Il nuovo ordine mondiale 1941-1947
Un grande numero di istituzioni
internazionali favorì un mondo più pacifico e una diversa
politica internazionale fondata sulla cooperazione
Le basi del nuovo mondo vennero poste prima della fine dell’ultimo conflitto mondiale, nel 1941 con la firma della Carta Atlantica. Il documento firmato nell’agosto di quell’anno costituì una importante svolta a carattere mondiale, per la prima volta nella storia una coalizione di nazioni non combatteva per sostituire all’egemonia del nemico quella propria. In base a quanto sottoscritto i governi di Londra e di Washington (ai quali successivamente si associarono molti altri) stabilirono che: «1) I loro paesi non aspirano a ingrandimenti territoriali o di altro genere; 2) essi non desiderano vedere mutamenti territoriali che non siano conformi ai voti liberamente espressi dei popoli interessati; 3) essi rispettano il diritto di tutti i popoli a scegliersi la forma di governo sotto la quale vogliono vivere; e desiderano vedere restaurati i diritti sovrani e l’autonomia di coloro che ne sono stati privati con la forza; 4) essi col dovuto rispetto dei loro obblighi attuali, cercheranno di promuovere il godimento da parte di tutti gli Stati, grandi o piccoli, vincitori o vinti, dell’accesso, in condizioni di parità, al commercio e alle materie prime del mondo che sono necessarie per la loro prosperità economica; 5) essi desiderano attuare la collaborazione più completa fra tutti i popoli nel campo economico, al fine di assicurare a tutti migliori condizioni di lavoro, progresso economico e sicurezza sociale; 6) dopo la definitiva distruzione della tirannia nazista, essi sperano di vedere stabilita una pace che dia a tutte le nazioni i mezzi per vivere sicuri entro i loro confini, e assicuri che tutti gli uomini, in tutti i paesi, possano vivere la loro vita liberi dal timore e dal bisogno; 7) una tale pace dovrebbe permettere a tutti gli uomini di attraversare senza ostacoli i mari e gli oceani; 8) essi sono convinti che tutte le nazioni del mondo, per ragioni tanto realistiche quanto ideali, debbano addivenire all’abbandono dell’impiego della forza... Analogamente essi aiuteranno e incoraggeranno tutte le altre misure attuabili che possano alleggerire il peso schiacciante degli armamenti per i popoli amanti della pace».
La Carta Atlantica e la successiva Dichiarazione delle Nazioni Unite, non furono semplicemente dei programmi utili per la guerra alla dittatura nazista, ma costituirono la base ideale della futura Organizzazione delle Nazioni Unite e di tutta la successiva politica di relazioni internazionali del mondo occidentale. Negli anni successivi ci fu in Europa e nel resto del mondo un gran fiorire di istituzioni internazionali per l’economia e il commercio.
Due anni dopo la storica firma della Carta Atlantica una conferenza dei ministri degli esteri di Gran Bretagna, Stati Uniti e Unione Sovietica stabilì di dare vita a una nuova organizzazione internazionale per la pace e la sicurezza con maggiori competenze e poteri della precedente Società delle Nazioni che negli anni Trenta aveva rivelato tutti i suoi limiti. Un primo atto concreto in tal senso si ebbe con la creazione nel 1943 dell’UNRRA (Istituzione dell’Amministrazione delle Nazioni Unite per l’Assistenza e la Riabilitazione) in gran parte finanziata dal governo americano per provvedere ai bisogni più urgenti dei paesi precedentemente sottoposti all’occupazione nazista. È interessante notare che gli Alleati si impegnarono per affiancare alle istituzioni che operano nel campo giuridico, per evitare le controversie internazionali, istituzioni economiche come la già citata UNRRA e il Consiglio Economico e Sociale delle Nazioni Unite in quanto si riconosceva che le questioni economiche erano all’origine di molte tensioni internazionali. Come nella precedente Società delle Nazioni l’impulso maggiore alla realizzazione delle Nazioni Unite venne dagli Stati Uniti, che coscienti del loro ruolo internazionale evitarono di ripetere l’errore commesso nel passato di ritirarsi dalla scena politica internazionale e di ritornare al tradizionale isolazionismo. Diversamente l’Unione Sovietica (al di là delle uscite propagandistiche) intendeva procedere nella sua politica di rapporti di forza.
