Sommario fiumano: una complessa storia
bimillenaria dell’Alto Adriatico
Dalla presenza latina (176 avanti
Cristo-476 dopo Cristo) alla sovranità italiana (1924-1947)
Nel centenario di Fiume Italiana (24 febbraio 1924) è cosa buona e giusta ricordare a perenne memoria, non soltanto storica, ma prima ancora etico-politica, una lunga esperienza di civiltà e di passione che è stata contraddistinta da venti secoli di speranze e di fede, spesso tradotte in risultati difformi dalle attese, ma nello stesso tempo, di tale impatto da poter attribuire all’antico capoluogo dell’Alto Adriatico Orientale, consapevolmente e correttamente, la definizione di capitale dell’Olocausto. In effetti, la «redenzione» di Fiume, compiuta a circa tre anni dalla conclusione dell’Impresa dannunziana (12 settembre 1919-31 dicembre 1920) dopo avere archiviato anche le brevi esperienze dell’autonomismo di Riccardo Zanella e dell’amministrazione militare di Gaetano Giardino, era sembrata di carattere definitivo, garantito dalla vittoria nella Grande Guerra e dall’entusiasmo con cui il popolo della latina Tarsatica e della medievale Flumen aveva salutato l’affrancamento da tanti secoli di subordinazione, se non anche di asservimento.
Eppure, bastarono i pochi anni del Secondo Conflitto Mondiale e dell’immediato dopoguerra per capovolgere la realtà in maniera radicale, come non era mai accaduto nel corso della storia, e per consegnare alla Repubblica Federativa Jugoslava una Fiume completamente trasformata dal grande Esodo degli abitanti italiani, e dalla loro surroga con quelli nuovi, giunti dalle altre zone del coacervo titoista – destinato a sfaldarsi nelle nuove Repubbliche sorte prima di fine secolo – quando il capoluogo del Quarnaro, unitamente al suo distretto, era stato posto sotto la nuova sovranità croata, dapprima «de facto» (1945) e poi «de jure» (1947).
L’italianità di Fiume, lungi anni luce dall’essere un’invenzione immaginifica di Gabriele d’Annunzio, era stata profondamente e progressivamente confermata e valorizzata da un popolo di convinte tradizioni latine, che aveva fronteggiato con la propria fede e la propria cultura le invasioni avaro-slave del primo Medioevo, confermando nei secoli questo convincimento inamovibile, fino agli 870 voti per «Nessuno» espressi nel 1861, e zero in contrario, quando i cittadini manifestarono un dissenso assolutamente totalitario in occasione della chiamata alle urne per l’elezione di quattro deputati della Dieta Croata, inviando a Vienna un segnale di tutta evidenza circa il proprio atteggiamento politico, che peraltro fu ignorato altrettanto totalmente, con il tipico comportamento assolutista ispirato dalla Monarchia di Francesco Giuseppe. La predetta italianità, come quella di tanti altri centri regionali, non avrebbe potuto né dovuto essere posta in discussione nemmeno nel «secolo breve» ma la sconfitta del 1945 fu tale da impedire qualsiasi scelta diversa da quella del grande Esodo, tanto più che le forze titoiste, all’insegna dell’assunto di «ucciderne uno per convincerne cento», non fecero mistero dell’accoglimento di questa direttiva perversa traducendola in una lunga serie di delitti contro l’umanità, avviata nelle ultime fasi del conflitto e proseguita per parecchi anni con una «perseverantia in malis operibus» davvero emblematica.
Allo scopo di documentare in maniera sintetica ma sufficientemente esaustiva la continuità della vocazione di Fiume, dapprima latina, poi veneta e finalmente italiana, conviene proporre alla comune attenzione fatti e momenti di maggiore significato, se non altro, allo scopo di orientare il «pensiero unico» oggi alla ribalta mediatica, circa una realtà che appartiene alla storia, e che – come tale – è impossibile rimuovere dalla memoria collettiva e dal comune impegno nel conseguente perseguimento di «egregie cose».
