Campagne militari in Russia
Utili riflessioni attuali sulla lunga
storia delle sconfitte occidentali
Sono passati oltre due secoli dall’infausta spedizione napoleonica in Russia, che fece registrare una prima decisiva inversione di tendenza nelle fortune dell’Aquila Imperiale, e che ebbe i suoi momenti essenziali nella «conquista» e nell’incendio di Mosca, ma poco dopo nella disastrosa ritirata che vide il sacrificio della Grande Armata, culminato col tragico passaggio della Beresina (novembre 1812) e nella scomparsa quasi totalitaria di un esercito forte di circa 400.000 uomini, che al passaggio del confine era sembrato davvero invincibile.
Qui, è congruo ricordare l’apporto italiano a quella drammatica spedizione, che ebbe un cronista attento e versatile in Cesare De Laugier, un ufficiale toscano di origine francese (era nato a Portoferraio) la cui cronaca fu oggetto, alcuni decenni or sono, di un «reprint» dato alle stampe insieme all’opera di Giulio Bedeschi, in una sorta di struggente confronto con l’analoga tragedia del Corpo di Spedizione Alpino durante l’ultimo conflitto mondiale, che ha lasciato ricordi a maggior ragione angosciosi nella coscienza storica e civile del popolo italiano[1].
In entrambe le occasioni, i combattenti italiani si comportarono con incontestabili manifestazioni di patriottismo ma furono costretti a soccombere davanti alla forza di un nemico invincibile: il Generale Inverno. Non mancarono episodi di eccezionale valore, come spesso accade nelle circostanze estreme, che peraltro non ebbero alcuna «chance» rispetto agli eserciti dello Zar Alessandro, e dopo circa 130 anni, a quelli del «compagno» Giuseppe Stalin.
A proposito del De Laugier, è da porre in evidenza che ebbe un ruolo di rilevante importanza nella storia d’Italia, ingiustamente dimenticato. Dopo la campagna di Russia fu protagonista del Risorgimento, sebbene fosse stato partecipe del Governo Granducale di Firenze, e si distinse sul campo di battaglia di Curtatone tanto da meritare un imprevedibile riconoscimento del suo valore da parte del Comandante Supremo Austriaco: quel Maresciallo Radetzky tristemente famoso in Italia per le persecuzioni a danno dei patrioti italiani del Risorgimento, talmente contestate persino a Vienna da promuoverne la rimozione, e la sostituzione con Massimiliano d’Asburgo nel ruolo di Governatore.
Poi, Cesare De Laugier fu tra gli strenui difensori di Venezia nell’epopea del 1849 contro le soverchianti forze austriache: caso ragguardevole di quella maturazione delle coscienze in senso nazionale che nella fattispecie aveva avuto lontana origine nell’impegno non soltanto militare al servizio di Napoleone, cui sono stati riconosciuti meriti non suoi nell’ambito risorgimentale italiano, ma semplicemente indotti dalle circostanze storiche.
Nell’esercito imperiale che fu immolato al disegno bonapartista di instaurare un nuovo ordine europeo, se non addirittura mondiale, paragonabile a quello del Terzo Reich durante il Novecento, erano rappresentate tutte le nazionalità dei territori conquistati durante il «volo dell’Aquila». Non potevano mancarvi le forze provenienti dai vari Stati Italiani che salvo eccezioni erano entrati a far parte della vasta galassia imperiale: ciò, con particolare riguardo a quelle meridionali guidate da Gioacchino Murat, e nello stesso tempo, ai contingenti del comprensorio Nord-Orientale che furono coinvolti nella breve esperienza del Regno Italico.
A quest’ultimo riguardo, conviene ricordare che i Giuliani, Istriani e Dalmati caduti al servizio di Napoleone furono circa un migliaio, e che con il loro sacrificio diedero un notevole contributo all’acquisizione di un’idea di nazionalità i cui effetti si sarebbero fatti sentire anche a lungo termine, e le cui avvisaglie si erano già avvertite durante la seconda metà del secolo precedente nel pensiero e nell’opera di un patriota antesignano del Risorgimento quale Gian Rinaldo Carli.
Bonaparte aveva firmato nel 1797 l’atto di morte della Serenissima Repubblica di Venezia dopo un millennio di storia gloriosamente unica, modificando in modo irreversibile gli assetti del mondo adriatico, ma nello stesso tempo aveva diffuso i nuovi principi, sia pure suo malgrado, con un’accelerazione destinata a promuovere i primi germogli del Risorgimento fin dai tempi immediatamente successivi della Restaurazione, e quelli ben più consistenti del 1848-1849. Ciò, con particolare riguardo al momento in cui la città di San Marco avrebbe vissuto in senso nazionale la grande esperienza del Risorgimento cui contribuirono, fra i tanti, Dalmati come Nicolò Tommaseo e Federico Seismit Doda, il futuro Ministro delle Finanze del Governo Crispi dimissionato in tempo reale dal Presidente del Consiglio perché in una stagione rigidamente triplicista aveva osato raccogliere il grido di dolore proveniente dalle terre irredente.
