La Iugoslavia, una tragica utopia
Un sogno covato da secoli, realizzato
troppo tardi e da personaggi biechi e senza scrupoli, finì
per tramutarsi in un incubo, e terminò nell’odio e nel
sangue
Ci sono Paesi, Stati, Nazioni che possono vantare una storia plurimillenaria, fatta di vittorie e sconfitte, glorie ed infamie, desideri e delusioni; Paesi, Stati, Nazioni che, anche quand’erano sottomessi all’altrui dominio e divisi, sentivano dentro di sé un senso d’unione, di appartenenza, una comunanza di obiettivi, un cammino che si era iniziato a svolgere insieme e che solo insieme si sarebbe potuto riprendere.
Ma ci sono anche Paesi, Stati, Nazioni che hanno voluto riprendere questo cammino quando troppo profondi erano i solchi che s’erano venuti a scavare tra di loro; quando il cammino comune dell’inizio era ormai relegato nelle ere brumose della leggenda e del mito, sì che di esso non restava traccia neppure nella memoria atavica della comunità, quella memoria collettiva che affonda le proprie radici assai più addietro della semplice memoria di ogni singolo individuo.
La Iugoslavia appartiene a questo secondo tipo di Paesi: uno Stato formato da popoli diversi, che riconoscevano sì – nebulosamente – un’origine comune e una comune appartenenza, ma che ormai erano troppo differenti perché li si potesse stringere assieme coercitivamente, e pensare che la cosa potesse funzionare. Era un sogno, o forse un’utopia, covata per lunghi secoli, con pazienza, finché le circostanze non si erano dimostrate propizie alla sua repentina realizzazione: ma un’utopia tragica, concretizzatasi troppo tardi, che non avrebbe portato alcun benessere alle genti che vi sarebbero state coinvolte, e che sarebbe terminata nella distruzione e nel caos.
Gli Iugoslavi, o Slavi del Sud, provenivano dall’Asia Centrale ed erano penetrati nella Penisola Balcanica tra il III e il VII secolo dopo Cristo quando, spinti dalle tribù nomadi provenienti dal Caspio e dagli Urali, furono costretti ad abbandonare i loro territori. Le tribù alle quali diamo il nome di «iugoslave» parlavano la stessa lingua ed avevano gli stessi costumi, ed il territorio nel quale si insediarono prese il nome di Sclavenia o Sclavonia. Ma ben presto queste tribù, che tutto sommato non avevano forti tradizioni unitarie, si suddivisero in piccoli gruppi che finirono col modificare profondamente lingua e costumi. Ognuno di questi gruppi si stabilì in una vallata, scendendo spesso in lotta coi vicini: i Serbi, gli Sloveni e i Croati, che erano i più numerosi fra i vari gruppi iugoslavi, dovettero lottare per secoli contro nemici meglio organizzati di loro sul piano politico e militare.
I Serbi, che formarono il loro primo Stato nei territori della Bosnia e dell’Erzegovina, furono costretti a combattere con i Turchi e i Bulgari per mantenere la loro indipendenza. Ebbero capi forti e valorosi, fra i quali si distinse particolarmente Stefano Nemanja: questi ottenne intorno al 1210 dal Papa Onorio III il titolo di Re di Serbia; suo fratello Sava venne nominato Vescovo dal Patriarca Greco rifugiato a Nicea: egli conservò l’insegnamento e la dottrina della Chiesa Greca adottando la lingua nazionale serba e unendo la Chiesa allo Stato, così da cementare lo spirito di unità nazionale. Da allora e per più di un secolo, malgrado gli intrighi dei feudatari, le rivalità dei pretendenti al Trono e la debolezza dell’amministrazione interna dello Stato, la Serbia non solo rimase il Paese più potente dei Balcani ma, sotto il grande Re Stefano Ouroch IV, detto Dušan (1331-1355), sembrò dovesse diventare la potenza egemonica della regione: egli riuscì a sconfiggere i Bizantini (strappando loro la Tessaglia, l’Albania e l’Epiro) e i Bulgari, la cui terra fu annessa alla Serbia. Dušan continuò la sua campagna in Macedonia e, dopo essersi fermato nella capitale per farsi incoronare «Imperatore dei Serbi e dei Greci», invase la Turchia; le prime battaglie gli furono favorevoli, ed in breve giunse a soli 50 chilometri da Costantinopoli. Purtroppo, improvvisamente, Dušan morì a soli 46 anni, il 20 dicembre del 1355.