176 avanti Cristo: Il Console Romano Claudio Pulcro, a conclusione di un lungo assedio, espugna il castelliere istriano di Nesazio, situato nel distretto meridionale della penisola. Gli abitanti, assieme al Sovrano Epulo, si uccidono per non cadere in schiavitù, mentre al vincitore sono tributati gli onori del trionfo.
129: Un altro Console, Caio Sempronio Tuditano, guida una campagna contro Giapodi e Carni e completa l’opera di penetrazione romana nel Quarnaro, la cui presenza, come da testimonianza di Tito Livio, diventa di carattere stanziale.
59: Giulio Cesare estende la presenza di Roma in tutto il territorio illirico e fonda Forum Julii, l’odierna Cividale, destinata a diventare Municipium. Nell’anno successivo, l’insediamento latino si estende all’isola di Cherso, quale preludio di una storia plurimillenaria.
35: La campagna istriana di Ottaviano Augusto, che ottiene la luogotenenza, si completa con successo e con la fortificazione degli insediamenti romani, fra cui quello di Tarsatica, che in epoca medievale diverrà Flumen Sancti Viti, e poi Fiume.
12: Costruzione del Vallo Romano a difesa della presenza romana nel Quarnaro, che costituisce un segnale di continuità stanziale programmata, ma nello stesso tempo, un implicito riconoscimento del rischio di attacchi esterni.
476 dopo Cristo: Con la deposizione di Romolo Augustolo per opera degli Eruli di Odoacre, finisce l’Impero Romano d’Occidente, sorto alla fine del secolo precedente con la divisione da quello orientale. Contestualmente, si esaurisce l’esperienza sovrana dell’Urbe, dopo oltre un millennio.
800: Distruzione della vecchia Tarsatica per opera barbarica: il toponimo sopravvive in quello di Tersatto, il villaggio che sorge sull’altura sovrastante l’Eneo, e che in tempi successivi diventerà luogo di rinnovata fede cristiana.
804: Placito di Risano. Si attua una manifestazione di «coraggio civico» da parte degli Istriani di origine latina contro i nuovi insediamenti Avaro-Slavi, conclusa con l’allontanamento del Duca Giovanni che li aveva ulteriormente promossi governando quale «longa manus» di Carlomagno. Nondimeno, i risultati concreti del Placito non sarebbero stati conformi alle attese, visto il carattere stanziale di tali insediamenti e la loro maggiore forza, in primo luogo demografica, non disgiunta dalle ricorrenti violenze contro gli eredi della latinità, riassunte in un numero altissimo di vittime.
1028: L’aggregato urbano di Flumen entra a far parte dei feudi controllati dal Patriarcato di Aquileia, che dallo scorcio conclusivo del primo millennio è diventato un punto di riferimento della cristianità e dell’ordine civile.
1126: Gli insediamenti veneziani nel Golfo del Quarnaro assumono importanza di ampio rilievo con quello nell’isola di Veglia.
1300: Nella grande opera di Dante compare il riferimento al Quarnaro «che Italia chiude e suoi termini bagna» e che ricorrerà con particolare frequenza anche nell’epoca contemporanea, sebbene riguardante una realtà geografica dell’età comunale, oggettivamente obsoleta anche per aver trascurato la Dalmazia.
1312: Per la prima volta, il nome di Fiume trova spazio in documenti ufficiali, andando a sostituire quelli dell’antica Tarsatica e della medievale Flumen.
1466: Il capoluogo del Quarnaro si trasferisce sotto la sovranità asburgica, previo riconoscimento dei diritti acquisiti e delle franchigie. Si definisce in breve tempo l’autonomia comunale, e s’istituiscono rappresentanze nelle città di Ancona, Civitavecchia, Manfredonia e Messina.
1509: Al termine dell’assedio veneziano, si fa luogo all’ampliamento dei privilegi comunali nell’ambito della permanente presenza degli Asburgo.
1571: Nella grande battaglia di Lepanto, la «più sanguinosa» del tempo, che conduce alla vittoria delle 214 navi cristiane sulle 282 ottomane, un ruolo di rilievo compete anche agli equipaggi di Cherso e di Veglia, espressione del Quarnaro, il grande golfo fiumano.