A margine della campagna napoleonica di Russia non è fuori luogo ricordare che la dolorosa anabasi di Napoleone aveva avuto un precedente non meno tragico nella campagna di Carlo XII di Svezia, e che tali infauste esperienze sarebbero state tragicamente iterate dalle forze dell’Asse Italo-Tedesca e dei suoi alleati nel Secondo Conflitto Mondiale.
Tale constatazione dimostra in maniera icastica che la storia, a dispetto dell’antico aforisma, non è maestra di vita, e nemmeno di esperienze militari, perché altrimenti non si continuerebbe a ripetere gli errori del passato, in un crescendo quasi rossiniano. È un ricordo doveroso, con particolare riguardo a quello degli Italiani che servirono nell’esercito imperiale e che ne mutuarono il nuovo riferimento a un principio di nazionalità già vivo in senso patriottico nelle nobili iniziative dei precursori e dei primi martiri, e diventato operante, convinto, e finalmente vincitore sia nello scorcio dell’Ottocento, sia soprattutto nel «sole» di Vittorio Veneto alla fine della Grande Guerra, anch’essa pagina di un glorioso Risorgimento[2].
La storia delle sconfitte occidentali sul fronte russo ha assunto un’imprevista attualità nella congiuntura politica del nuovo millennio, con particolare riguardo alla guerra tra Mosca e Kiev, deflagrata nel 2022 dopo parecchi anni di strisciante ma pervicace «conflittualità» russo-ucraina contraddistinta da origini remote, e più recentemente, dalla scomparsa della vecchia Federazione Sovietica e dall’avvento dei nuovi Stati Nazionali. Anche per questo, i riferimenti al passato diventano utili, se non altro quale «memento» idoneo a prevenire i rischi di un allargamento della nuova guerra con dimensioni e con effetti imprevedibili, se non altro alla luce della non impossibile utilizzazione di armi nucleari.
In realtà, con lo scorrere del tempo e con la crescita quasi esponenziale delle vittime, che secondo le ultime stime non sarebbero lontane dalle 600.000 complessive, tali rischi sono diventati sempre maggiori. Ciò è palesemente accaduto per motivazioni dei singoli belligeranti, ma soprattutto per gli interessi e le interferenze altrui, con particolare riguardo a quelle del «blocco» occidentale, molto interessato a sostenere l’Ucraina nell’evidente disegno di estendere la presenza della NATO al suo ampio territorio, e di poter acquisire la disponibilità delle cospicue riserve strategiche ivi allocate. Invero, nell’ambito di detta Alleanza non sono mancate talune perplessità, peraltro di rilevanza circoscritta, alla luce di una «leadership» dei cosiddetti «falchi» guidati da Stati Uniti, Germania e Francia, stavolta con qualche pervicace concorso italiano.
Gli appelli in favore della pace continuano a diffondersi nel mondo, a cominciare da quelli, emblematicamente ricorrenti, del Santo Padre Francesco, ma nei sacrari del potere si continua a fare orecchi da mercante, non senza promuovere investimenti nel riarmo, incessantemente sollecitati da parte ucraina a fronte di presunti ritardi nelle forniture occidentali. Non mancano nemmeno i realisti più realisti del Re, a cominciare dalla Francia, per non dire di alcuni esponenti della maggioranza governativa italiana, che non hanno escluso la soluzione militare pur motivandola con presunte esigenze «juris ac necessitatis».
Nessuno, peraltro, si è chiesto quali siano i veri interessi dell’Europa, e più generalmente di tutto l’Occidente, e soprattutto quali siano i principi fondamentali, etici e giuridici, su cui promuovere la strategia dell’eventuale intervento, dando l’impressione di valutazioni aprioristiche e non sufficientemente ponderate, anche alla luce di ogni possibile mutazione a breve nella struttura politica e nell’orientamento governativo di Stati che vanno per la maggiore.
La prudenza non è mai troppa, soprattutto nell’attuale congiuntura mondiale, indubbiamente caotica e caratterizzata da evidenti limiti istituzionali sopra le parti, senza dire che il rischio di un conflitto non tradizionale, potenzialmente catastrofico come non mai, dovrebbe essere valutato da chicchessia con la necessaria diligenza del buon padre di famiglia. Urgono un sano realismo, e l’astuzia della ragione di hegeliana memoria: si chiede troppo?
1 Confronta Cesare De Laugier-Giulio Bedeschi, Gli Italiani in Russia (1812-1941/1943), Edizioni Mursia, Milano 1980, 248 pagine. Per il testo del De Laugier, che partecipò alla campagna napoleonica di Russia quale sottotenente della Guardia, si veda il testo di cui alle pagine 15-190.
2 L’interpretazione della Grande Guerra come ultima espressione di conflitti del Risorgimento è piuttosto diffusa anche nell’ambito della storiografia più autorevole, non soltanto italiana. Al riguardo, un esempio di particolare rilievo appartiene a Gilles Pécout, Il lungo Risorgimento: la nascita dell’Italia contemporanea (1770-1922), Edizioni Bruno Mondadori, Milano 2011, 464 pagine. In analoga ottica si inserisce la storiografia in merito all’Impresa Fiumana di Gabriele d’Annunzio: fra le tante opere, confronta Pietro Cappellari, Fiume trincea d’Italia: la questione adriatica dalla protesta nazionale all’insurrezione fascista (1918-1922), Herald Editore, Roma 2018, 680 pagine.