Il Re Serbo Stefano Ouroch IV Dušan con sua moglie Jelena, metà del XIV secolo, monastero Lesnovo (Macedonia)
Dopo la sua morte, l’esercito si sfasciò, e i capi slavi, greci e albanesi divisero il Regno in 24 piccoli Staterelli. Fu la loro rovina, perché i Turchi Ottomani, di gran lunga superiori per numero ed organizzazione militare, iniziarono subito una violenta controffensiva; e le forze divise dei vari Staterelli non poterono opporre un’efficace resistenza. I Serbi si batterono valorosamente per anni, ma il divario di forze era divenuto troppo grande; il 15 giugno 1389, a Kosovo Polje, subirono una disastrosa sconfitta in una spaventosa battaglia. La marea turca dilagò per l’Europa: la dominazione ottomana sui Serbi durò 400 anni, dal XV al XIX secolo.
Gli Sloveni, dopo varie lotte, furono assoggettati dagli Asburgo; essi non riuscirono più a scuotere quel giogo e, fino al 1918, rimasero sudditi della Corona Austro-Ungarica.
I Croati, pur dovendo lottare a lungo contro i Bizantini, rimasero indipendenti per circa tre secoli. Ma nel 1102, sconfitti dagli Ungheresi, furono costretti a riconoscere la sovranità dei vincitori: in seguito ad un’intesa tra i capi delle tribù croate e il Re d’Ungheria, Koloman, questi venne riconosciuto Re legittimo di Croazia e di Dalmazia, impegnandosi per sé e per i suoi successori al rispetto dei diritti dello Stato Croato; quando, nel 1526, dopo la sconfitta dell’Ungheria, i Croati divennero sudditi degli Asburgo d’Austria, videro riconosciuti i diritti già accordati loro dai Re Ungheresi. La dominazione austriaca durò fino al 1918.
In pratica, le uniche terre balcaniche a rimanere libere furono l’Istria e la Dalmazia (appartenenti alla Repubblica di Venezia) e la città di Ragusa (che doveva però pagare, in cambio della libertà, un tributo annuo al Sultano Turco).
La dominazione turca nei Balcani soffocò ogni espressione culturale: molti monumenti furono distrutti o deturpati, la letteratura ed il teatro ebbero una fioritura apprezzabile solo nei territori o per l’influsso veneto e più in generale italiano, mentre la musica colta – che subiva anch’essa l’influenza italiana – manifestò caratteri autonomi solo a partire dal Settecento. La presenza islamica lasciò tracce soprattutto nelle aree più interne di Macedonia, Bosnia e Serbia Meridionale: ne sono testimonianza visibile, ancor oggi, le moschee, templi a più cupole su cui svettano i minareti, quelle tipiche torri da dove il muezzin invita i fedeli alla preghiera. Vi sono poi le fogge del vestiario ed altre usanze tipiche: lo scialle che le donne indossano come copricapo doveva servire un tempo anche per coprire il viso, come un surrogato del caratteristico velo islamico; gli uomini portano ancora la calotta di feltro bianco. Le vie di alcune cittadine hanno una fisionomia orientale, con le loro botteghe di oreficeria e i laboratori degli intagliatori di legno. Ogni tanto si vede qualche vecchio dalla lunga barba che si fuma tranquillo il narghilè, uno strumento per aspirare il fumo filtrato in un recipiente pieno d’acqua.
Il ricordo della battaglia di Kosovo Polje e il desiderio di riacquistare la libertà provocarono a più riprese spaventose rivolte, che furono sempre domate nel sangue. A poco a poco i popoli iugoslavi cominciarono a capire che occorreva unirsi per liberare la loro terra dal dominio turco, spronati in questo dalla Russia e dall’Austria, che miravano ad espandere la loro influenza nella regione.
Nel 1804, quando la potenza dell’Impero Ottomano ormai declinava, i Serbi si ribellarono sotto la guida di Giorgio Petrović, detto Karagjorgje («Giorgio il Nero»): questa fu la prima guerra di liberazione europea e la prima per la conquista della libertà da parte del popolo serbo. Aiutati dalla Russia, che era scesa in guerra contro la Turchia al loro fianco, i ribelli riuscirono in un primo tempo ad impossessarsi persino di Belgrado. Quando però venne firmata la pace di Bucarest (1812) tra Russia e Turchia, Karagjorgje e i suoi guerrieri rimasero isolati: l’eroico patriota venne fatto assassinare da un certo Miloš Obrenović che, per tale tradimento, venne dai Turchi nominato Principe di Belgrado a titolo ereditario. Nel 1830 il Principato di Belgrado fu trasformato in Regno di Serbia.