1659: L’Aquila diventa parte dell’emblema cittadino di Fiume, con il motto «Indeficienter» quale simbolo di una fede che scorre incessantemente dall’anima profonda del suo popolo.
1702: Nel corso della Guerra di Secessione Spagnola, una flotta francese pone l’assedio a Fiume, ma si ritira a fronte della strenua resistenza da parte della città.
1719: Carlo VI d’Asburgo conferisce il privilegio di porto franco a Fiume e Trieste, che avrà un ruolo importante nel loro successivo sviluppo economico.
1779: L’Imperatrice Maria Teresa trasferisce Fiume al Regno d’Ungheria confermando la sua indipendenza dalla Croazia quale «corpus separatum» e matrice del suo sviluppo durante tutto il periodo asburgico.
1797: Col trattato di Campoformido, i territori veneziani sono ceduti all’Austria, mentre l’ultimo vessillo della millenaria Serenissima è ammainato a Perasto e sepolto sotto l’altare del Duomo. Giuseppe Viscovich pronuncia la celebre allocuzione di commiato.
1815: Il Congresso di Vienna restaura l’Antico Regime e conferma la sovranità austriaca in Venezia Giulia, e quella ungherese per Fiume e Dalmazia.
1847: Per il Cancelliere Austriaco Metternich l’Italia è una semplice «espressione geografica». Il motto diventerà celebre in tutto il Risorgimento quale espressione di un negazionismo autoreferenziale, codino e reazionario.
1849: A seguito dell’eroica resistenza di Venezia durante i moti indipendentisti, a Fiume i Consiglieri e gli impiegati del Comune rifiutano di prestare il giuramento di prammatica al Commissario Croato.
1861: Proclamazione del Regno d’Italia. Gli elettori di Fiume sono chiamati alle urne per eleggere quattro deputati alla Dieta Croata. Dal risultato emergono 870 voti per «Nessuno», quale conferma di un’opposizione totalitaria.
1866: Con la Terza Guerra d’Indipendenza, Veneto e Friuli si uniscono alla nuova Italia ma la Venezia Giulia rimane irredenta, unitamente a Fiume e Dalmazia.
1867: L’Austria ripristina le prerogative comunali a Fiume ma le subordina a nuove rilevanti iniziative dichiaratamente filo-slave in tutto il litorale: a Vienna si è compreso che la stagione dell’irredentismo è destinata a notevoli sviluppi. Nell’anno successivo, Nino Bixio insiste sull’italianità di Fiume.
1874: Un passo formale con esplicita richiesta di rinuncia alle pregiudiziali irredentiste è compiuto da parte austriaca nei confronti dell’Italia. Da parte sua, l’Ungheria decide di ampliare l’autonomia di Fiume.
1877: Giuseppe Avezzana e Matteo Renato Imbriani fondano l’Associazione Nazionale «Italia Irredenta» con il dichiarato scopo di «redimere le terre italiane tuttora soggette allo straniero, per compiere l’unità della Patria». Dal canto suo, l’Austria inizia l’opera di slavizzazione forzosa dei cognomi italiani, a decine di migliaia.
1882: Il 20 maggio si procede alla firma del trattato che istituisce la Triplice Alleanza fra Austria, Germania e Italia. Sette mesi più tardi (20 dicembre) il patriota Guglielmo Oberdan sale sul patibolo austriaco perché colpevole di avere ordito un attentato alla vita di Francesco Giuseppe: sarà esaltato dal Carducci quale caduto «santamente per l’Italia, ammonimento e rimprovero a tiranni di fuori e vigliacchi di dentro».
1890: Il Ministro delle Finanze Federico Seismit Doda, Dalmata responsabile di non essersi dissociato da posizioni contrarie alla Triplice durante un incontro privato, e di avere fatto professioni irredentiste, è costretto alle dimissioni immediate dal Presidente del Consiglio, Francesco Crispi.
