Venezia Giulia, Istria e Dalmazia: diritti negati e impegno civile
Una sentenza della Suprema Corte che induce alcune riflessioni

La Corte di Cassazione a Sezioni Unite, con sentenza del 25 marzo 2014 numero 8.055, di cui è appena ricorso il decennale, ha confermato le precedenti pronunzie dei giudici di merito con cui era stato sancito che agli esuli giuliani, istriani e dalmati nulla si deve in linea di risarcimento a saldo dei loro beni espropriati o nazionalizzati dal Governo Jugoslavo: ciò, in applicazione del trattato di pace imposto all’Italia dalle potenze vincitrici il 10 febbraio 1947. Ebbene, quella pronunzia fa ancora discutere.

La sentenza in parola chiuse una lunga vertenza iniziata col ricorso presentato da alcuni esuli e dai loro eredi che avevano ritenuto «irrisorio» l’indennizzo, largamente tardivo, erogato dal Governo Italiano in varie riprese, a titolo di acconto, nelle more di quello cosiddetto «equo e definitivo», peraltro mai determinato e quantificato in sede legislativa, con un atto che sarebbe stato necessario, anche alla luce degli impegni assunti sia pure informalmente da tutte le forze politiche.

In proposito, giova ricordare che gli acconti erano stati corrisposti con riferimento al valore dei beni perduti, ragguagliati ai livelli del 1938 e rivalutati nella misura di 1:200, mentre il coefficiente Istat di riferimento avrebbe dovuto richiamarsi, a conti fatti, a quella di 1:3.000. Ciò spiega, tra l’altro, le ragioni morali per cui diversi potenziali beneficiari non accettarono le erogazioni di cui trattasi, lasciandole acquisire dallo Stato, e non senza proporre alla pubblica opinione il comprensibile disagio per un trattamento oggettivamente iniquo.

Rivalutazione minima a parte, il ricorso degli esuli era stato motivato dal fatto che la Corte Europea, con una pronunzia del 2004 relativa ad analogo contenzioso su risarcimenti dovuti dalla Polonia a suoi cittadini per beni trasferiti a Bielorussi, Lituani e Ucraini (a seguito dello spostamento dei confini con l’Unione Sovietica) aveva statuito legittimità e obbligatorietà dei risarcimenti stessi, in importi più congrui. La Cassazione, invece, non accolse l’assunto: nel dispositivo della sentenza numero 8.055 si sarebbe chiarito che pur esistendo un «diritto soggettivo» delle parti istanti, non sussistevano limiti alle scelte del legislatore nazionale «nel determinare la misura dell’indennizzo» definito alla stregua di un intervento «ispirato a criteri di solidarietà» e non a specifici obblighi «di natura risarcitoria per un fatto illecito non imputabile allo Stato Italiano».

Il dispositivo in questione lasciava diversi dubbi. Anzitutto, il riferimento alla «misura dell’indennizzo» e non alla sua completa quantificazione possibile in un’ottica di giustizia, sembrava ridurre il margine di discrezionalità legislativa, anche se gli indennizzi già corrisposti erano stati sostanzialmente «irrisori»: cosa giustificata dalla natura solidaristica e non risarcitoria sancita dalla Cassazione in termini cogenti. Eppure, lo Stato Italiano si era giovato dei beni già appartenenti agli esuli, detraendone il valore dall’importo dei debiti di guerra che il trattato di pace aveva imposto di corrispondere ai vincitori, e nel caso di specie, alla Repubblica Federativa Jugoslava.

La Suprema Corte aveva rilevato una differenza decisiva con il caso eccepito dai ricorrenti circa il risarcimento polacco per beni trasferiti nelle Repubbliche ex Sovietiche, avallato dagli Stati vincitori del conflitto diversamente da quanto fatto per l’Italia: secondo la Cassazione, quest’ultima non ha compiuto violazioni perché la nazionalizzazione dei beni giuliani, istriani e dalmati si è verificata per «opera di uno Stato straniero» a cui il territorio era stato ceduto in forza del trattato di pace, mentre nel caso della Polonia l’obbligo risarcitorio era sorto a prescindere da tale vincolo primario.

Non si può negare, tuttavia, che i Diritti dell’Uomo, per definizione inalienabili, prescindono dall’esercizio della sovranità, a più forte ragione, dal fatto che lo Stato cui appartenga l’uno o l’altro cittadino abbia vinto o perso una guerra. Ciò, senza dire che nel caso della Polonia, di cui si diceva, era stato sentenziato l’obbligo a corrispondere i risarcimenti per beni sottratti a suoi cittadini, solo perché gli indennizzi non erano stati riconosciuti in una misura economicamente «ragionevole». La possibilità di nuove azioni di parte esule in sede europea è rimasta un noumeno, tanto più che si sarebbe dovuta confrontare con tempi verosimilmente non brevi e rischi non marginali, inducendo una nuova riduzione degli aventi causa in grado di trarre beneficio dalla cosiddetta causa «pilota». Basti ricordare, a tale riguardo, che le richieste di acconto pervenute al Governo Italiano erano scese gradualmente dalle 36.000 iniziali alle 14.000 dell’ultima trancia presentate nel lontano 2001, con un’incidenza sul totale degli esuli stessi non superiore ai 4 punti percentuali.