Dal 1842 al 1858 il Regno fu governato dal Re Alessandro Karagjorgjević, che consolidò lo Stato: venne adottato un codice civile di ispirazione austriaca, e si procedette alla riorganizzazione dei tribunali e delle scuole secondo criteri europei; il Re si appoggiò all’irredentismo dei Croati e dei Serbi ancora sottoposti alla dominazione ottomana per favorire l’espansione territoriale della Serbia ed al Congresso di Parigi del 1856 ottenne il protettorato di tutte le grandi Potenze Europee, garanti dell’indipendenza serba. Uno dei Sovrani più famosi, Michele Obrenović, dopo aver riorganizzato con criteri moderni il suo piccolo esercito, tentò addirittura di raggruppare intorno alla Serbia una vera e propria confederazione di Stati Slavi del Sud: la Turchia, per evitare una sollevazione generale contro di sé, gli cedette cinque fortezze, fra cui Belgrado, e riconobbe definitivamente l’autonomia del Principato. La sua morte improvvisa (venne assassinato il 10 giugno 1868 in una congiura di palazzo ordita da elementi liberali) impedì la piena realizzazione del progetto.
Nella seconda metà del XIX secolo iniziò per i Balcani un periodo confuso e agitato, che andò via via aggravandosi. In seguito alle Guerre Balcaniche del 1912-1913 la Serbia quasi raddoppiò il proprio territorio a spese della Turchia e divenne il centro di attrazione di tutti gli Slavi del Sud ancora sotto il dominio austriaco, costituendo una seria minaccia per l’ormai debole Monarchia Asburgica. L’Austria auspicava una guerra fra la Serbia e l’Impero Austro-Ungarico, per chiudere i conti una volta per tutte, e così, alla prima occasione propizia (l’assassinio dell’arciduca Francesco Ferdinando e della moglie Sofia, a Sarajevo, il 28 giugno 1914), l’Austria – solidamente protetta dalla potenza militare tedesca – attaccò.
Il conflitto passò alla storia come «Grande Guerra» o «Prima Guerra Mondiale»: la Serbia venne invasa da Austriaci e Bulgari, ma la guerra terminò con la vittoria degli Stati che si erano alleati a lei. Il 20 luglio 1917, a Corfù, il Presidente del Consiglio Serbo, Pašić, insieme ai rifugiati delle altre province slave, aveva firmato una dichiarazione preconizzante l’unione dei Serbi, dei Croati e degli Sloveni in un unico Stato: una Monarchia Nazionale, libera, indipendente e democratica.
Il primo Re del nuovo «Regno di Iugoslavia» fu Alessandro Karagjorgjević.
Ma il giovane Regno era composto da popoli che per secoli erano stati divisi: costumi, cultura, lingua e persino scrittura erano diventati diversi. Così ben presto scoppiarono rivalità intestine, soprattutto fra i Serbi (ortodossi e di cultura balcanica), che si ritenevano la spina dorsale del Paese, e i Croati (Cattolici e di cultura occidentale). A questo si deve aggiungere l’esodo di numerose decine di migliaia di Italiani Dalmati, costretti dalla pulizia etnica della Dalmazia a riparare esuli a Zara, nella Venezia Giulia o nel resto d’Italia. La nuova Costituzione istituì un regime accentratore, secondo quanto voluto dai Serbi, dando vita ad una Monarchia Parlamentare in grado di svolgere una politica autoritaria, che poi divenne un vero regime dittatoriale. Negli anni Trenta, una nuova Costituzione e nuove leggi tendettero a smorzare i particolarismi, anche se con grandi difficoltà per l’opposizione sia dei Croati che dei Serbi. Già da tempo, si era formato in Croazia un comitato di agitatori, gli ustascia, propugnatore dell’indipendenza del loro Paese: furono proprio gli ustascia ad assassinare, il 9 ottobre 1934, Alessandro Karagjorgjević in visita ufficiale in Francia. Nel 1939 venne concessa una larga autonomia alla Croazia, mentre il Governo di Belgrado si riservò ogni potere in politica estera, in materia di difesa, di finanze e di interessi nazionali.
Il 6 aprile 1941 la violenta aggressione dell’esercito di Hitler, determinata da un colpo di Stato contro l’adesione iugoslava alla politica italo-tedesca, provocò la rapida rovina del Regno Iugoslavo: il minorenne Re Pietro II si rifugiò col suo Governo prima ad Atene, poi a Londra. La Serbia venne occupata e passò sotto l’amministrazione tedesca; la Croazia divenne uno Stato indipendente, alleato della Germania e dell’Italia, sotto la dittatura dell’avvocato Ante Pavelić, fondatore del movimento ultranazionalista, fascistizzante ed antisemita degli ustascia. Molti patrioti iugoslavi però decisero di rifugiarsi in montagna e di continuare la lotta contro gli invasori: fu questo il gruppo Mihailović, rappresentante del Governo Reale esiliato a Londra e riconosciuto da tutte le Potenze Alleate.
