Abu Simbel
Un salvataggio anche italiano
Il tempio di Abu Simbel e tutto il territorio circostante racchiudono in sé una buona parte della storia, dell’arte, delle leggende, delle tradizioni, dei misteri che rendono l’Egitto unico al mondo del suo genere.
Per-Ramesses-Miamon (tempio maggiore), XIII secolo avanti Cristo, governatorato di Assuan (Egitto)
Il santuario vide la luce oltre 3.000 anni fa, in Egitto, sulle sponde del Nilo e in pieno deserto, a circa 280 chilometri a Sud di Assuan e a 40 chilometri dal confine con il Sudan, nelle vicinanze dell’attuale lago Nasser, insieme con quello dedicato all’amata consorte Nefertari, voluto dal Faraone Ramses II a seguito dei suoi desideri di espansione, sia per questioni religiose sia per ricordare la grande vittoria ottenuta combattendo l’orgoglioso popolo degli Ittiti. La battaglia avvenne a Kadesh, sulle sponde del fiume Oronte in Siria nel 1274 avanti Cristo. Infatti il Faraone, con questo complesso architettonico, intendeva ringraziare gli dèi adorati dagli Egizi, cioè il dio del sole e padre degli dèi Ra, il protettore degli artigiani e dell’arte Ptah, il protettore di Tebe Amon e il dio creatore della luce Horakthy. Da notare che, per illuminare queste figure, il raggio solare impiega venti minuti.
E, indirettamente, c’era lo scopo di rendere onore al Faraone, alla sua potenza e all’influsso divino sulla sua persona, e inoltre a rendere evidente, a chi si trovasse di fronte a quel monumento maestoso, artisticamente sublime, di chi fosse la rappresentazione simbolica. Era anche desiderio del Sovrano estendere la sua influenza e la cultura del suo popolo verso le regioni della Bassa Nubia, la parte meridionale dell’Egitto, e l’Alta Nubia, la parte settentrionale del Sudan e di istituirne un collegamento.
Il desiderio di Ramses II era che la costruzione affrontasse il futuro indenne, senza che i futuri eredi ci mettessero le mani. La costruzione è avvenuta nel ventennio che va dal 1264 al 1244 avanti Cristo oppure dal 1244 a 1224: questa differenza, che non cambia nulla, è legata alle diverse interpretazioni della vita di Ramses II.
La conservazione dell’immane struttura nel tempo fu favorita dalla sabbia, che coprì tutta l’area di Abu Simbel: solamente nel 1813 ci fu la scoperta da parte dell’archeologo svizzero Burkhard al quale, sembra opportuno ricordarlo, fu attribuita pure la scoperta di un altro complesso eccezionale, vale a dire quello di Petra; però pare che, per primo, a entrare nel complesso monumentale di Abu Simbel sia stato l’italiano Giovanni Battista Belzoni quattro anni dopo, nel 1817.
La struttura architettonica si offre all’ammirazione degli spettatori con quattro statue sedute, che sono il ritratto, in dimensioni enormi, del Sovrano, e che sono ritenute fra le più importanti e significative del ricco complesso delle opere egiziane, le quali, tuttavia, non sono né poche e tanto meno di scarso valore artistico, bensì tutt’altro. La posizione delle statue non è casuale: infatti, sono allineate in maniera tale che per due volte l’anno, ovverosia ai solstizi d’estate e d’inverno (21 febbraio e 21 ottobre), il primo raggio dell’astro diurno possa entrare all’interno del tempio e illuminare il viso della statua del Sovrano e delle statue degli dèi che la accompagnano, impiegando una ventina di minuti; ciò dimostra quanto il tutto fosse permeato da un significato religioso per gli Egizi, evidenziato dalla costante presenza del Faraone. Oggi il fenomeno, dopo la ricostruzione, si ripropone sistematicamente, ma posticipato di un giorno; infatti, a causa di un leggero spostamento del Tropico del Cancro accantonato in 3.280 anni, il fenomeno si ripresenta ma con il ritardo di un giorno, pertanto eccolo puntuale il 22 febbraio e il 22 ottobre. Il sole non ha smesso di rendere onore a Ramses II, ma ora lo fa il giorno successivo.