In conseguenza, anche «ex prima facie» non appare irragionevole che la maggioranza delle Organizzazioni appartenenti al mondo esule, dopo la sentenza della Corte Suprema, avesse espresso l’avviso secondo cui si sarebbe dovuto piuttosto «perseguire la via politica trovando le risorse necessarie per risarcire quello che si può»: ecco un modello opinabilmente e oggettivamente sbrigativo per rinviare ogni residua responsabilità al momento politico ed elidere quelle dei soggetti in questione, sia pure subordinate.

Altri non mancarono di definire il provvedimento giudiziario in questione alla stregua di una «pietra tombale sulle attese dei Giuliani e Dalmati», come fece il quotidiano triestino d’informazione: una diagnosi non azzardata, anzi realistica, se si pensa che l’Onorevole Roberto Menia, primo firmatario della Legge 30 marzo 2004 numero 92, istitutiva del «Giorno del Ricordo» di Esodo e Foibe, intervenendo alla celebrazione del decennale, avrebbe detto che per i beni cosiddetti abbandonati «è andata come è andata», con un chiaro cenno a responsabilità prioritarie dell’ordine giudiziario, ma non solo.

Va comunque soggiunto, per quanto ovvio, che il problema dei beni non riguarda la maggioranza degli esuli, ma una pur qualificata minoranza le cui citate flessioni numeriche sono da attribuire, anzitutto, alla progressiva scomparsa della prima generazione, oltre che alla disinformazione spesso assoluta degli eredi che mette in luce le responsabilità di quanti non hanno fatto in modo di rimuoverla.

Esistono altre attese di ordine morale che, al contrario, si estendono all’intera platea del mondo esule, e la cui soddisfazione avrebbe un costo sostanzialmente nullo per la finanza dello Stato. In questo senso, parlare di «pietra tombale» è sembrato alquanto prematuro: in effetti, sarebbe ancora tempo di battersi per orientare la volontà del momento politico in senso conseguente, e perseguire obiettivi forse limitati ma di oggettiva valenza etica, senza correre l’alea di una negazione motivata da note e permanenti difficoltà di bilancio, oggi massimizzate.

Dopo la nuova proroga della Legge numero 92 nella parte riguardante il conferimento di riconoscimenti ai congiunti delle vittime infoibate ovvero altrimenti massacrate (la concessione aveva riguardato un numero relativamente contenuto di richieste a fronte di una reale potenzialità largamente superiore), resta in lista d’attesa la revoca delle pensioni privilegiate già concesse agli assassini delle vittime infoibate o altrimenti massacrate, col beneficio chiaramente incostituzionale di una piena reversibilità a favore del coniuge superstite contro quella di tre quinti prevista per ogni cittadino italiano, senza dire della piena vigenza con cui applicare la Legge 15 febbraio 1989 numero 54 in materia di anagrafe, tuttora oggetto di ampie violazioni perché sfornita di un adeguato supporto sanzionatorio a carico dei soggetti che continuano a dichiarare irresponsabilmente il falso per gli esuli nati prima del 16 settembre 1947 (data del passaggio effettivo di sovranità) nei territori trasferiti alla Jugoslavia in applicazione del trattato di pace.

L’elenco potrebbe continuare: a esempio, con la tutela dei sepolcri e dei monumenti funerari italiani nei 300 cimiteri rimasti oltre confine, se non altro per impedirne la cancellazione da parte delle gestioni croata o slovena, in spregio di ogni ragionevole «pietas», con l’ottimizzazione dei libri di testo per le scuole, tuttora caratterizzati da forti e talora clamorosi limiti di negazionismo o giustificazionismo nell’approccio alla storia dell’Esodo e delle Foibe, e via dicendo.

Con la sentenza di cui in premessa, la Corte di Cassazione ha scritto una pagina opinabile da leggere in chiave politica prima che giuridica, ma bisogna pur dire che non si tratta di una vera e propria novità. Non certo per caso, a carico degli esuli pensionati e delle categorie assimilate, fra cui quella degli ex combattenti, è stata pronunciata un’altra sentenza della Consulta che ha negato la costituzionalità della perequazione automatica «ex tunc» di cui alla Legge 140/85, pur dopo una miriade di pronunzie giudiziarie di ogni ordine e grado, fino a quelle della stessa Cassazione, in cui gli Istituti previdenziali furono regolarmente e sistematicamente soccombenti: eppure si trattava di cifre modestissime, o meglio di mera valenza simbolica, in specie se rapportate a quelle dell’indennizzo «equo e definitivo» in tema di beni, più volte promesso e mai statuito.

Proprio per questo, è auspicabile che il mondo politico italiano sia oggetto di un’informazione adeguata, e quindi che quello esule, lungi dall’adagiarsi sotto la «pietra tombale» del fatto compiuto, prenda coscienza più matura dei propri diritti assumendo il conseguente impegno di tutelare, se non altro, la propria conclamata dignità. Si tratta di un programma minimo ma consapevole dal quale muovere per il perseguimento di obiettivi etico-politici conformi al sacrificio di una grande comunità italiana, i cui diritti, come da pertinente definizione dell’illustre patriota istriano Italo Gabrielli, sono stati troppo spesso negati, nell’ambito di un autentico «genocidio programmato».

(giugno 2024)

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