1896: Dopo la rovinosa sconfitta africana di Adua per opera etiope, Matteo Renato Imbriani, avendo raccolto 100.000 firme di supporto all’iniziativa, chiede il ritiro delle truppe italiane impegnate nella guerra coloniale.
1902: Si rinnova l’Alleanza con gli Imperi Centrali ma l’Italia non ottiene il riconoscimento del suo carattere difensivo, mentre acquisisce il diritto alla possibile denuncia del trattato dopo un quinquennio.
1905: Nell’ambito delle iniziative a carattere panslavista si registra un avvicinamento serbo-croato cui corrispondono rinnovate iniziative a sfondo irredentista, tra cui la creazione dell’Associazione Patriottica «Giovane Fiume».
1906: In settembre, nuovi incidenti di portata ragguardevole si registrano a Fiume dopo una «spedizione punitiva» di parte croata a danno di patrioti italiani. Segue un intervento ungherese a carattere di calmiere, idoneo a creare una «pax armata» verosimilmente transeunte.
1908: Dopo il terribile terremoto che distrugge Messina e Reggio Calabria il Capo di Stato Maggiore Austriaco Franz Conrad ipotizza l’opportunità di scendere in campo contro l’Italia ritenendola incapace di resistere, ma non ottiene l’approvazione di Francesco Giuseppe.
1911: Nel corso delle celebrazioni per il cinquantenario dell’Unità Nazionale, Paolo Boselli afferma in una conferenza indetta dalla Società «Dante Alighieri» che il «grido di dolore» di Vittorio Emanuele II a proposito delle terre irredente continua a risuonare. Conrad torna a proporre l’ipotesi già formulata tre anni prima.
1912: Le parti contraenti confermano la Triplice con tacita approvazione austro-tedesca dell’acquisto libico da parte italiana, conseguente al conflitto con la Turchia. Si tratterà dell’ultimo rinnovo prima della denuncia formulata alla vigilia della Grande Guerra.
1913: La tensione internazionale continua ad aggravarsi. A Fiume si ordina di mettere al bando tutti i cittadini definiti «non pertinenti» allontanandoli nel breve volgere di 24 ore.
1914: In luglio, a seguito dei fatti di Sarajevo e dell’ultimatum austriaco alla Serbia, scoppia la guerra che in seguito finirà per diventare mondiale. L’Italia sceglie l’attendismo, che si protrarrà per circa dieci mesi.
1915: Il Patto di Londra stipulato fra l’Italia e gli Stati dell’Intesa e destinato alla segretezza (26 aprile) fissa i compensi a fronte dell’entrata in guerra nel breve termine contro gli Imperi Centrali; gli Alleati garantiscono la cessione di Venezia Tridentina, Venezia Giulia e parte della Dalmazia, ma senza Fiume. Poi, l’Italia denuncia la Triplice Alleanza (4 maggio) e scende in campo contro l’Austria-Ungheria (24 maggio).
1917: La terribile rotta di Caporetto (ottobre) induce l’arretramento del fronte dall’Isonzo al Piave, con la cattura da parte austriaca di tanti combattenti e di tante armi, oltre alla fuga di un alto numero di profughi dalla pianura veneta, con ragguardevoli problemi di sistemazione in altre Regioni. Tuttavia, la prova è affrontata con ritrovata unità d’intenti e di speranze, anche grazie alla nomina del nuovo Capo di Stato Maggiore, Generale Armando Diaz, in sostituzione del Generale Luigi Cadorna.
1918: Nell’imminenza della vittoria italiana, annunciata dal superamento del Piave e dalla marcia nella pianura veneta, il Consiglio Nazionale di Fiume presieduto da Antonio Grossich proclama la volontà di annessione alla Madrepatria (30 ottobre) sulla scorta del principio di autodeterminazione. Il 4 novembre, dopo l’armistizio di Villa Giusti firmato il giorno precedente, cessano le ostilità ed esce il celebre Bollettino firmato da Diaz.