A quel tempo l’Unione Sovietica era alleata della Germania tramite il Patto Ribbentrop-Molotov, ed ai partiti comunisti venne impartito l’ordine di lodare Hiter e Stalin e attaccare l’imperialismo delle plutocrazie franco-inglesi che erano accusate come le maggiori colpevoli e responsabili della Seconda Guerra Mondiale che aveva iniziato ad insanguinare l’Europa. Di conseguenza, nessun comunista iugoslavo sollevò un dito per salvare la Patria dall’aggressione. Le cose cambiarono quando la Germania attaccò l’Unione Sovietica (22 luglio 1941): allora il Komintern richiamò tutti i partiti comunisti dei popoli occupati alla lotta contro il nazi-fascismo. Iniziarono ad operare le formazioni partigiane comuniste comandate da Josip Broz, detto Tito; aiutato soprattutto dai Russi, Tito riuscì ad organizzare le proprie forze in un vero e proprio esercito. Questo – in previsione di una possibile presa del potere alla fine del conflitto – si scatenò contro tutte le persone, di qualsiasi nazionalità, che osteggiavano il comunismo o non lo appoggiavano con sufficiente zelo o avrebbero potuto ostacolarlo in futuro: molti intellettuali, diversi membri di organizzazioni cattoliche, ecclesiastici, teologi, insegnanti, sindaci, uomini dell’esercito regolare iugoslavo, gente comune, oltre a zingari e qualche mendicante; mentre le azioni contro le truppe di occupazione furono assai rade (anche perché tra l’Esercito Italiano, la Wermacht Tedesca e i partigiani comunisti era stato stipulato un patto di non aggressione: Italiani e Tedeschi donavano armi e munizioni, necessarie per la futura rivoluzione comunista in Iugoslavia, e in cambio non venivano attaccati). In Slovenia, per esempio, per tutto il 1941 l’unica aggressione alle truppe di occupazione italiane era stata alla stazione dei carabinieri a Turjak; al contrario, gruppi isolati di partigiani per tutta l’estate e l’autunno avevano scorrazzato nella provincia di Lubiana ed anche nelle rumorose, strette e gelate vallate di Grosuplje (nella sola provincia di Lubiana, nel primo anno di guerra erano stati assassinati dai partigiani comunisti più di 1.000 civili). Per i villaggi, dove non c’erano guarnigioni italiane, i partigiani spadroneggiavano spargendo il terrore: estorcevano denaro, vettovaglie, vestiario e trucidavano; oppure denunciavano agli occupanti, accusandoli di essere partigiani, tutti coloro che non andavano più a genio. Tanto che nei piccoli centri abitati si era organizzata una Resistenza contro la Resistenza (grazie anche all’appoggio italiano) con delle formazioni e dei reparti di cetnici, e in seguito con le guardie di villaggio o campestri. (La sola Slovenia, tra la Seconda Guerra Mondiale e la rivoluzione rossa, ebbe oltre 66.000 vittime, delle quali più di 41.000 sono da attribuire alla violenza del comunismo; in tutta la Iugoslavia, le vittime dei rivoluzionari comunisti, dal 1941 al 1952, furono oltre un milione su una popolazione di 12 milioni di persone – per fare un paragone, è come se in Italia scomparisse di colpo l’intera popolazione del Lazio). Ha raccontato l’ex comandante del Battaglione Partigiano Janez Marn-Crtomir che l’ordine giunto nella primavera del 1942 era: «Tra le persone dobbiamo accattivarci la stima e le simpatie, e la popolazione deve avere paura davanti a noi. Per questo dobbiamo immediatamente disfarci di tutti coloro che non sono con noi. Anche se uno solo dei membri della famiglia è contro di noi, oppure nasconde qualcosa contro le nostre leggi, è necessario incondizionatamente liquidare tutta la famiglia». Del resto, il Partito Comunista aveva sentenziato che «il comunista, che senza un minimo di compassione deve sparare, come uomo non è mai brutale. La distinzione è che, persistendo anche con la maggiore spietatezza nelle relazioni con l’avversario, ciò migliora e nobilita l’istinto dell’uomo».
