Trittico fiumano, istriano e dalmata
Spunti di attualità decorsi 80 anni dalla fine della Seconda Guerra mondiale (1945) e 20 dalla Legge istitutiva del Ricordo (2004). Riflessioni circa i simboli dei territori ex Italiani


Indeficienter: riflessione sulla lunga e complessa storia dell’Aquila Fiumana

L’avverbio latino che contraddistingueva l’emblema di Fiume Italiana – oggi anche della città ex jugoslava e poi croata – intende suffragare il carattere, costante nel tempo e nel flusso altrettanto perenne di pensiero e di sentimenti, della «vita morale» della città capoluogo del Quarnaro, attraverso quella della sua cittadinanza. In effetti, tale avverbio avverte, proprio nell’etimo, la continuità del fluire, senza alcuna interruzione, della fede e della speranza che, dalla fondazione dell’antica Tarsatica alla medievale Flumen Sancti Viti, e quindi a Fiume, hanno sempre contraddistinto la sua anima, la sua vocazione, il suo riferimento etico.

Sulla storia dell’Aquila Fiumana installata sulla Torre Civica, e sull’antitesi fra quella bicipite della tradizione asburgica e la sua variante a una sola testa, di cui al celebre intervento correttivo della stagione dannunziana, sono stati scritti i classici fiumi d’inchiostro, estesi a quanto accadde nel 1949 con la distruzione totale del manufatto per opera del regime comunista di Tito, cui fece seguito in tempi largamente successivi il ripristino di quella bicipite, in omaggio alla permanente vocazione slavofila del «nuovo corso» (sempre in essere nonostante la sconfitta comunista).

Al contrario, non si è avuto un dibattito analogo circa la semantica «INDEFICIENTER» riportata sul flusso perenne che sgorga simbolicamente dall’emblema. In realtà, qualcuno ha insinuato che non si tratterebbe di un messaggio di fede e di speranza, come da logica presunzione morale e spirituale, ma di un atto di riguardo nei confronti di una continuità imperiale indefinita, e degli auspici d’epoca per la sua conservazione in tempi tendenzialmente eterni, conformi ai tradizionali canoni di una Monarchia assoluta che rimase sostanzialmente tale fino alla catarsi conclusiva dell’Austria-Ungheria, quale epilogo della Grande Guerra. Tuttavia, in un’ottica veramente oggettiva, questa interpretazione «riduzionista» sembra indulgere a residue vocazioni nostalgiche, e non certo a valori «non negoziabili».

Trascorso un secolo abbondante dalla Reggenza Italiana di Fiume, e passati 80 anni dalla fine della Seconda Guerra Mondiale che avrebbe indotto la fine della sovranità italiana, le diverse sensibilità venute a maturazione nel nuovo millennio hanno interpretato quelle antinomie alla stregua di contrasti sostanzialmente locali, con qualche venatura municipalistica, ma nello stesso tempo non hanno impedito a nuove riflessioni politiche all’insegna dell’etica, in un quadro di riferimento universale, di confermare a più forte ragione le motivazioni che avevano animato le scelte fiumane all’indomani della Grande Guerra, e che erano state davvero plebiscitarie, quasi a porre in evidenza la negazione dei valori umani e civili che aveva indotto, e non senza riproporre i fondamenti di un irredentismo «etico» perché finalizzato a promuovere la redenzione di esseri umani in una logica europea, e prima ancora, cristiana.

Da questo punto di vista, il salto qualitativo è stato quasi rivoluzionario, ma nello stesso tempo, tanto più credibile perché supportato dall’esodo di una larga maggioranza fiumana che non voleva e non poteva riconoscersi nell’ateismo di Stato e nel collettivismo forzoso, senza dire del tragico rischio della foiba o di analoghi massacri alternativi. Non a caso, la grande maggioranza del popolo di Fiume avrebbe preso la via dell’esilio già dall’immediato dopoguerra, essendo emerso con chiarezza che per il capoluogo del Quarnaro non esistevano possibilità di conservare l’appartenenza all’Italia.

In tutta sintesi, il buon diritto di Fiume, al pari di quelli ascritti da Pola, da Zara e da tutti gli altri centri sottratti alla sovranità italiana col trattato di pace del 1947 costituisce ancor oggi un «vulnus» nella memoria collettiva degli esuli e di tutti gli Italiani migliori, che si coniuga con la necessità di ricordare e con la stessa impossibilità di dimenticare, in ossequio alla prassi che in altre condizioni di luogo e di tempo era già stata illustrata da quanti avevano vissuto tragedie simili a quelle del popolo giuliano, istriano e dalmata, e talvolta, notevolmente più alte sul piano quantitativo.