1919: All’apertura della conferenza per la Pace (18 gennaio) l’Italia chiede anche l’annessione di Fiume che non sarà concessa. Al contrario, i Granatieri dovranno lasciare Fiume (25 agosto) e poco dopo sarà firmato il trattato di pace italo-austriaco (10 settembre) trovando l’immediata risposta di Gabriele d’Annunzio e dei suoi Legionari che partono da Ronchi (12 settembre) per occupare Fiume «in nome dell’Italia». Saranno accolti da una folla entusiasta.
1920: Il Comandante, nell’intento di superare la condizione di stallo creatasi a Fiume, proclama la «Reggenza Italiana del Carnaro» (12 agosto) ma tre mesi più tardi l’Italia guidata da Giovanni Giolitti firma il trattato con la Jugoslavia (12 novembre) che istituisce lo Stato Libero di Fiume sotto tutela della Società delle Nazioni. Ne consegue il conflitto armato fra truppe italiane e Legionari, detto «Natale di Sangue», che si protrarrà per alcuni giorni (25-31 dicembre) con l’atto di resa, ma col riconoscimento di vittoria morale della Reggenza.
1921: Dopo il celebre Alalà funebre pronunciato nel Camposanto di Cosala in segno di riconciliazione (2 gennaio) e la partenza dei Legionari, anche il Comandante lascia Fiume (18 gennaio) per l’eremo del Vittoriale, dove avvierà un’intensa opera letteraria, comprensiva d’importanti reminiscenze fiumane. A seguire, in conformità alle statuizioni internazionali, s’insedia il Governo Autonomista di Riccardo Zanella (5 ottobre).
1922: Trascorsi pochi mesi di gestione del potere, cade il gabinetto fiumano di Zanella (3 marzo) per iniziativa di Francesco Giunta, cui fa seguito l’assunzione dei poteri provvisori da parte del Generale Giardino. In seguito, dopo il rifiuto che Vittorio Emanuele III oppone alla richiesta del Primo Ministro Luigi Facta di firmare lo stato d’assedio (28 ottobre), il Sovrano conferisce a Benito Mussolini – contestualmente alla sua «Marcia su Roma» – l’incarico di formare un nuovo dicastero di coalizione, affidato allo stesso Mussolini quale Presidente del Consiglio, che sarà sostenuto da un’ampia maggioranza.
1924: Con la firma dell’accordo di collaborazione fra Italia e Jugoslavia (27 gennaio) si definisce l’annessione di Fiume all’Italia che diviene esecutiva con la pubblicazione in «Gazzetta Ufficiale» (24 febbraio) e consente allo stesso Vittorio Emanuele III di ricevere le chiavi simboliche della città finalmente unita alla Madrepatria (16 marzo).
1925: La Convenzione di Nettuno fra Italia e Jugoslavia consente di definire i dettagli dell’accordo precedente e la fissazione dei confini.
1926: Fiume decide la costruzione del Tempio Votivo di Cosala in onore dei caduti del «Natale di Sangue» che vi troveranno degna e definitiva sepoltura.
1928: Dopo tre anni di attesa e dopo aver superato parecchi problemi, con particolare riguardo a quelli causati dalle sue fazioni oltranziste, la Jugoslavia ratifica la Convenzione di Nettuno che diventa pienamente esecutiva anche nel riconoscimento dell’italianità di Fiume da parte di Belgrado.
1933: Carlo Lusina, giovane studente italiano, è ucciso a Veglia, rimasta alla Jugoslavia dopo gli accordi di Nettuno, per avere parlato in italiano con i compagni. Il suo nome comparirà fra le tante vittime delle persecuzioni slave.
1937: Galeazzo Ciano e Milan Stojadinovic firmano il Patto di Belgrado (23 gennaio) con cui la Jugoslavia entra nella sfera politica dell’Asse, e la Dalmazia rimane irredenta, con la sola eccezione di Zara acquisita sin dal trattato di pace a conclusione della Grande Guerra. Gabriele d’Annunzio e Benito Mussolini s’incontrano a Verona per quello che sarà il loro ultimo incontro (30 settembre): il Vate invita il Duce a guardarsi bene da Adolf Hitler, che definisce «Attila imbianchino» con riferimento ai suoi lontani trascorsi professionali. Non sarà ascoltato.