Tito a Bihàc nel 1942
La maggior parte delle vittime delle bande partigiane comuniste era uccisa senza processo: fucilata, o eliminata con zappe e con coltelli, o gettata nel fuoco e bruciata vive, poi fatta sparire nelle foibe carsiche, negli abissi e nei baratri della Carniola Inferiore e del Carso Interno, seppellita nei fossati anticarro o nei boschi. La vittima doveva il più delle volte scavarsi da sola la tomba, anche se donna in avanzato stato di gravidanza. Ancor oggi non sono state scoperte ancora tutte le sepolture, alcune delle quali contenevano migliaia di corpi. Numerosi testimoni oculari, supportati dal ritrovamento di cadaveri dilaniati, lacerati e massacrati, parlano di torture fatte ai prigionieri, senza badare al sesso o all’età: per esempio una ragazza, la figlia dei Malnar di Sad, comune di San Vito, fu catturata dai partigiani dopo che era andata a San Vito per acquistare mezzo chilogrammo di sale. A nulla erano valse le sue proteste e quelle della madre: la giovane fu condotta al comando partigiano nel bosco. All’interrogatorio il commissario politico le chiese che cosa avesse fatto a San Vito. «Sono andata a comprare del sale» aveva risposto lei. «Bugia!» le gridò qualcuno. La ragazza tentò di spiegare ed una guardia la colpì alla bocca con un bastone: con questo l’interrogatorio era finito e nel contempo era stata emessa la sentenza di morte. Allora i partigiani cominciarono a litigare su chi avrebbe dovuto eseguire la condanna, perché erano in molti a volerlo fare, e persino le partigiane gridavano con strida selvagge di voler partecipare all’esecuzione della sentenza. La sorte cadde su due partigiani che, per la loro crudeltà, erano stati soprannominati «Tigre» e «Lince». Uno dei torturatori andò verso un cespuglio tornandone poco dopo con un lungo pugnale stretto nelle mani: lo pose sotto il naso della giovane e le promise che lo avrebbe ricevuto ogni mezz’ora due centimetri di più tra le costole. Perché la ragazza non potesse gridare, le fu tappata la bocca con una grossa zolla di terreno argilloso, dopodiché il torturatore diede abilmente una spinta al coltello infilandolo nel collo della vittima, stando attento a non recidere le vene principali e dicendo tra sé e sé: «Nessuno pensi che tra poco potrà perdere la vita! Nemmeno una goccia di sangue scaturirà qui attraverso la ferita». Quando la ragazza aveva ormai esaurito tutte le sue forze, «Tigre» le recise i legami e lei rotolò a terra. Rigorosi e decisi, i due boia mantennero la promessa spingendole ogni mezz’ora il coltello più profondamente nel collo, fino a far fuoriuscire lo stiletto dalla parte anteriore. Ridotta in tale raccapricciante stato di sofferenza lei si contorceva per terra; tentò di strapparsi lo stiletto dal collo, ma il carnefice la colpì sulle mani col calcio del fucile. Questa tortura si prolungò per tutto il giorno, finché verso sera completamente sfinita e senza conoscenza la ragazza giaceva a terra; morì a causa delle violenti torture solamente verso la metà del terzo giorno.
Dopo la capitolazione italiana (8 settembre 1943), le azioni di guerriglia sulle montagne si trasformarono in vere offensive: la lotta fu durissima, condotta attraverso imboscate che procurarono alle truppe di Tito il soprannome di «esercito fantasma». Il 20 ottobre 1944, quell’esercito – ormai riconosciuto internazionalmente – entrò a Belgrado insieme all’Armata Rossa. La conquista della Croazia fu invece molto più difficoltosa, data la tenace resistenza degli ustascia, tanto che Zagabria fu presa solo l’8 maggio 1945, quando Hitler era già morto da otto giorni.
Il 7 marzo 1945, intanto, si era formato un Governo sotto la presidenza del maresciallo Tito, cui avevano aderito anche elementi non comunisti che avevano accettato il principio subito affermato di una Iugoslavia democratica e federale. L’11 novembre 1945 l’Assemblea Costituente Iugoslava proclamò cessata la Monarchia e il 29 dello stesso mese instaurò una Repubblica di tipo comunista, della quale fu Presidente lo stesso maresciallo Tito.
(Si potrebbe aprire qui un doloroso capitolo, che rimandiamo ad altra sede per ragioni di spazio, sulle vicende della Zona B del Territorio Libero di Trieste e dei nostri connazionali trovatisi a vivere in territorio iugoslavo: gli eccidi – 30.000 vittime civili – e le persecuzioni anche dopo la fine della guerra costrinsero non meno di 540.000 Italiani, su un totale di 700.000 abitanti, a fuggire dall’Istria, dalla Dalmazia e da quella parte della Venezia Giulia assegnata alla Iugoslavia. Nessuno di essi venne mai risarcito per tutte le violenze e le prevaricazioni subite).