Nel caso di Fiume, la storia dell’Aquila conserva un’importante valenza integrativa che costituisce un vero e proprio «quid sui». Infatti, la sua distruzione finale da parte delle milizie titoiste era un’offesa gratuita ai martiri e agli stessi esuli, mentre la sua ricollocazione postuma è stata il palese riconoscimento delle iniquità perpetrate dal satrapo di Belgrado. Nello stesso tempo, la questione delle due teste, laddove avulsa dalle suggestioni di cui si diceva, indica la permanenza, frequente in tante comunità non soltanto esuli, di un’anima conservatrice accanto a quella innovatrice, teoricamente suscettibili di collaborazione o per lo meno di dialogo, perché promosso, a ben vedere, da un amore per la propria terra, sia pure vissuto in diversi riferimenti e prospettive.

L’Aquila Fiumana, in questo senso, è la metafora di una dialettica degli opposti che, proprio come tale, presume la necessità della sintesi, facendo giustizia delle antinomie strumentali non già in omaggio al cosiddetto pensiero unico, bensì alla maturazione delle coscienze e alla palese esigenza di distinguere l’essenziale dal complementare e dal contingente.

Si tratta, naturalmente, di un processo da perseguire «INDEFICIENTER». In questo caso, la «lezione» di Fiume trascende davvero ogni residuo municipalismo e diventa un paradigma di riferimento anche in misura più ampia, sia in senso geografico, sia in termini morali, dove è necessario non fermarsi davanti al possibile insuccesso, ma trarne spunto per un impegno volitivo più adeguato, nel quale – come da alte lezioni di tanti importanti pensatori – possano trovare spazio, e conseguente vittoria, le migliori ecceità umane e civili.


Capretta istriana: esempio di pazienza e di «ethos»

Nelle varie raffigurazioni che si sono susseguite nel corso dei secoli, la capretta istriana intende esprimere un costante «simbolo di fatica perché la sua caratteristica è che si nutre di tralci morbidi, che devono essere arrampicati». In realtà, ne esistono immagini in pose diverse, non senza talune divagazioni cromatiche: a esempio, quelle delle corna e degli zoccoli rossi, o dei diversi orientamenti a destra o sinistra dell’emblema, ma la proposta oggi più diffusa rappresenta la capra a zampe unite sul vertice di una montagna, quasi a voler simboleggiare una posizione di forte impegno, e nello stesso tempo, di notevole equilibrio volitivo.

In altri termini, la capretta è simbolo di vita dura conforme alle asperità del suo terreno stanziale, e quindi, di una pazienza cui, con lo scorrere del tempo e degli eventi, sono stati riconosciuti riferimenti perenni, quasi proverbiali. Non a caso, questa prerogativa, sviluppata nei tempi di un lungo affrancamento da sistemi politici estranei, si coniuga con la tristezza e con il dolore, assai vivo quando sia indotto dalla scomparsa di tanti eroi che fecero olocausto della propria vita per consolidare il diritto dell’Istria all’affermazione delle proprie idealità morali e civili.

Al pari di quanto è accaduto in altre comunità dell’Alto Adriatico, la capra istriana, con queste «virtù» di forte significato etico, è una metafora della vita umana, fatta d’incomprensioni e di sofferenze, ma nello stesso tempo, di affermazioni dei Valori che la rendono strumento di progresso civile, e proprio per questo, degna di essere vissuta. In fondo, non è un caso che sia diventata simbolo dell’Istria, anche se le attività storicamente importanti della regione restano in buona prevalenza quelle legate al mare, con le sue aperture a traffici, commerci e rischi, ma proprio per questo, richiedenti analoghe doti di riflessi veloci, e nello stesso tempo, di competenza funzionale, e di lucido attendismo. Tutti requisiti che, è facile comprenderlo, richiedono preparazione, intelligenza, e per l’appunto, pazienza.

Senza queste prerogative l’Istria non avrebbe avuto tutta la possibilità di sviluppare aggregati urbani di fondamentale importanza: in primo luogo, quello di Pola, destinata a diventare un nucleo leader della latinità adriatica già prima dell’era cristiana, a costituire un centro architettonico e culturale di prima grandezza sin dall’epoca augustea, e infine, a trovare spazio nella grande opera di Dante quale luogo «presso del Carnaro / ch’Italia chiude e suoi termini bagna» (peraltro, ai tempi del Sommo Poeta la regione italica era un’espressione geografica ma non certo uno Stato moderno). Considerazioni non dissimili si possono fare per Aquileia, a suo tempo importante città portuale, tanto da diventare capoluogo della «Decima Regio» fra il III e il IV secolo dell’era cristiana, e la quarta città italiana.

