Ucraina complessa
Dal genocidio degli anni Trenta
all’irredentismo russo contemporaneo
Al pari di parecchi Paesi dell’ex Unione Sovietica, anche l’Ucraina attraversa una congiuntura di arduo assestamento fra le rivendicazioni moscovite e l’affermazione della propria nazionalità. In effetti, la distribuzione popolare geografica è molto differenziata, contribuendo a supportare, secondo i casi, sia le ragioni locali che le attese russe corroborate dalla politica del fatto compiuto, culminata da una parte nell’occupazione e relativa annessione della Crimea, e dall’altra nel conflitto ormai endemico per il controllo delle regioni orientali.
Le matrici principali dell’attrito russo-ucraino, a parte talune motivazioni più antiche, e la dichiarazione d’indipendenza del 1991, con cui Kiev volle formalizzare la propria indipendenza da Mosca, vanno cercate nel genocidio degli anni Trenta, quando sei milioni di contadini, quattro quinti dei quali erano ucraini, scomparvero a fronte di un’allucinante carestia programmata spietatamente da Stalin, nel tentativo di ripristinare sotto nuove bandiere rosse, all’insegna della collettivizzazione forzata, l’antica servitù della gleba, che risaliva all’epoca zarista[1].
Sono trascorsi circa 85 anni da quella vicenda oggettivamente tragica, in cui i diritti umani divennero ancora una volta l’utopia del secolo: in tale ottica, è agevole comprendere l’impossibilità, in specie da parte ucraina, di archiviare quella pagina nefasta, riaperta in modo traumatico dalla crisi che ha fatto seguito all’annessione della Crimea alla nuova Russia di Vladimir Putin, alle sanzioni comminate dall’Occidente nei confronti del Cremlino, e più recentemente, alla visita dello stesso Presidente Putin nella regione contesa fra i due Paesi, ma caratterizzata dalla presenza di una popolazione per quattro quinti russofona[2].
Sul fatto che negli anni Trenta l’Ucraina sia stata oggetto di un autentico genocidio, a prescindere dalle ragioni di strategia agraria e dalle pregiudiziali anti-borghesi del regime comunista, non ci sono più dubbi, ma ciò non significa che le attuali motivazioni russe debbano essere ignorate. Occorre, caso mai, una consapevolezza storica più matura, anche da parte degli altri Paesi, chiamati ad esercitare un’adeguata missione pacificatrice, e non certo a strumentalizzare le attese delle parti in causa, per interessi propri, anziché per quelli dell’ordine internazionale. Serve, nello stesso tempo, valutare con estrema prudenza il vecchio assunto di George Orwell, secondo cui la pace si prepara e si difende con la guerra: un paradosso dialettico, e per taluni aspetti non immune da una discreta dose di cinismo.
Del resto, i rapporti di forza sono noti: come è stato rilevato da Zbigniew Brzezinski, la potenza militare russa è tale che, qualora fosse necessario, potrebbe occupare i tre Paesi Baltici in un solo giorno[3], in specie dopo il trasferimento di nuovi missili, puntati anche verso l’Occidente, nella base di Kaliningrad (la non dimenticata Koenigsberg, patria di Kant). Ebbene, c’è da chiedersi se sia effettivamente realistica la politica «muscolare» della NATO e la pervicace insistenza di taluni stati occidentali nel rinnovare la proposta di sanzioni nei confronti del Cremlino per una questione complessa come quella ucraina, disattendendo il negoziato che, come sempre, costituisce l’opzione prioritaria: è sempre meglio una pace non ottimale rispetto ai danni talvolta irreversibili di un conflitto apparentemente vittorioso.
1 La strage dei «kulaki» è stata alla base di un recente saggio esaustivamente motivato: quello di Ettore Cinnella, Ucraina: il genocidio dimenticato (1932-1933), Della Porta Editori, Pisa 2015, pagine 2015 (oggetto di quattro ristampe nel breve termine, a conferma del particolare interesse attuale della materia). In effetti, la vittoria della socializzazione agraria voluta dal regime moscovita ebbe carattere totale per la vera e propria fagocitazione degli oppositori; ma come avrebbero dimostrato gli eventi successivi, nel lungo termine non sarebbe stata definitiva.
2 Angelantonio Rosato, Russian Irredentism in Ukraine, in «Informazioni della Difesa», Institute for Global Studies, Roma 2015 (numero 1), pagine 90-91. In effetti, come emerge dalla rappresentazione grafica delle lingue parlate in Ucraina, il russo è utilizzato nelle regioni meridionali e nella stessa Crimea in misura dell’82,3%, mentre nei comprensori orientali l’incidenza sale all’86,8%. Al contrario, risultano minoritarie le quote rilevate nelle altre macroregioni ucraine, fino a quella minima del 3,1% nel distretto occidentale (Leopoli). L’Autore mette in evidenza come i conflitti irredentisti, tra cui quello in questione, abbiano carattere eminentemente locale: di qui, la loro improponibilità quale matrice di una nuova Guerra Fredda d’impatto globale, anche se «la situazione attuale dimostra per vari aspetti di poter evolvere in modo serio» sia in Ucraina sia in altri Paesi dell’ex Unione Sovietica, a cominciare da quelli baltici e caucasici (dove la presenza russa – peraltro – non è maggioritaria).
3 Ibidem, pagina 91. È vero, come aggiunge Rosato, che la Russia ha «esteso la giurisdizione» sulla Crimea pur avendo votato nel Consiglio di Sicurezza dell’ONU a favore della sua integrità territoriale, ma ciò conferma, in ultima analisi, la totalità della rivendicazione.