La nascita dell’ONU verrà sancita nella Conferenza di Dumbarton Oaks e alla Conferenza di San Francisco aperta nei giorni immediatamente precedenti alla sconfitta tedesca in Europa. In un discorso del presidente americano Truman alla Conferenza di San Francisco parlò dei pericoli rappresentati dalle nuove armi di distruzione di massa e sostenne che i rappresentanti là convenuti dovevano «essere gli architetti di un mondo migliore. Il futuro è nelle vostre mani. Grazie ai vostri lavori in questa Conferenza sapremo se l’umanità che ha sofferto potrà raggiungere una pace giusta e duratura... Il nocciolo del nostro problema è di provvedere un efficace meccanismo per la conciliazione tra le diverse Nazioni. Dobbiamo costruire un mondo nuovo, un mondo assai migliore del presente, e tale che in esso l’eterna dignità dell’uomo sia rispettata».
Fra i primi impegni del nuovo organismo internazionale vi fu la questione dell’ammissione della Spagna franchista, un piano per l’utilizzazione pacifica dell’energia atomica che non trovò attuazione a causa dell’opposizione sovietica a controlli internazionali reciproci e l’approvazione di una Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo che venne votata anche da paesi che in realtà non intendevano rispettarla. Il nuovo organismo internazionale bloccato dai veti dei membri permanenti del Consiglio di Sicurezza e dalla rivalità russo-americana mostrò ben presto tutti i suoi limiti e i suoi interventi si limiteranno il più delle volte a delle prese di posizioni verbali: «A meno di un anno dalla sua inaugurazione», come ha scritto lo storico Luigi Salvatorelli nel novembre del ’46, l’Organizzazione delle Nazioni Unite «non può essere considerata come una garanzia sicura per la pace. Né più né meno come della Società delle Nazioni, la capacità dell’ONU di mantenere la pace dipende dall’accordo delle grandi Potenze». Negli anni successivi l’Unione Sovietica prese apertamente posizione contro il nuovo spirito di collaborazione internazionale; nel ’47 il ministro russo Zdanov sostenne che «l’idea di un “governo mondiale”, ripresa dagli intellettuali borghesi sognatori e pacifisti, è utilizzata non soltanto come mezzo di pressione allo scopo di disarmare ideologicamente i popoli che difendono la loro indipendenza dagli attentati dell’imperialismo americano, ma anche come parola d’ordine, rivolta in modo particolare contro l’Unione Sovietica».
Gli anni successivi alla guerra fecero ritenere a molti che la pace e la prosperità fossero facilmente a portata di mano e generarono alcune speranze eccessive. Albert Einstein nel ’47 scrisse: «Valuto convenientemente che vi siano persone favorevoli a un avvio graduale di un governo mondiale… Il potere di questo governo mondiale dovrebbe essere determinante in materia militare, e quindi aver bisogno solo di un ulteriore potere. Cioè intervenire in paesi dove una minoranza opprime una maggioranza creando così quella instabilità che porta alla guerra».
Tutte queste importanti iniziative nascevano dall’esperienza della guerra ma anche dalla gravissima crisi economica internazionale creatasi dopo il ’29, che aveva favorito l’ascesa dei totalitarismi. La crisi aveva portato a politiche protezionistiche e guerre commerciali che avevano ridotto in maniera molto pesante il commercio internazionale e aggravato ulteriormente la crisi in origine solo finanziaria estendendola a cascata su tutti i settori economici e sociali.
Le innovazioni introdotte in quegli anni non si limitavano alla sfera politica, anche l’economia e i rapporti fra le nazioni venivano riviste per impedire quelle guerre commerciali, le conquiste di mercati con atti di forza, gli impedimenti all’accesso alle materie prime, che avevano caratterizzato il mondo sviluppato negli anni precedenti. Ben rappresentative del nuovo modo di pensare sono le memorie del segretario di stato americano Cordel Hull: «Ho sempre identificato il libero commercio con la pace, mentre le alte tariffe doganali, le limitazioni al commercio e la competizione economica sleale, con la guerra. Pur comprendendo che molti altri fattori entrano in gioco, rimasi sempre convinto che se si fossero potute realizzare libere correnti commerciali, talché nessun paese fosse geloso degli altri e i livelli di vita di tutti i paesi potessero salire, eliminando così le insoddisfazioni economiche che alimentano la guerra, si sarebbe potuta avere la ragionevole possibilità di una pace durevole». Anche il presidente Truman condivideva questa impostazione; in suo famoso discorso in quegli anni affermò che «il germe del totalitarismo è alimentato dalla sofferenza e dalla miseria. Si diffonde e cresce nel cattivo terreno della povertà e della discordia. Raggiunge la piena crescita quando nel popolo la speranza di una vita migliore è morta. Noi dobbiamo tenere in vita quella speranza».