La Costituzione della Repubblica Federativa Popolare di Iugoslavia (comprendente le Repubbliche Popolari di Serbia, Croazia, Slovenia, Bosnia-Erzegovina, Macedonia e Montenegro, oltre alle due regioni a statuto speciale della Vojvodina e del Kosovo facenti parte della Repubblica Serba) del 15 gennaio 1946 sancì che «tutto il potere emana dal popolo ed appartiene al popolo», in realtà i Serbi si accaparrarono tutti i posti di potere a scapito delle altre popolazioni, soprattutto dei Croati, colpevoli di aver appoggiato i nemici; nel 1953, per giunta, fu messo al bando Milovan Gilas, uno dei più prestigiosi collaboratori di Tito, che si era eretto a censore della degenerazione burocratica. Il programma di governo prevedeva lo sfruttamento di tutte le forze economiche del Paese, la nazionalizzazione di tutti i mezzi di produzione, lo sviluppo accelerato dell’industria pesante (in un Paese totalmente privo di qualsiasi industria), l’accrescimento del tenore di vita di tutte le classi lavoratrici... quest’ultimo punto fu del tutto disatteso (per le ragioni che esporremo fra poco).
Nel 1948, in seguito a divergenze politiche ed ideologiche sorte con gli altri Stati del «blocco orientale», una risoluzione dell’Ufficio Comunista d’Informazione (Kominform) condannò formalmente la politica del maresciallo Tito espellendo la Iugoslavia dal cosiddetto «fronte democratico», provvedimento a cui fece seguito la rottura di tutti gli accordi e trattati conclusi fra la Iugoslavia e gli Stati dell’Europa Orientale. Dal 1950, quindi, il Governo di Belgrado, ponendosi come modello autonomo di una via propria verso il socialismo, aumentò la collaborazione economica con i Paesi dell’Occidente (dopo un periodo di forte tensione innescato nell’agosto 1946 con l’abbattimento di due aerei americani), usufruendo anche di ingenti donazioni e prestiti a fondo perduto con cui l’Europa Occidentale e gli Stati Uniti cercavano di evitare un riavvicinamento a Mosca (data anche la posizione geograficamente strategica della Iugoslavia). Per esempio, per dieci anni, dal 1945 al 1955, gli Stati Uniti inviarono alla Iugoslavia gratuitamente tutto il grano che chiedeva, dopo aver donato 40 miliardi di dollari come aiuti a fondo perduto; l’Italia pagò alti indennizzi per i danni di guerra, e la Germania diede un importo miliardario come prestito senza interessi per 99 anni, e senza l’obbligo della restituzione. Nonostante questi ed altri aiuti, e nonostante che per 45 anni ogni posto di comando si diceva fosse stato occupato dai cittadini più importanti e capaci, scelti fra il fior fiore della «intellighenzia» e guidati da grandi visionari come Josip Broz detto Tito ed Edvard Kardelj... nonostante tutto questo, dicevamo, alla dissoluzione della Iugoslavia lo Stato era indebitato per 30 miliardi di dollari che aveva ottenuto in prestito da diversi creditori.
È bene, a questo punto, considerare come il Governo Iugoslavo, dopo aver nazionalizzato ogni proprietà ed iniziativa privata, aveva gestito l’agricoltura (unico mezzo di sostentamento della popolazione, insieme alla pastorizia e all’allevamento) per quei piccoli contadini coltivatori diretti ai quali era stato permesso di lavorare sulla loro modesta proprietà: tutte le aziende agrarie di una certa estensione erano state ridimensionate attraverso l’espropriazione gratuita, e tutti i beni che si ritenevano superflui per far sopravvivere una famiglia – così come era composta in quel momento – vennero nazionalizzati. Nessuna piccola azienda famigliare che era insufficiente per il mantenimento di tutti i membri della famiglia era stata viceversa adeguata per rispondere alla bisogna: anzi, tutti coloro che appartenevano a queste famiglie e che volevano lavorare nelle aziende dello Stato, percepire gli assegni familiari sui figli e l’assistenza sanitaria, dovevano volontariamente rinunciare a tutte le loro modeste proprietà che passavano subito nel «Fondo della Proprietà Comune». Coloro che per qualsiasi causa non erano più in grado di lavorare nei «kolkoz» non potevano più riacquisire la proprietà dei terreni che avevano ceduto, ma potevano comunque lavorarli nuovamente senza impedimento alcuno se nel frattempo non erano stati assegnati ad altri.
Le imposte statali non erano commisurate in base alla classifica catastale delle parcelle: le tasse da pagare erano commisurate in base al raccolto effettivo. In ogni località il Partito Comunista aveva il suo incaricato e confidente che, oltre a controllare tutto e tutti dal punto di vista politico, valutava minuziosamente anche i raccolti e riferiva tutto a chi di dovere. Questo sistema ebbe, dal punto di vista economico, delle conseguenze disastrose: anno dopo anno si era giunti al paradosso che a causa delle esigenze statali la pressione fiscale era arrivata al culmine; tutto quello che veniva prodotto in più di quanto poteva servire per una miserevole sopravvivenza della famiglia veniva commutato in tassa da pagare in denaro.