1939: Il Reggente Paolo di Jugoslavia chiude il rapporto politico con Stojadinovic e mette in discussione la politica di amicizia con l’Italia. Dal canto suo, Hitler esorta Mussolini a «chiudere la partita» con la Jugoslavia, offrendo la collaborazione tedesca «ad hoc». Poi invade la Polonia (1° settembre) dopo la cosiddetta crisi di Danzica e provoca l’inizio della Seconda Guerra Mondiale, con l’immediato intervento di Gran Bretagna e Francia a supporto di Varsavia, mentre l’Italia dichiara la «non belligeranza».
1940: Dopo alcuni infruttuosi tentativi dello scacchiere occidentale per tenere l’Italia fuori del conflitto, e non poche perplessità di taluni massimi collaboratori, Mussolini decide per l’intervento e l’Italia dichiara guerra a Gran Bretagna e Francia (10 giugno).
1941: Dopo il colpo di Stato filo-inglese di Belgrado, inizia il breve conflitto italo-jugoslavo (6 aprile) che coincide col momentaneo sfollamento di Fiume, e che trova seguito nella lunga guerriglia proseguita fino al termine delle operazioni militari, e non solo. Lubiana diventa capoluogo di una provincia italiana.
1943: Con la caduta dell’esecutivo fascista e la sua sostituzione col Governo di Pietro Badoglio (25 luglio), l’Italia di Vittorio Emanuele III firma l’armistizio (8 settembre) ed esce dal conflitto. Il Duce, liberato dalla sua prigione sul Gran Sasso abruzzese per opera di paracadutisti tedeschi, fonda la Repubblica Sociale Italiana che continuerà la guerra a fianco della Germania fino all’epilogo dell’aprile 1945.
1945: Il Duce del fascismo è fatto prigioniero dai partigiani mentre tenta un’improbabile fuga a bordo di un’autocolonna tedesca, e passato per le armi (28 aprile). Pochi giorni più tardi, i partigiani slavi entrano a Fiume (3 maggio).
1947: Con la firma del trattato di pace (10 febbraio) l’Italia deve rinunciare, ancor prima della ratifica, alla propria sovranità sulla Dalmazia e sulla quasi totalità della Venezia Giulia, con Fiume, Pola, Zara e le isole, senza contare le perdite delle colonie e di Briga e Tenda, mentre Trieste sarà costituita in Territorio Libero. A mezzogiorno, tutto il Paese si ferma per dieci minuti in segno di lutto.
2020: Come da programmi annunciati, il Presidente Italiano Sergio Mattarella e l’omologo sloveno Borut Pahor si stringono la mano al Sacrario di Basovizza, e presso il Cippo in memoria degli Sloveni fucilati nel 1930, in omaggio a rapporti di «collaborazione, amicizia e condivisione del futuro».
La storia dell’Alto Adriatico Orientale si distingue per una lunga serie di malversazioni, se non anche di autentici delitti contro l’umanità che, come avrebbe detto Giuseppe Giusti, parlano tuttora «a chi li vuol sentire» e continueranno a farlo per sempre. Le vittime delle invasioni avaro-slave che mutarono in modo radicale l’etnia regionale durante il primo Medio Evo e la centenaria persecuzione asburgica compiuta dalla Restaurazione alla «Quarta» Guerra d’Indipendenza conclusa con l’affrancamento di Trento e Trieste, seguito con anni di ritardo da quello di Fiume, sono un monito perenne ed esprimono un invito sempre attuale a non dimenticare, e soprattutto a «trarre gli auspici». Ciò, senza dire delle tragedie dovute agli eventi naturali, come la trentina di pestilenze da cui il territorio giuliano e dalmata fu letteralmente spopolato nei primi sette secoli del secondo millennio.