L’illuminazione avviene nel luogo più appartato e custodito dell’intero Tempio Grande, in altre parole in un ambiente di 7 metri per 4, dove riposano i simulacri, oltreché del Faraone Ramses II, dei ricordati Ptah, Amon e Horakthy.
Però, si deve ricordare che tutti gli anni il Nilo allagava l’area, parzialmente sommergendo i templi dell’isola di File, dove l’acqua ristagnava per diversi mesi. Pertanto, verso la metà del secolo XX si iniziò a pensare a come sarebbe stato possibile regolamentare le esondazioni del Nilo nella valle di Kalabsha, una sessantina di chilometri a Sud di Aswsan High Dam, dove è costante il rischio sismico dovuto alla faglia di Kalabsha, Segval e Khor El-Ramba. E la conclusione fu che solamente con una diga opportunamente situata e di adeguata altezza si sarebbe ottenuto lo scopo.
Così, nel 1955, il Governo, del quale era Presidente Gamal Abdel Nasser, ritenne necessaria la realizzazione di una diga ad Assuan, che avrebbe formato un enorme bacino idrico riguardante il Basso Egitto, la regione della Nubia e il territorio settentrionale del Sudan, e che, purtroppo, avrebbe condannato all’oblio i monumenti antichi costruiti in quell’area annegati sotto le acque del nuovo bacino idrico, la cui profondità massima sarebbe stata di 90 metri. Soluzione encomiabile dal punto di vista idraulico, ma disastrosa per i templi di Abu Simbel e quelli dell’isola di File.
Comunque, ritenuto che fosse più necessario regolamentare le acque del Nilo che salvaguardare i complessi architettonici, fu avviata la costruzione della diga. Dopo tre mesi dall’inizio, precisamente il 9 gennaio 1960, ci fu un intervento di grande peso e forse decisivo da parte dell’UNESCO (United Nations Educational, Scientific and Cultural Organization), che lanciò un accorato appello al globo terracqueo, facendo presente che un tale progetto avrebbe alzato enormemente il livello dell’acqua, coprendo tutto quanto era stato costruito nella zona, annegando miseramente migliaia di anni di storia e che sarebbe stato un delitto se ci si fosse rassegnati a permettere che un patrimonio artistico dell’intera umanità di quella specie andasse miseramente e definitivamente perduto, sommerso dalle acque di un lago artificiale. In tantissimi furono coloro che, fra studiosi, archeologi e tecnici, risposero all’appello e si ritennero pronti a partecipare all’immane impresa, insieme con una manodopera qualificata e volontaria. Detto questo, insistette l’UNESCO, se ci fosse stata l’intenzione di salvare il possibile, era necessario darsi da fare senza perdere tempo.
Ma in che cosa consisteva il lavoro? In breve, si poteva sintetizzare il tutto in poche e striminzite parole, ma sature di operazioni importanti, pericolose e che talora potevano contenere brutte sorprese.
La notizia fece il giro del mondo, sollevando la perplessità della gente che, pur non essendo del settore, riteneva che si trattasse di un possibile, potenziale, ma inevitabile scempio senza rimedio alcuno, e accendendo l’interesse degli studiosi, degli archeologi e dei tecnici, che al contrario cominciarono a pensare alla possibilità di prendere provvedimenti in modo fattivo, attraverso un complesso intervento che impedisse la perdita per sempre di opere di inestimabile valore artistico e storico.
E così, dalle parole si passò ai fatti, mettendo nero su bianco, con l’intenzione di realizzare un’opera che la definizione di faraonica era proprio adeguata all’ambiente in cui veniva attuata. Si misero in contatto fra di loro le più grandi e importanti imprese di costruzione del globo intero, attivando una collaborazione internazionale che, alla fine, ebbe il successo che meritava, facendo zittire lo scetticismo avanzato da molti, convinti che si trattasse di un’impresa impossibile. Certo è che non si trattava di una bazzecola dal punto di vista tecnico e tanto meno da quello di carattere eminentemente economico, giacché si doveva investire la favolosa cifra di diverse decine di dollari americani.