Nella miseria generale, era diventato anche difficile vendere i prodotti disponibili per acquisire il denaro necessario a pagare le tasse, ogni mercato per disposizioni di legge era inesistente. I negozi erano tutti dello Stato ed i prodotti forniti dai «kolkoz» avevano la precedenza rispetto a quelli dei privati: questi venivano a stento ritirati e solo a prezzi disumanamente irrisori. Il solo prodotto che veniva sufficientemente rimunerato, e che era destinato all’esportazione, era la carne e per pagare le tasse (dato che non le si poteva pagare in natura) i contadini privati dovettero rinunciare alla forza lavoro del bestiame senza avere poi la possibilità di sostituirla con l’acquisto di qualche trattore o zappatrice meccanica.
In ultima analisi, per poter miseramente sopravvivere a nessuno dei contadini indipendenti conveniva ormai produrre nemmeno un grammo in più di quanto era strettamente indispensabile per un mediocre mantenimento della famiglia.
Questo contribuì a provocare il collasso economico del Paese che si reggeva per il sostegno che gli Stati Uniti e gli altri Paesi Occidentali davano alla Iugoslavia purché si mantenesse lontana dall’Unione Sovietica, e per la figura carismatica del maresciallo Tito (che, da parte sua, possedeva numerose residenze, molte automobili, aerei e panfili, grandi disponibilità di denaro, e pagava costosamente la sua gloria e la sua popolarità nel Terzo Mondo).
La morte di Tito, nel 1980, precipitò la Iugoslavia nel caos. Conflitti e tensioni, da sempre presenti, erano diventati già più evidenti nel 1965, dopo la riforma economica che aveva liberalizzato prezzi e mercato; tre anni dopo, la protesta studentesca e giovanile fu seguita dalla repressione; ugualmente furono sedate nel sangue la rivolta degli Albanesi del Kosovo (1968) e quella in Croazia del 1971 appoggiata da molti esponenti del vertice comunista. Una volta scomparsa la figura di Tito, le tendenze centrifughe prevalsero: il tasso di crescita calò e si scoprì che la Iugoslavia aveva un enorme debito estero – l’inflazione a tre cifre sarà il simbolo della crisi. Crescevano sempre più le differenze di livello di sviluppo e di condizioni di vita fra le regioni più «ricche» e avanzate (Slovenia e Croazia) e il resto del Paese. Mio padre si recò in Iugoslavia per lavoro a metà degli anni Ottanta e ne ricavò un’immagine desolante: il Paese – ci raccontò – sembrava fermo a cinquant’anni prima, tutto appariva vecchio, strade, tram, alberghi con le lenzuola strappate o bucate. L’autogestione socialista non funzionava più da collante ideologico, gli organismi centrali erano bloccati da un susseguirsi di veti incrociati dei rappresentanti delle diverse Repubbliche che non riuscivano più a prendere decisioni comuni e a trovare un accordo per un nuovo assetto istituzionale della Federazione.
La disgregazione ebbe inizio il 25 giugno 1991, quando Slovenia e Croazia dichiararono l’indipendenza; il 15 settembre toccò alla Macedonia, seguita nel marzo dell’anno successivo dalla Bosnia-Erzegovina. Intere famiglie, formatesi soprattutto a partire dagli anni Settanta, in cui uno dei coniugi era Serbo e l’altro no, si disgregarono. Una donna croata, sposata ad un Serbo, raccontò che dopo la secessione il marito sembrò impazzire; una sera l’aggredì con un martello, fuggendo poi sulle colline circostanti il villaggio, da dove ogni sera i Serbi scendevano a razziare l’abitato. Lei si era arruolata fra le truppe croate: «Se mi trovassi di fronte mio marito» confessò asciutta «sarei costretta ad ucciderlo».
L’esercito federale iugoslavo, intervenuto con prontezza per riconquistare le regioni secessioniste, fu sconfitto in Slovenia e Croazia, mentre in Bosnia ottenne l’appoggio della popolazione serba, che aveva dato vita ad una Repubblica Indipendente con capitale Pale e voleva unificarsi con la federazione tra Serbia e Montenegro (non riconosciuta internazionalmente) guidata dal Presidente Slobodan Milošević. L’assedio a cui fu sottoposta la città di Sarajevo, capitale della Bosnia-Erzegovina, durò 1.000 giorni, e fu il più lungo assedio subito da una città nella storia moderna.