I principi esposti dal segretario di stato americano trovarono attuazione negli Accordi di Bretton Woods del 1944 e nel General Agreement on Tariffs and Trade, più noto come GATT, del 1947. Due uomini hanno maggiormente contribuito alla realizzazione delle istituzioni previste dagli Accordi di Bretton Woods, gli economisti inglese John Keynes e americano Harry White. I loro progetti presentavano alcune divergenze, quello americano prevedeva la concessione di crediti da parte dell’organismo internazionale, mentre quello britannico prevedeva solo un sistema di compensazione multilaterale di debiti e crediti dei diversi soggetti economici. La finalità comunque era la medesima, evitare l’instabilità valutaria internazionale che tanti danni aveva prodotto nel periodo fra le due guerre, espandere i mercati, senza alterare il sistema economico fondato sul libero mercato. Secondo una certa letteratura gli Accordi di Bretton Woods segnarono il passaggio dalla supremazia del capitalismo britannico a quella statunitense, in realtà l’alta finanza americana espresse molte riserve su tali accordi per gli oneri che gravavano sugli Stati Uniti. Nella conferenza tenuta dagli oltre 40 paesi impegnati nella guerra all’Asse nel 1944 si stabilì una serie di principi per arrivare a un sistema di stabilizzazione monetaria mondiale, provvedere alle esigenze della ricostruzione nei paesi investiti dalla guerra e favorire più in generale i paesi meno fortunati. In particolare gli accordi prevedevano un sistema di cambi fissi, modificabili solo a seguito di squilibri gravi e permanenti delle bilance dei pagamenti, incentrato sul dollaro, di cui il governo americano si impegnava per la sua convertibilità in oro. Il nuovo sistema monetario prevedeva la multilateralizzazione dei saldi valutari, e la nascita di un «gold exchange standard» (cambi fissi fra le monete, corrispondente a una determinata quantità di dollari americani convertibili in oro) diverso dal precedente «gold standard» (la moneta equivalente a una quantità fissa di oro) che aveva operato fino al 1931. Gli accordi sottoscritti in quella sede prevedevano inoltre la nascita di un Fondo Monetario Internazionale per sopperire alle carenze temporanee di valuta di un singolo stato, e la creazione di una Banca Internazionale per la Ricostruzione e lo Sviluppo, finalizzata a finanziare le nazioni danneggiate dalla guerra e successivamente i paesi in via di sviluppo. Nell’FMI ciascuna nazione provvedeva a un versamento proporzionale al suo reddito in oro e valuta nazionale e poteva ottenere prestiti a basso interesse sottoponendo il programma di risanamento agli organi dell’ente, successivamente divenne un’istituzione per il sostegno ai paesi in difficoltà economica, mentre la BIRS, direttamente o attraverso le società affiliate, accordava prestiti agevolati a favore delle nazioni più povere per progetti di sviluppo di vario tipo.