Quale doveva essere l’impegno materiale di coloro che avrebbero partecipato al lavoro? Tanto per avere un’idea di cosa si andava contro, si possono ricordare le dimensioni del santuario di Abu Simbel, che è costituito da due templi: il primo, lungo 35 metri e alto 30, inconfondibile con altre costruzioni, con le quattro statue sedute tutte raffiguranti Ramses II, è dedicato a se stesso, e il secondo è dedicato all’amata consorte Nefertari; questo, distante un centinaio di metri da quello del Sovrano, è più piccolo e riporta su fronte le statue di sei uomini alti 10 metri, di cui quattro impersonano il Faraone e due la Regina. Il Grande Tempio è ben tenuto all’interno dove fanno bella mostra di sé le raffigurazioni degli amati dèi protettori.
L’opera di spostamento riguardava i due templi composti, indicativamente e rispettivamente, da 265.000 e 55.000 tonnellate di roccia, affrontando un’impresa con la quale fino ad allora non solo nessuno si era mai misurato, ma nemmeno aveva pensato che lo si potesse fare. Fra i vari partecipanti, il consorzio europeo fu quello che propose il progetto dell’intervento ritenuto il migliore perseguibile: tagliare i monumenti in blocchi, spostarli su una collina artificiale con la piana superiore 65 metri più in alto e più lontana dalla sponda del Nilo di 280 metri, formata da roccia originaria, irraggiungibile per l’acqua dell’invaso che sarebbe stato realizzato, e quindi rimetterli insieme; poche parole per descrivere un fatto che, veramente, è al di fuori di ogni norma.
Pertanto, nel 1963, fu affidato l’incarico a un consorzio di imprese, fra le quali presenziava pure l’italiana Salini Impregilo, che aveva l’incarico di portare a termine tutto quanto era messo nero su bianco nel progetto: preparare la collina artificiale, smontare i due templi in più di un migliaio di componenti, trasportarli e rimetterli insieme. «Sic et sepliciter»!
Naturalmente, fu necessario approntare tutto quanto potesse rendere accettabile la vita dei componenti della massa di lavoratori, aprendo le strade necessarie ai rifornimenti, montando una centrale elettrica, fondando un villaggio nel quale furono allestiti gli ambienti per i lavoratori, un ospedale, centri di svago e un aeroporto; un altro villaggio fu destinato a custodire le macchine di scavo, le tagliatrici, i martelli piccone, i macchinari da cantiere, le gru, tutto materiale inviato dall’Europa.
Il 21 maggio 1965, si fece la prima prova con l’asportazione di un blocco del Grande Tempio e, considerato che tutto si era svolto per il meglio, si affrontarono con una certa sicurezza le varie fasi dell’opera.
Innanzitutto si approntò una diga di sbarramento della lunghezza di 270 metri e dell’altezza di 25, usando 380.000 metri cubi di roccia e 11.000 metri quadrati di lamiere di acciaio in pile, per impedire l’innalzamento dell’acqua nell’area dei lavori; per ragioni di sicurezza, fu preparato un valido sistema di dragaggio, associato a pozzi e canali sotterranei. Questo richiese un anno di tempo.
Fatto questo, si passò alla fase successiva che consisteva nello smontaggio dei templi. All’inizio del 1965, si iniziò con l’asportazione della parte superiore della facciata del tempio, mettendo in sicurezza le statue sottostanti con 19.000 metri cubi di cuscini di sabbia per evitare possibili danni causati da cadute di detriti rocciosi. E pure l’interno fu protetto da un’impalcatura in acciaio profilato che doveva irrobustirlo.
