Vergarolla: strage senza fine
LXXII anniversario dell’eccidio (18 agosto 2018): nuove offese alle vittime

Il Ricordo del grande Esodo giuliano e dalmata, e degli innumerevoli delitti perpetrati dai partigiani slavi a danno degli Italiani, si va affievolendo col passare inesorabile degli anni, come era stato ipotizzato sin dalla promulgazione della Legge 30 marzo 2004 numero 92, che aveva voluto istituzionalizzare quel Ricordo con voto quasi unanime, sia pure con un colpevole ritardo di sei decenni. Del resto, la mancanza di sanzioni per il caso di inadempienze purtroppo frequenti (in specie per quanto riguarda la commemorazione nelle scuole) e l’ostracismo tuttora presente in diversi contesti politici, hanno rastremato l’interesse della pubblica opinione, peraltro già relativo, nei confronti di quella grande tragedia storica, che vide la diaspora di 350.000 esuli e l’estremo sacrificio di almeno 20.000 vittime innocenti.

Non fanno eccezione quelle di Vergarolla, la spiaggia istriana nei pressi di Pola dove la cerimonia indetta dalla «Pietas Julia» in una domenica d’estate (18 agosto 1946) venne funestata dallo scoppio di 28 bombe di profondità contenenti 10 tonnellate di tritolo, e dall’uccisione proditoria di oltre 100 martiri (in maggioranza donne e bambini con un’età media di 26 anni) che fu possibile identificare soltanto in 64 casi. Erano passati 16 mesi dalla fine della guerra, ma una mano criminale ritenne di dover continuare a colpire, dando luogo alla strage col maggior numero di vittime verificatasi nell’Italia del Novecento per cause non naturali, in periodo di pace.

Nonostante la naturale mancanza di una «pistola fumante» fu subito chiaro quali fossero le matrici del vile attentato, compiuto in odio all’Italia, tanto è vero che i caduti furono tutti Italiani, come la gran parte dei feriti, fatta eccezione per due militari inglesi appartenenti alle forze di occupazione. Dopo l’apertura degli archivi britannici del Foreign Office (2008) si giunse persino all’identificazione dei responsabili, anche se la valenza dell’iniziativa, dopo tanto tempo dai fatti, ebbe mero rilievo storico. Nondimeno, da parte jugoslava prima e croata poi, non si è mai voluto ammettere, in assenza della cosiddetta prova regina, che la responsabilità dell’eccidio fosse di matrice OZNA, la polizia politica di Tito, a onta del profluvio di indizi a suo carico. Anzi, c’è qualcuno che continua a sostenere l’ipotesi, invero grottesca, che la deflagrazione fosse stata innescata da un mozzicone di sigaretta, pur essendo noto che tutte le bombe erano state disinnescate all’atto dello stoccaggio.

Ora, con lo scorrere ulteriore del tempo e con l’avviamento del disgelo più volte auspicato, reso più tangibile dopo l’ingresso della Croazia nell’Unione Europea (2013) in un quadro necessariamente collaborativo, la strage del 1946 sembra destinata a rinchiudersi sotto un velo di dubbi strumentali, e nello stesso tempo, di attenzioni assai più sfumate anche nelle sedi istituzionali, a tutto danno della verità e della trasparenza storica. Ne costituisce un esempio per taluni aspetti clamoroso quanto è accaduto a Pola, in occasione del LXXII anniversario della strage (2018) commemorato con due distinte manifestazioni rigorosamente separate: la prima, a cura dell’Amministrazione comunale e dell’Associazione dei combattenti antifascisti, e la seconda, per iniziativa dell’Unione Italiana e del Libero Comune di Pola in Esilio. È inutile aggiungere che nell’occasione si sono udite soltanto frasi di circostanza, unitamente a un pilatesco «rammarico per la mancata identificazione dei responsabili».

