamente piatto e dà vita a una trama incoerente, assurda e addirittura capace di sciupare l’effetto prodotto dal primo film. Per esempio, il fatto che il piccolo Lucio venga spedito in Africa e letteralmente abbandonato dalla madre Lucilla, cosicché ce lo ritroviamo vent’anni dopo a combattere contro i Romani, è letteralmente cervellotico; ancora più assurdo è cercare di farci credere che Lucio è il figlio di Massimo, laddove il primo film aveva ammantato di delicata reticenza e sobria poesia il rapporto di amore e, soprattutto, di stima, tra Massimo e Lucilla: un Massimo comunque fedele ai suoi affetti familiari. Il finale del film originale restava sospeso, in un’aureola di gloria epica; durante la visione del secondo, invece, mi sono trovata sistematicamente a temere che Giuba, il magnifico personaggio amico di Massimo, si fosse trasformato nel malvagio Macrino interpretato da Denzel Washington, finché non sono fuggita letteralmente ai primi titoli di coda.
Quindi, in conclusione, film come questi dovrebbero farci interrogare non solo sul rapporto tra produzioni artistiche e storia, ma anche e soprattutto sulla pertinenza di pellicole che, la storia, la calpestano completamente; e, in secondo luogo, bisognerebbe chiedersi che senso abbia invocare la storia per produrre dei film in cui il soggettivismo assoluto sembra alienare del tutto il regista da un sano rapporto con la realtà, non solo a livello storico, ma anche artistico.
1 Per una discussione critica del film, confronta Martin M. Winkler, The Fall of the Roman Empire. Film and History, Oxford, Blackwell, 2009. Per la scheda tecnica del film, si veda https://www.imdb.com/it/title/tt0058085/
2 Sulla vicenda reale dell’Imperatore Commodo, ben diversa da quella tratteggiata nel film, confronta Livio Zerbini, Commodo. L’Imperatore gladiatore che diede inizio al declino di Roma, Roma, Salerno Ed., 2024, che discute il problema del passaggio dall’Impero d’adozione alla successione del titolo imperiale di padre in figlio.
3 Confronta Livio Zerbini, Commodo. L’Imperatore gladiatore che diede inizio al declino di Roma, Roma, Salerno Ed., 2024, pagine 59-63.
4 Per una revisione critica del film e del suo spessore, nonostante gli errori storici, confronta Martin M. Winkler ed., Gladiator: Film and History, Oxford, Blackwell, 2004.
5 Sulla sua figura, si veda a esempio Barry Strauss, La guerra di Spartaco (traduzione italiana), Roma-Bari, Laterza, 2009.
6 Il progetto risale al 1821, ma fu poi completamente abbandonato per il romanzo già nel 1822: confronta Spartaco, https://www.alessandromanzoni.org/opere/79
7 La questione è discussa in Florence Buttay-Jutier, Fortuna. Usages politiques d’une allégorie morale à la Renaissance, Paris PUPS, 2008, pagine 168-170 e 200.
8 Traduzione mia.
9 Per questa rivisitazione e la critica alla posizione «divisionista», confronta Hans-Peter Stahl, Poetry Underpinning Power. Vergilius’ Aeneid: the Epico for Emperor Augustus. A Recovery Study, Swansea, The Classical Press of Wales, 2016; per il ruolo politico di Virgilio e degli altri poeti augustei agli inizi dell’Impero, si veda Philippe Le Doze, Le Parnasse face à l’Olympe. Poésie et culture politique à l’époque d’Octavien/Auguste, Rome, Collection de l’École française de Rome, 2014.
10 Questo aspetto viene sottolineato da Martin M. Winkler ed., Gladiator: Film and History, Oxford, Blackwell, 2004.
11 Confronta Peter McPhee, Napoleon director Ridley Scott is calling on us historians to «get a life» – and he has a point. Art is about more than historical facts, The Conversation 5 dicembre 2023, https://theconversation.com/napoleon-director-ridley-scott-is-calling-on-us-historians-to-get-a-life-and-he-has-a-point-art-is-about-more-than-historical-facts-218717
12 Confronta Peter McPhee, Napoleon director Ridley Scott is calling on us historians to «get a life» – and he has a point. Art is about more than historical facts, The Conversation 5 dicembre 2023, https://theconversation.com/napoleon-director-ridley-scott-is-calling-on-us-historians-to-get-a-life-and-he-has-a-point-art-is-about-more-than-historical-facts-218717