Trieste: un settantennio dalla seconda
redenzione
I motivi di un anniversario
Il 26 ottobre è una data importante nella storia nazionale del Novecento, quale 70° anniversario del ritorno di Trieste all’Italia, dopo circa 10 anni di sofferenze culminate nei terribili 40 giorni di occupazione militare jugoslava (maggio-giugno 1945) caratterizzati dalla scomparsa senza ritorno di un alto numero di cittadini nelle foibe o nelle prigioni della Repubblica Federativa titoista, e negli angosciosi interventi del Governo Militare Alleato a danno di una popolazione inerme (novembre 1953) ma decisa a confermare, con la propria fede italiana, la precisa volontà di riunione alla Madrepatria, conseguita nell’anno successivo, sia pure a costo della rinuncia alla parte orientale del cosiddetto Territorio Libero, con Buie, Capodistria, Pirano e gli altri centri della Zona «B» affidata dopo il trattato di pace all’amministrazione provvisoria di Belgrado.
Non si tratta di un anniversario gioioso, alla luce di quanto è stato opportunamente rilevato negli interventi a mezzo stampa del Senatore Roberto Menia, anche nella sua qualità di primo firmatario della Legge 30 marzo 2004 numero 92, istitutiva del Ricordo di una grande tragedia storica, dai permanenti effetti attuali. Basti citare l’esodo plebiscitario dei 350.000 profughi da Venezia Giulia e Dalmazia, pari a oltre nove decimi degli abitanti; le 20.000 vittime del terrorismo slavo, infoibate o altrimenti massacrate per opera di Tito e dei suoi corifei in specie a guerra terminata; le «complesse vicende del confine orientale» con amputazione a danno dell’Italia, e in favore della Jugoslavia, di due grandi Regioni, ovvero di tutta la Dalmazia e di gran parte della Venezia Giulia, voluta dall’iniquo trattato di pace del 1947, e completata con quello di Osimo del 1975, tanto più opinabile perché firmato a un trentennio dalla fine del conflitto, e quindi, trascorso gran tempo dal pieno recupero della sovranità italiana nel consesso internazionale.
In effetti, col ritorno dei Bersaglieri nella città di San Giusto fra gli osanna popolari di quel mitico 26 ottobre, si mise fine – se non altro – all’ibrido del Governo Militare Alleato su Trieste e la Zona «A» del Territorio Libero (1947-1954): tuttavia, anche in quel giorno, non a caso di pioggia intensa e di vento impetuoso, le coscienze più attente e sensibili a corretti sentimenti patriottici, sia nella stessa Trieste, sia in tutta Italia, avvertirono il disagio, se non anche il dolore, di un’amputazione tanto più dolorosa perché sostanzialmente definitiva: gli eventi successivi lo avrebbero ampiamente confermato. Del resto, come il Senatore Roberto Menia ha opportunamente posto in evidenza, quel giorno ebbe inizio una grande aggiunta dell’esodo, con nuove e ampie partenze dalla Zona «B» tanto da incrementare di circa un settimo il totale dei profughi senza ritorno, fino alla predetta cifra conclusiva dei 350.000 (cui sarebbero da aggiungere gli esuli dalle zone adriatiche non appartenenti all’Italia nemmeno dopo la Grande Guerra).
In tale ottica, non è certo un’iperbole, bensì un’affermazione da condividere «toto corde» quella con cui il Senatore Menia, dopo avere correttamente confermato che il Primo Conflitto Mondiale visto da parte italiana non fu altro che la «Quarta Guerra del Risorgimento», ha aggiunto che i sette caduti del novembre 1953 possono essere definiti, altrettanto correttamente, come gli ultimi martiri di un analogo processo di redenzione, la cui memoria deve essere onorata e condivisa, perché «non c’è futuro senza fare sul serio i conti con la propria storia». Ecco una tesi da condividere a più forte ragione nel 70° anniversario della seconda redenzione di Trieste, perché l’assunto non deve e non può essere manifestazione di velleità revansciste che nell’Europa contemporanea sarebbero anacronistiche, mentre può e deve essere «un passo fondamentale» per rendere concreto il futuro, non certo a parole, ma ritrovando uno «slancio imprenditoriale, creativo e culturale» che sembra essersi affievolito all’insegna del crescente individualismo, non a caso già oggetto di motivati e altissimi dissensi, fra cui quelli dell’indimenticabile Santo Padre Benedetto XVI.
Non c’è dubbio. L’anniversario in questione, a prescindere dalle pur commendevoli manifestazioni celebrative, se non altro a giusta informazione di giovani generalmente ignari per evidenti responsabilità altrui, ha lo scopo prioritario di risvegliare coscienze e promuovere riflessioni aggiornate, specialmente in una stagione che, a Trieste come altrove, sta assistendo a flussi di nuovi arrivi dei migranti dall’Est Europeo e da altri continenti in condizioni umane e sociali non meno critiche, tali da richiedere accoglienze opportunamente filtrate e selezionate: ecco un buon motivo in più che suffraga gli auspici di Menia, a cominciare da quelli rivolti al momento economico e sociale, e implicitamente, alla necessità che sia supportato con misure adeguate da parte del sistema pubblico e privato.
Il senso di questi auspici è di tutta evidenza. Occorre un nuovo spirito di collaborazione, a cominciare da quella nell’ambito europeo, messa tristemente in forse con ingiustificate accuse all’Italia che finalmente sono state respinte all’unisono da maggioranza e opposizione. L’assunto è necessario, oltre che urgente, all’insegna di una congiuntura mondiale progressivamente aggravata dalla crescita demografica talvolta incontrollata, dai venti di guerra che hanno preso a spirare in misura crescente anche in Europa e nel Vicino Oriente, e da un sistema economico che, invece di tendere a ridurle, sembra propenso a implementare le disparità di reddito, e conseguentemente, i sussulti di minoranze tanto più competitive, perché pronte a tutto.
In buona sostanza, quella proposta dall’Onorevole Roberto Menia in concomitanza del settantennio in questione è un’autentica «lectio magistralis» che merita di essere appresa dalle migliori coscienze, e soprattutto, tradotta in misure concrete: da questo punto di vista, è sempre attuale, e degno di essere tradotto in fatti reali, il richiamo di Benedetto Croce secondo cui «la linea del possibile si sposta grandemente grazie alla forza inventrice della volontà che veramente vuole».