A quel punto, si era pronti per iniziare la fase più impegnativa e delicata dell’intera operazione: tagliare il tutto in blocchi, trasportarli sulla collina artificiale e, lì, rimetterli insieme. Il lavoro fu affidato a maestranze internazionali, fra le quali fu un’ottima scelta quella di far intervenire cavatori di Carrara per le loro esperienza e capacità lavorativa a proposito di pietre ornamentali, ai quali furono dettate le condizioni richieste per espletare un buon lavoro: innanzitutto, i blocchi non avrebbero dovuto superare le 20 tonnellate di peso ciascuno, con la sola eccezione per i blocchi della facciata che sarebbero potuti essere 30 al massimo; inoltre, anche le superfici non dovevano superare certi limiti, che erano fissati nei valori massimi di 15 metri quadrati per le parti della facciata, 12 metri quadrati per le pareti delle varie stanze e 10 metri quadrati per quelle del soffitto. Una raccomandazione particolare riguardava lo spessore dei tagli, che non dovevano assolutamente superare i 6 millimetri; richiesta che fu soddisfatta con tagli ancora più sottili di quanto desiderato.
La segagione, seconda fase dell’opera, ebbe inizio nel maggio 1965 e iniziarono i trasporti dei blocchi, opportunamente protetti contro danni materiali da un trattamento con resina sintetica, verso la destinazione finale, costituita da un parco di più di 4 ettari, dove erano sistemati e catalogati in modo tale da poterli individuare senza difficoltà al momento della loro ricollocazione.
Quando ormai si era alla conclusione dei trasporti, nel gennaio 1966, si iniziò la terza fase: il rimontaggio, che si concluse a settembre 1968.
Fu un lavoro da certosino, portato a termine dai manovali e dai manovratori dei macchinari necessari, sotto l’attenta guida dei tecnici (ingegneri, geometri e periti), per ottenere il posizionamento dei blocchi in maniera perfetta. Le gru li appoggiavano sul suolo, da dove, poi, venivano ripresi per essere sistemati nel loro posto definitivo, manovrando le macchine idrauliche adatte allo scopo: erano operazioni che spesso richiedevano diverse ore. Ma non era finita lì, perché si doveva ricostruire il complesso dell’ambiente com’era all’origine di tutto quel trambusto sia per quanto attiene alla facciata, sia in merito alle colline artificiali, elevate utilizzando la roccia a disposizione.
Con la diga di Assuan, costruita fra il 1958 e il 1970, nacque il lago Nasser, così denominato in onore del Presidente Egiziano, che pare sia stato il primo a pensare all’importanza idraulica che avrebbe avuto tale realizzazione; i Sudanesi chiamano la parte del bacino nel loro territorio con il nome di lago di Nubia. Il bacino artificiale, che si trova a cavallo del Tropico del Cancro, è lungo 550 chilometri e ha una larghezza massima di 35 chilometri e una profondità che raggiunge i 90 metri; l’estensione superficiale è di 6.000 chilometri quadrati e la capacità volumetrica è di 157 chilometri cubi di acqua.
Alla fine, il complesso dei lavori ha tenuto impegnati tecnici e lavoratori per 40 milioni di ore lavorative e con l’investimento di 40 milioni di dollari americani di quel tempo.
Dopo cinque anni di un duro lavoro che ebbe un enorme successo, finalmente i templi sono tornati al loro antico splendore, e senza il rischio di finire sott’acqua, grazie alla quota di 65 metri sul Nilo e di 280 metri di distanza dalle sue sponde, e pronti a essere ammirati e, perché no, invidiati dalle schiere di visitatori di ogni parte del mondo. Questo complesso architettonico di incomparabile bellezza e maestosità sta a rappresentare un duplice aspetto dei preziosi frutti della creatività, dell’estro e della fantasia della mente dell’uomo e della sua capacità lavorativa: infatti, mentre da un lato si riconosce la geniale inventiva del costruttore, che lascia il suo segno di talento nei prodotti che escono dalle sue mani, dall’altro interviene la capacità tecnica e inventiva di chi, trovandosi fra le mani opere di prodigiosa qualità e malauguratamente destinate a sparire nel nulla, si prodiga spesso inventandosi le soluzioni, talvolta ritenute cervellotiche dai più, che alla fine regalano, meritatamente, il risultato agognato. Questo dovrebbe servire da esempio e da insegnamento per coloro che, un giorno, si troveranno in situazioni analoghe e, dovendo decidere il da farsi, troveranno il giusto conforto e il giusto appoggio tecnico e morale.