C’è di peggio. Secondo notizie «on-line» rivenienti dall’Associazione Milanese dei Triestini e Giuliani, per iniziativa del suo Presidente Marco Fornasir, l’idea sollecitata da tempo circa l’integrazione del monumento di Pola con i nomi di tutte le vittime identificate (al pari di quanto avvenuto da tempo a Trieste con la stele installata nella Zona Sacra di San Giusto a cura della Federazione Grigioverde e della Famiglia di Pola in Esilio) è abortita per non meglio definite opposizioni e responsabilità locali, senza dire che si starebbe mettendo in discussione, per improbabili esigenze archeologiche, persino il pur semplicissimo cippo in memoria dell’eccidio dove hanno trovato posto le sole citazioni della data e del luogo. In questa ottica, non sorprende che le dichiarazioni di rito, come quelle rese dagli inossidabili Fabrizio Radin e Maurizio Tremul, esponenti di spicco della minoranza italiana polese, siano state prive di qualsiasi effettivo impegno etico-politico, arroccandosi in una conclamata e rinnovata declaratoria antifascista. Considerazioni non dissimili possono essere svolte per gli scarsi contributi informativi comparsi in Italia, come quelli di Marco Petrelli su «Barbadillo» e di Carla Isabella Cace per il «Comitato 10 febbraio» (pur nel rinnovato auspicio di non dimenticare la matrice terroristica della strage).

L’affievolimento del Ricordo può considerarsi fisiologico nel quadro della triste, progressiva scomparsa dei protagonisti, ma proprio per questo diventa a più forte ragione necessario che ciò non accada in sede istituzionale, cui compete l’obbligo morale, ancor prima che giuridico, di onorare i martiri nell’ambito di un sereno giudizio storico, scevro da strumentali posizioni riduzioniste o negazioniste, e lungi da palesi discriminazioni, purtroppo inveterate.

Le iniziative per la ricorrenza del 18 agosto, a quanto risulta dalle fonti, si fermano a quelle citate: certamente non molto, complice la nuova tragedia di Genova appena abbattutasi sull’Italia unitamente alle ricorrenti apprensioni per lo «spread» e al pervicace clima vacanziero del bel Paese. Eppure, quella strage conserva un significato che trascende il pur altissimo numero di caduti, avendo segnato la fine delle ultime illusioni prima del trattato di pace che sarebbe stato firmato sei mesi dopo, e la decisione di scegliere l’Esilio anche da parte dei cittadini di Pola che lasciarono la propria città nella misura di oltre nove decimi, con il supporto di un Comitato per l’Esodo in cui ebbe un ruolo significativo la collaborazione di Maria Pasquinelli (la giovane insegnante fiorentina che il 10 febbraio 1947 – giorno del diktat – volle esprimere la forte protesta degli Italiani e degli Esuli quando la sua rivoltella eresse a vittima simbolica il Comandante militare alleato della città istriana, Generale Robert de Winton).

Giustamente, oggi si parla tanto di collaborazione, cooperazione e conciliazione: valori sostanziali che nessuno intende discutere, e che sono stati recepiti ormai da tempo anche in sede economica e giuridica, per non dire della pace sottoscritta «obtorto collo» con quel trattato «capestro». Ebbene, perché questi valori corrispondano realmente a un comune sentire, occorre che siano vissuti alla luce di un rapporto leale tra le parti, senza resipiscenze, e nel riconoscimento di responsabilità ormai accertate dalla storiografia e prima ancora fatte proprie dalla «vox populi». Bisogna evitare che le vittime di quella stagione amarissima vengano sacrificate un’altra volta: ciò, quale condizione necessaria affinché il doveroso Ricordo non si riduca a sterili e sempre più flebili espressioni ripetitive, ma si elevi a strumento di reale progresso umano e civile.

(ottobre 2018)

Tag: Laura Brussi, strage di Vergarolla, Maresciallo Tito, Marco Fornasir, Fabrizio Radin, Maurizio Tremul, Marco Petrelli, Carla Isabella Caca, Maria Pasquinelli, Generale Robert de Winton.