Quanto è accaduto con la Seconda Guerra Mondiale, e nei tempi successivi alla sua conclusione, è stato una novità assoluta anche rispetto a tutte le vicissitudini precedenti, perché si è tradotto nella fuga di una larghissima maggioranza del popolo, coinvolgendo anche una parte importante dell’etnia slava. In effetti, le persecuzioni di marca comunista, oltre a volgersi prioritariamente contro gli Italiani senza distinzioni di alcuna natura, compresa quella politica, non trascurarono nemmeno detta etnia, come attestano quelle nei confronti di chi non aveva abbracciato il verbo titoista, specialmente in Croazia, in Serbia, in Slovenia, ma sostanzialmente, in tutta la vecchia Repubblica Federativa. Per gli Italiani, peraltro, si sarebbe trattato di una vera e propria pulizia etnica, finalizzata a «liberare» il territorio da una presenza chiaramente ostativa alla costruzione di uno Stato che s’ispirava dichiaratamente al verbo marxista-leninista, che propugnava l’ateismo come nuovo credo ufficiale, e che ripudiava la libertà d’intrapresa in nome del collettivismo d’imperio. Alla fine, Trieste si è salvata dopo un decennio di transizione inaugurato nel 1945 dai nefasti quaranta giorni di occupazione jugoslava, con migliaia di vittime infoibate o diversamente massacrate da parte jugoslava, e proseguito fino al 1954 con la lunga parentesi del cosiddetto Territorio Libero mai costituito formalmente; e con gli «ultimi Martiri del Risorgimento» fra cui alcuni giovanissimi colpiti dal piombo britannico per colpa di un Governatore, o presunto tale, che aveva in odio l’Italia.
Fu naturalmente peggiore la sorte di Pola, tanto più che per il suo futuro erano sorte speranze sia pure effimere, se non altro perché il suo porto sembrava rivestire particolare importanza strategica per gli Alleati: sorte tanto più amara, perché tradotta in un Esodo davvero plebiscitario, concentrato fra lo scorcio conclusivo del 1946 e quello iniziale del 1947. Non a caso, il 15 settembre di tale anno, data di entrata in vigore del trattato di pace, quando gli Alleati consegnarono a Ivan Motika le chiavi della città, Pola era pressoché deserta, tanto da dover essere «ripopolata» nei mesi successivi con provenienze largamente maggioritarie dal Mezzogiorno Slavo.
Le sorti di Fiume, al contrario, erano state chiare sin dall’inizio, se non altro alla luce della sua posizione geografica, e di una storia dalla comprovata fede italica, tanto che il suo Esodo avrebbe largamente anticipato quelli altrui. Del resto, la nuova gestione del potere, crudamente inaugurata ai primi di maggio, non aveva lasciato dubbi di sorta, con una serie di vittime eccellenti, come il primo cittadino e patriota Riccardo Gigante, il Senatore Icilio Bacci di esemplare fedeltà ai Valori tradizionali, il medico Mario Blasich strozzato nel suo letto d’invalido, e gli autonomisti Giuseppe Sincich e Nevio Skull, caduti nell’improbabile tentativo di promuovere una soluzione alternativa alla sovranità jugoslava. Analoga sorte coinvolse anche Italiani assai giovani, come Giuseppe Librio, il ragazzo che nell’ottobre del 1945 riuscì ad ammainare la bandiera slava dal pennone di Piazza Dante, e che l’indomani fu trovato ucciso a revolverate nei pressi del porto. Sempre a Fiume, dopo un breve giudizio dall’esito scontato cadde anche Stefano Petris, Eroe dell’ultima difesa di Cherso, rimasto celebre nella memoria storica assieme al testamento spirituale scritto nella notte prima dell’esecuzione sulla pagina bianca della sua Imitazione di Cristo.
Le vittime fiumane furono quasi innumerevoli sin dai primi giorni dell’occupazione. Sono ancora da menzionare, fra tanti esempi importanti, l’ex Podestà Carlo Colussi, invalido di guerra fucilato a Tersatto insieme alla moglie Nerina Copetti; l’insegnante Giuseppe Tosi, lungamente seviziato prima di essere gettato in mare; Adolfo Landriani, che all’imposizione di inneggiare alla Jugoslavia rispose col grido di «Viva l’Italia» e fu finito con «selvaggia violenza» dai suoi persecutori; il patriota Angelo Adam reduce da Dachau, arrestato dalla polizia di Tito e scomparso insieme a moglie e figlia. A quest’ultimo proposito, giova aggiungere che le donne fiumane cadute per opera slava furono quasi 200.