Queste istituzioni non diedero comunque immediatamente risultati apprezzabili in quanto negli anni del dopoguerra tutte le nazioni europee presentavano gli stessi problemi e in particolare avevano tutte necessità di dollari (indispensabili per gli acquisti internazionali) rendendo impossibile quel meccanismo di compensazione fra i diversi soggetti dell’FMI previsto dagli accordi. La crisi valutaria ebbe vaste conseguenze: il franco venne svalutato più volte, il marco era considerato quasi privo di valore, l’inflazione ovunque corrodeva il potere d’acquisto delle monete europee. La Gran Bretagna e gli altri paesi europei avevano utilizzato prestiti americani per far fronte a questa situazione ma erano risultati insufficienti. Nell’estate del ’47 venne quindi deciso dal governo americano un grande piano di aiuti economici e di crediti coordinati per l’Europa. Il segretario di stato americano George Marshall illustrando il programma ricordava che la difficile situazione europea era dovuta alle devastazioni di sei anni di guerra, ma che «la distruzione visibile era probabilmente meno seria dello sconvolgimento dell’intero sistema dell’economia» e che «in molti paesi la fiducia nella moneta locale è stata fortemente scossa... e le esigenze europee di generi alimentari esteri e di altri prodotti indispensabili per i prossimi tre o quattro anni – soprattutto dall’America – sono tanto più grandi dell’attuale possibilità dell’Europa di pagare, da aver bisogno di un sostanziale aiuto straordinario». Le finalità dell’intervento americano erano esplicite: «La nostra politica non è rivolta contro un paese o una dottrina, ma contro la fame, la povertà, la disperazione e il caos. Suo obiettivo deve essere la rinascita di un’economia attiva nel mondo, così da permettere il sorgere di condizioni politiche, sociali ed economiche nelle quali le libere istituzioni possano vivere... un governo che cercherà di bloccare la ricostruzione di altri paesi non potrà attendersi aiuto da parte nostra. Inoltre, i governi, i partiti politici, o i gruppi che cercano di perpetuare la miseria umana per profittarne politicamente o in altro modo, incontreranno l’opposizione degli Stati Uniti. È evidente che, prima che il governo degli Stati Uniti possa procedere ulteriormente nel suo sforzo inteso ad alleviare la situazione e a contribuire ad avviare la ricostruzione europea, vi deve essere un certo accordo tra i paesi d’Europa».
Il programma economico, che passò alla storia come Piano Marshall, prevedeva la concessione di aiuti a titolo gratuito e di prestiti a lunga scadenza con i quali i governi europei potevano acquistare derrate alimentari e prodotti americani per riavviare il sistema produttivo. Diversamente dagli accordi economici del passato, il piano di aiuti era multilaterale e prevedeva la creazione di un organismo di coordinamento fra i paesi beneficiari. Il programma americano nato per risolvere un problema contingente, favorì quindi lo sviluppo della cooperazione fra i paesi europei; le nazioni del vecchio continente diedero vita all’Organizzazione Europea per la Cooperazione Economica per la ricostruzione e la cooperazione internazionale, e successivamente all’Unione Europea Pagamenti, per la compensazione multilaterale nei pagamenti in valuta fra i paesi membri, che furono all’origine delle attuali istituzioni europee. I paesi europei risposero bene alla terapia del Piano Marshall e ben prima della sua conclusione nel ’52 diedero segni di rinnovata vitalità. Gli effetti politici dell’intervento americano si dimostrarono importanti e si deve probabilmente al miglioramento delle condizioni di vita consentito dagli aiuti, se paesi come la Francia e l’Italia, dove erano presenti forti partiti comunisti e agguerriti gruppi sindacali, hanno potuto evitare la totale degenerazione della vita politica. Per John Dulles con gli aiuti «la speranza è rinata e non esiste più quella vasta area di umana desolazione che sembrava offrire al comunismo sovietico l’opportunità di sferrare un “colpo decisivo”». Abbastanza importante è anche notare che il Piano Marshall, diversamente da altre iniziative, offriva la massima pubblicità ai suoi progetti e ai suoi risultati.
Di poco posteriore alla realizzazione del Piano Marshall fu la creazione di un organismo internazionale per il commercio, il General Agrement on Tariffs and Trade, meglio noto come GATT. L’organismo aveva come finalità la riduzione bilanciata e multilaterale dei dazi e delle barriere doganali per consentire un maggiore scambio in tutti i campi e la eliminazione di fatto della «clausola sulla nazione più favorita» che aveva portato nel passato a gravi contrasti internazionali. Sebbene i lavori di tale istituzione si rivelassero lenti e non abbiano portato a una completa liberalizzazione del commercio come auspicato dagli americani, ebbe importanti effetti positivi. Lo sviluppo del commercio, che era rimasto notevolmente ridotto negli anni fra le due guerre, conobbe negli anni Cinquanta un grandissimo impulso, superiore alla crescita stessa della produzione mondiale. Le istituzioni economiche internazionali non si preoccuparono solo dello sviluppo del commercio, ma fornirono anche importanti indicazioni economiche agli stati. Nel maggio del 1944 la conferenza per l’Organizzazione Internazionale del Lavoro sostenne la necessità di una maggiore giustizia sociale e «una politica dei salari, degli orari e delle condizioni di lavoro intesa ad assicurare una giusta ripartizione, fra tutti, del progresso e una retribuzione vitale minima garantita a tutti i lavoratori che ne hanno bisogno».