La capra dell’Istria, in buona sostanza, ha una storia lunga che si articola in tanti secoli, se non anche in alcuni millenni. Nondimeno, la sua presenza sul territorio, secondo valutazioni aggiornate alla fine del 2023 si ragguaglia a circa 200 capi, e quindi a rischio di possibile estinzione – nonostante rilevanti tentativi di salvaguardia dell’esistente – quale effetto comprensibile alla luce di un’economia pastorale in decadenza sistematica, e del tramonto progressivo di un antico utilizzo del pelo caprino per i bisogni della vita quotidiana, alimentato dalla normale diligenza di allevatori che ormai costituiscono figure di rilevanza marginale, se non addirittura storica. D’altra parte, si è fatto notare che, a questo punto, l’importanza della capra istriana non sta tanto nel numero superstite, quanto nella sua araldica.

Presenze ragguardevoli di capre sul territorio istriano erano già in essere prima della conquista romana, come attestano le ossa di questi animali che sono state trovate in agro di Nesazio, l’antico maggiore castelliere della regione. La sua frequenza storica si deve ascrivere, tra l’altro, al fatto che si tratta di una razza assai frugale, in grado di sopravvivere con un’alimentazione davvero spartana, e con la femmina più anziana quale leader del gruppo, mentre il capro governa la difesa dai nemici esterni. Questa capacità di nutrirsi con risorse modeste, se non anche minime, spiega la ragione fondamentale per cui la capra istriana – almeno una – era patrimonio irrinunciabile anche dei poveri, specialmente per il latte.

In tempi più vicini a quelli contemporanei questi animali sono stati sottoposti a qualche ostracismo nella presunzione non dimostrata che fossero propensi a rilevanti danneggiamenti dei boschi, e quindi, in totale deroga a un vecchio convincimento secondo cui la capra istriana sarebbe stata, invece, la nutrice degli dèi. Ecco una divagazione a sfondo vagamente religioso, o meglio mitico, che trova qualche analogia anche nella tradizione ebraica riguardante il «capro espiatorio» sacrificato per cancellare il peccato degli uomini e impetrare il perdono divino. In sostanza, la capra istriana è stata oggetto d’interpretazioni divergenti, e talvolta strumentali: nella realtà delle tradizioni e dei fatti, costituisce un attestato dei caratteri ricorrenti di un intero popolo, fondati sulla perseveranza nella fede, sul conforto della speranza e sulla certezza di avere operato per il bene comune.

La capretta istriana rimane certamente insostituibile nel comune sentimento che non è stato compromesso dalla tragedia dell’esilio e da quella delle troppe violenze subite da parte slava durante il «secolo breve». Al contrario, il simbolo della capra, con il suo messaggio di sopportazione non rassegnata, di resistenza alla fatica, e soprattutto di pazienza nell’attesa di tempi migliori, costituisce – per l’appunto – un viatico di fiducia e di valori cristiani cui le comunità istriane si sono ispirate a più forte ragione dopo la diaspora del secondo dopoguerra, traendone nuovi motivi d’impegno e di continuità ideale.


Leoni della Dalmazia: simbolo di perseveranza e di forza morale

Lo scudo con tre teste di leone coronate in oro, due delle quali in alto e la terza in basso, colorate d’argento e lingue azzurre, è la prima raffigurazione storica dell’emblema dalmata, posto nella Cronaca del Concilio di Costanza (1420). Una decina di anni prima, nella chiesa veneziana di San Silvestro era stata firmata la cessione di Zara, di Pago e dei «diritti» dalmati dal Regno d’Ungheria alla Serenissima Repubblica, che sarebbe rimasta in essere fino al 1797, data del tradimento napoleonico. Secondo alcune fonti, le tre teste non sarebbero di leone, ma di leopardo: tuttavia, la diversa interpretazione del riferimento assume una valenza sostanzialmente nominalistica, risolvendosi nel prevalente riconoscimento di appartenenza alla specie leonina, se non altro alla luce del suo tradizionale primato di forza nel mondo animale.

Assai più lontana nel tempo è l’origine quasi mitologica delle teste, che altre fonti fanno risalire all’antico Evo Precristiano, in memoria di tre comandanti delle milizie locali che si sarebbero comportati eroicamente in lotte per la difesa della propria terra. Al riguardo, è utile premettere che la dimensione geografica della Dalmazia è stata contraddistinta da progressive interpretazioni riduttive, come emerge dalle 20 carte poste a supporto della fondamentale opera di Giuseppe Praga (Storia di Dalmazia, Varese 1981, 392 pagine). In effetti, nell’età contemporanea il territorio dalmata, senza alcuna soluzione di continuità, si considera riferibile alla costa adriatica dal golfo del Quarnaro fino all’estremo confine meridionale, per parecchie centinaia di chilometri, con la necessaria e dovuta aggiunta delle isole.