Oggi, trascorso un intero secolo dal momento in cui Fiume divenne italiana, sia pure per un breve ventennio, sembra di poter affermare, anche alla luce degli ultimi 80 anni, che la sua storia, per usare un termine mutuato dal diritto, sia passata in giudicato. In realtà, l’Esodo plebiscitario dalla Venezia Giulia trasferita sotto la sovranità jugoslava, e da tutta la Dalmazia, ha mutato radicalmente volto al vecchio irredentismo, e gli ha conferito una valenza etica prioritaria, avulsa da rivendicazioni territoriali che non avrebbero molta ragione di sussistere. Ciò trova conferma, da un lato, per la fuga quasi totalitaria delle popolazioni italiane, e per la progressiva scomparsa degli Esuli di prima generazione, la cui fede – salvo eccezioni – non è altrettanto granitica in quelle successive, e dall’altro lato, perché il vecchio assolutismo comunista ex jugoslavo ha ceduto il campo alle nuove Repubbliche Democratiche, peraltro contraddistinte da frequenti e forti suggestioni nazionaliste. Come amava ripetere il vecchio patriota fiorentino Gianfranco Gambassini, Consigliere Regionale in Friuli-Venezia Giulia, ed esponente prioritario della protesta nazionale all’epoca del trattato di Osimo, il futuro è sempre «nel grembo di Giove», ma la cooperazione internazionale, idonea a meglio tutelare i Valori detti non negoziabili, costituisce un motivo di speranza tanto più importante in un mondo inguaribilmente pervaso da tristi venti di guerra.
Le fonti storiografiche sono molto ampie e continuano ad accrescersi con rilevanti contributi. Fra quelli disponibili da tempo, e di ampia diffusione, è da menzionare, in primo luogo, l’opera di Padre Flaminio Rocchi, L’Esodo dei 350.000 Giuliani Fiumani e Dalmati, Difesa Adriatica, Roma 1999, quarta edizione, pagine 324-349. Ne emerge, sulla scorta di quanto pubblicato nel lontano 1984 dal Libero Comune di Fiume in Esilio, che i caduti locali, a fronte di una popolazione che al momento contava circa 66.000 abitanti, furono almeno 1.168, ivi comprese 183 donne, con un’incidenza di queste ultime nell’ordine di 16 punti percentuali, notevolmente superiore alla media. Tra gli altri, caddero anche cinque Medaglie d’Oro nelle persone di Giorgio Agostini, Ettore Di Pasquale, Renato Gregorig, Francesco Kirn, Salvatore Venere e quattordici Medaglie d’Argento. L’opera in questione dettaglia un lungo elenco di nomi, ivi compresi quelli di chi fu vittima dell’occupazione tedesca prima della «liberazione». Per altri ragguagli, confronta Carlo Cesare Montani, Venezia Giulia – Istria – Dalmazia: Pensiero e Vita morale, Aviani & Aviani, Udine 2021, 412 pagine; Massimo Gustincich, C’era una volta Fiume: raccolta di documenti, a cura della Società di Studi Fiumani, Roma 2016. Un’utile sintesi storica corredata da documenti, è quella di Amleto Ballarini, L’Olocausta sconosciuta: vita e morte di una città italiana, Edizioni Occidentale, Roma 1986, 248 pagine. Infine, per un elenco esaustivo dei caduti di Fiume, compresi quelli uccisi durante la gestione tedesca del Litorale Adriatico, si veda: Società di Studi Fiumani, Le Vittime di nazionalità italiana a Fiume e dintorni (1939-1947), Ministero per i Beni e le Attività culturali – Direzione Generale per gli Archivi, Roma 2002, 702 pagine.