I grandi cambiamenti politici avvenuti in quegli anni destarono grande entusiasmo fra la popolazione e il mondo della cultura che riteneva prossima un’era di pace e di prosperità per il mondo intero. La nuova era si fondava su un approccio razionale ai problemi politici, sulla negazione di quei «falsi profeti» e di quei nazionalismi che avevano avvelenato l’Europa negli anni passati. Quello che aveva scritto il filosofo liberale Guido De Ruggiero nel 1925 sul nazionalismo che aveva stravolto il senso di nazionalità ben si adatta anche agli anni immediatamente successivi: «Le nazioni si sono chiuse le une alle altre con barriere protettive; hanno dato a tutte le manifestazioni della propria attività un indirizzo ostile a quello delle altre; hanno concepito e posto in atto dei programmi di mutua distruzione o di asservimento». Le stesse idee vennero formulate dallo storico britannico Edward Carr: «La caratteristica più incoraggiante dell’attuale situazione è la prevalenza, soprattutto tra i giovani, della convinzione, profondamente radicata, che il mondo dell’ultimo decennio è stato un mondo dissennato e malvagio, in cui quasi tutto va sradicato e ripiantato».
Accanto allo spirito di collaborazione internazionale si sviluppò una tendenza alla cooperazione all’interno delle nazioni europee. L’idea di un accordo fra le nazioni europee venne lanciata nel 1930 dal ministro francese Aristide Briand. Tale proposta venne alla luce in un periodo in cui il nostro continente entrava in una crisi economica e politica gravissima, non ebbe pertanto seguito e decadde in breve tempo. Iniziative diverse in questa materia vennero espresse dai movimenti della Resistenza nei paesi dell’Europa Occidentale, ma il grande rilancio dell’idea europeista si ebbe nell’estate del ’46 a opera di Winston Churchill. Il grande statista britannico in un suo discorso tenuto all’università di Zurigo affermò che occorreva «ricreare la famiglia europea, o quel tanto di essa che ci è possibile, e darle una struttura sotto cui possiamo vivere liberi e sicuri. Dobbiamo costruire una specie di Stati Uniti d’Europa. In questa maniera soltanto, centinaia di milioni di lavoratori potranno riacquistare le semplici gioie e le speranze che rendono la vita degna di essere vissuta». Nello stesso periodo Jean Monnet, il grande artefice dell’integrazione europea, scriveva: «Non ci sarà pace in Europa se gli Stati si ricostruiranno su una base di sovranità nazionale, con tutte le conseguenze di politica di prestigio e di protezione economica che ne derivano. Se i paesi d’Europa si proteggeranno di nuovo gli uni contro gli altri, si renderà di nuovo necessaria la costituzione di enormi eserciti. Certi paesi, in base al futuro trattato di pace, lo potranno fare; ad altri sarà vietato. Abbiamo già sperimentato questa discriminazione nel 1919 e ne conosciamo le conseguenze. Si concluderanno alleanze intereuropee: ne conosciamo il valore. Le riforme sociali saranno vistate o ritardate a causa del peso dei budget militari. Una volta di più si creerà l’Europa nella paura. I paesi d’Europa sono troppo piccoli per garantire ai loro popoli quella prosperità che le condizioni rendono possibile e di conseguenza necessaria. Hanno bisogno di mercati più vasti… Questa prosperità e gli indispensabili sviluppi sociali presuppongono che gli Stati d’Europa si costituiscano in federazione o in una entità europea».