La presenza latina nel territorio dalmata risale al III secolo dell’epoca precristiana con la fondazione della colonia di Curzola, e prosegue in quelli successivi con la grande campagna vincente di Lucio Cecilio Metello, che non a caso avrebbe assunto il «cognome» di «Dalmaticus». In epoca augustea, tale presenza, tradotta in forti progressi civili e giuridici – per non dire della cultura – si sarebbe estesa, oltre che alla Dalmazia, ad alcune regioni circostanti, restando impregiudicata anche dopo la caduta dell’Impero d’Occidente (476) grazie all’inserimento nella sfera orientale. La situazione, peraltro, sarebbe cambiata in modo irreversibile con le invasioni avaro-slave del VI e VII secolo, che diversamente dalle precedenti furono di tipo stanziale, e quindi con effetti definitivi, nonostante ripetute manifestazioni di «coraggio civico» da parte latina, come quelle supportate dal Santo Padre Giovanni VIII nell’assicurare ai Vescovi Dalmati l’aiuto spirituale di Roma contro gli Slavi.

Appartiene verosimilmente all’epoca in questione la comparsa delle teste di leone nell’iconografia locale, a parziale modifica di quella veneta, che ne proponeva l’immagine concreta sia nell’arte plastica, sia in quella figurativa. Solo più tardi, dopo l’acquisizione della sovranità e del possesso territoriale da parte della Serenissima Repubblica, la raffigurazione dei leoni assunse caratteri maggiormente definiti in senso «dominante» ma con qualche eccezione proprio alla fine di Venezia quando i leoni apparvero, per l’appunto, accasciati o morenti, salvo proporsi ancora una volta in tutta la propria forza, in occasione delle tante proteste contro la nuova dominazione asburgica. In precedenza, erano già sopravvissuti, del resto, anche alla trentina di epidemie pestilenziali che avevano investito il territorio della Repubblica – e non solo quello – per parecchi secoli, e soprattutto, erano stati testimoni della fierezza che il popolo dalmata aveva manifestato nell’accettare il ripetuto confronto con una «realtà effettuale» di sostanziale dipendenza dalle volontà altrui.

Nel corso del Novecento, la storia dei leoni dalmati ha dato luogo a un nuovo capitolo con la distruzione di otto esemplari posti a Traù, tra cui quello nella tradizionale espressione marmorea a figura intera. L’attacco ebbe luogo nel 1932 per opera slava, quale ultimo episodio della questione sorta nel 1919 dopo la vittoria italiana nella Grande Guerra, e dopo l’esclusione della città dalmata dalle zone conferite al Governo di Roma in attesa del trattato di pace, quando il conte Giovanni Antonio Fanfogna fu protagonista di un tentativo insurrezionale di stile dannunziano, volto a inserire anche la sua città fra i territori da trasferire all’Italia. Il tentativo non andò a buon fine per l’intervento americano che vi fece seguito immediato, ma diede luogo a reciproche ritorsioni, all’esilio di molti cittadini italiani di Traù, e infine, all’abbattimento dei leoni, cui fece seguito la ferma protesta italiana.

Durante la conferenza «culturale» tenutasi a Lesina il 19 dicembre 1943, in piena Guerra Mondiale, e con l’intervento di soli esponenti croati, fu programmato di «togliere da tutti i luoghi pubblici in Dalmazia i leoni veneziani, quale simbolo della tirannia straniera», tanto più che evidenziavano «l’assoluta mancanza di valore artistico». Fu l’inizio di una nuova lotta iconoclastica senza esclusione di colpi che avrebbe avuto lunga durata, protraendosi fino agli anni Novanta del «secolo breve», in concomitanza con lo sfascio conclusivo della vecchia Jugoslavia.

Oggi, i tre leoni vivono sulle bandiere del popolo dalmata esule in Italia e nel mondo, in simbolico e perenne omaggio alla lunga storia che li vide protagonisti nel corso dei secoli, testimonianza di una fede e di una speranza che vengono da lontano, e che guardano altrettanto lontano. L’ingresso della Croazia in seno all’Unione Europea ha consentito di abbassare i toni di vecchie polemiche, e le opportunità offerte dalla cooperazione internazionale hanno fatto il resto, ma i leoni continuano ad attestare le buone ragioni della Dalmazia, che restano consolidate, moralmente e civilmente, dal sangue dei martiri e dalla testimonianza plebiscitaria degli esuli, alla luce di una nobile vicenda plurimillenaria.

(maggio 2024)

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