Vivere nella lunga e stretta valle di Sarajevo, 700 metri di altezza, chiusa da montagne che superano i 2.000 metri digradanti in dolci colline, significò giocarsi alla roulette russa ogni secondo dell’esistenza, giorno e notte. La contabilità dei morti iniziò il 2 aprile 1992 con l’assassinio sul ponte di Vrbanja di Suada Dilberović, una studentessa di medicina di origine croata. Due giorni dopo avvennero i primi scontri armati in città; il 5 aprile i miliziani serbi spararono sugli abitanti in marcia per la pace, ferendone molti ed uccidendo una ragazzina di 13 anni. Nello stesso giorno una bambina di Sarajevo, Zlata Filipovic, scriveva sul suo diario: «In città sta succedendo qualcosa. Dalle colline si sentono degli spari, e da Dobrinja stanno uscendo colonne di gente. Stanno cercando di fermare qualcosa, ma neanche loro sanno che cosa. C’è solo la sensazione che stia per succedere qualcosa di molto brutto. Alla TV si vede la gente radunata davanti al Parlamento della Bosnia-Erzegovina. La radio continua a trasmettere la stessa canzone: Sarajevo, amore mio». Dal 6 aprile sulle colline di Jahorina, sopra la città, i Serbi erano arrivati con le maschere a gas ed i fucili e avevano appostato cannoni, mortai, katiuscia, kalashnikov, mitra e cecchini. Il 27 maggio si registrò la prima strage di civili in coda per il pane nella Via Miskin di Sarajevo; non sarà l’unica di questo genere.
La città si spopolò a poco a poco, chi poteva si metteva in salvo, i suoi abitanti si dispersero per il mondo, le famiglie si divisero. Chi rimase diede vita ad un’ostinata resistenza quotidiana in una città trasformata in un gigantesco ospedale da campo sotto i bombardamenti. La gente attraversava correndo le strade, terrorizzata dal crepitio delle raffiche, dal sibilo delle pallottole sparate dai cecchini, cadendo nel tentativo di raggiungere il posto di lavoro, di procurarsi il cibo o, semplicemente, di giocare. Le attività normali erano paralizzate, via via vennero meno i servizi essenziali: acqua, luce, gas (e quindi riscaldamento d’inverno); le finestre rimasero senza vetri, distrutti dai proiettili o dagli spostamenti d’aria provocati dalle bombe, si faticava a trovare cibo, la città si sostentava con aiuti umanitari, in tutto il mondo si svolsero campagne di solidarietà. In tre anni e mezzo morirono 11.000 persone (tra cui 1.650 bambini) e 52.000 rimasero ferite (l’85% erano civili). Gli accordi di Dayton, nel novembre 1995, mediati e garantiti dall’impegno degli Stati Uniti, posero fine alla guerra in Bosnia-Erzegovina: 2.200.000 persone, oltre la metà della popolazione, erano morte, disperse o profughe.
Tom Stoddart, il cosiddetto «viale dei cecchini», 1993, Sarajevo (Bosnia-Erzegovina)
Due anni dopo si aprì un nuovo fronte nel Kosovo, con violenti scontri tra l’Esercito di Liberazione del Kosovo (militarmente debole ma che poteva contare sull’appoggio della popolazione albanese esasperata dalle discriminazioni razziali) e le truppe serbe, costrette al ritiro nel marzo del 1999 sotto i bombardamenti della NATO (e con la conseguente caduta di Milošević), anche se i combattimenti proseguirono ancora per parecchi mesi.
Il mondo non era rimasto estraneo ai rivolgimenti in Iugoslavia: a più riprese, tra il 1991 e il 1995, la comunità internazionale – ONU, Unione Europea, NATO, Stati Uniti, Russia – tentò di intervenire nella guerra civile iugoslava, sia con mezzi diplomatici sia con mezzi militari, per contenerne o arrestarne gli sviluppi, anche se con risultati molto limitati e contraddittori. Il ruolo decisivo era appannaggio degli Stati Uniti, unica autentica potenza planetaria: l’Unione Europea non era un vero Stato Federale e non aveva quindi una politica estera né un esercito comuni, mentre la Russia, riemersa dalle ceneri dell’Unione Sovietica, era ancora fragile e comunque appoggiava i Serbi.
La Iugoslavia, ormai, aveva cessato di esistere: il sogno dell’unione di tutti gli Slavi del Sud in un grande Stato che sarebbe stato faro di civiltà, dopo essere stato vagheggiato per secoli, era stato realizzato per soli 73 anni – meno di un battito di ciglia nel lungo tessuto della Storia umana – per poi terminare in un bagno di sangue e non risorgere più!
Le Repubbliche Slave