Con l’affermarsi del nuovo spirito di cooperazione internazionale, vennero progressivamente risolte tutte le questioni territoriali che nel passato erano state all’origine di tensioni e conflitti. Venne definitivamente riconosciuta l’appartenenza dell’Alsazia Lorena alla Francia (soluzione accolta favorevolmente anche dalla popolazione locale di lingua tedesca) e restituita la Saar alla Germania. Sull’Alto Adige reclamato dall’Austria si raggiunse un accordo fra il governo italiano e quello austriaco, sulla Venezia Giulia a malincuore l’Italia dovette rassegnarsi alla cessione della Zona B, sebbene la comunità italiana in quel territorio fosse maggioritaria. La fine dell’antagonismo franco-tedesco costituì una novità di grande portata e lo sviluppo delle relazioni fra i due paesi superò in breve tempo le migliori previsioni.
Negli anni successivi si ebbero numerosi interventi a favore della cooperazione fra i paesi europei tesi a mettere in luce i vantaggi economici e quelli politici. Alcuni movimenti intendevano creare gli Stati Uniti d’Europa attraverso un’iniziativa dal basso, direttamente promossa dai cittadini, altri più realistici ritenevano che la nuova istituzione politica dovesse nascere attraverso negoziati multilaterali che coinvolgessero tutti i governi europei. Le prime organizzazioni nate da questo movimento di idee furono l’Organizzazione per la Cooperazione Economica Europea per la ricostruzione, lo scambio internazionale e migliori condizioni per i lavoratori, e il Consiglio d’Europa che sebbene provvisto di scarsi poteri svolse un’interessante attività nel campo dell’integrazione culturale e dei diritti umani. Non tutte le forze politiche comunque manifestavano piena adesione all’integrazione europea, i comunisti ritenevano che le istituzioni europee sarebbero risultate asservite agli interessi delle classi possidenti, mentre i nazionalisti e in particolare i gollisti ritenevano di escludere la nascita di un organismo sovranazionale che potesse ridimensionare l’autorità dello stato nazionale. Un incentivo alla creazione di un’organizzazione europea venne dagli Stati Uniti; sebbene coscienti che la nuova entità avrebbe potuto costituire un importante rivale nel campo economico, manifestarono sempre il loro sostegno a una politica che mettesse fine alle rivalità fra le potenze europee che nel passato erano state all’origine di numerose tensioni internazionali.
Anche sul piano costituzionale gli anni successivi alla guerra furono anni di intenso dibattito. Il riconoscimento della pari dignità giuridica dei cittadini, previsto dalle carte costituzionali del secolo precedente, appariva superato. Occorreva stabilire delle forme di protezione superiori a favore delle categorie economiche più deboli al fine di tutelare il loro diritto a una giusta retribuzione, alla salute, all’istruzione. L’esperienza dei passati regimi autoritari spinse le forze politiche emerse nel dopoguerra a darsi una struttura statale diversa da quella del passato. Il suffragio universale era già stato introdotto nei primi anni del secolo, venne comunque allargato con il riconoscimento del diritto di voto alle donne, ovunque il potere del capo dello stato venne ridimensionato e privilegiato quello collegiale del Consiglio dei Ministri. Venne realizzato un decentramento a favore degli enti locali e prevista la prevalenza delle autorità elettive su quelle burocratiche. In Francia, Italia e Germania venne introdotto un sistema elettorale proporzionale che garantisse l’accesso al potere anche alle formazioni politiche minori. Infine l’organizzazione della sanità pubblica, il riconoscimento pieno dei sindacati, la previdenza sociale vennero considerati non più elemento accessorio, ma parte integrante dei testi costituzionali, oggetto di perfezionamento nel corso del tempo.
Un’innovazione non prevista dai costituzionalisti, ma realizzata di fatto in buona parte dei paesi europei, fu lo spostamento del centro decisionale dello stato dal Parlamento ai partiti. Progressivamente l’organo legislativo divenne la sede dove venivano approvati progetti normativi già discussi nelle sedi delle organizzazioni politiche. Da una parte l’iniziativa poteva essere considerata positiva, consentendo una maggiore partecipazione dei cittadini alla vita politica, dall’altra tuttavia non offrendo l’organizzazione interna dei partiti garanzie giuridiche precise, aveva portato come nel caso del nostro paese alla degenerazione della politica. Molte delle costituzioni approvate o riviste in quegli anni hanno retto alle vicissitudini successive, ma nel caso della Francia misero in luce che l’eccessiva disgregazione dei poteri può provocare situazioni di instabilità gravissima.