Terre perse giuliano-dalmate
Un libro – non esente comunque da limiti
ed errori – per conoscere, riflettere, discutere
La storia dell’Alto Adriatico si è progressivamente arricchita di tanti nuovi contributi, fino a comporre un panorama assai composito e dettagliato, nel cui ambito è congruo fare riferimento, tra gli accessi più recenti, alla silloge di Ulderico Bernardi (Terre perse: l’amputazione della Venezia Giulia dall’8 settembre 1943 al 10 febbraio 1947, Biblioteca dei Leoni, Castelfranco Veneto 2021, 144 pagine). Il Professor Bernardi, docente di sociologia dei processi culturali e comunicativi dell’Università di Venezia, immaturamente scomparso proprio alla vigilia della pubblicazione, ha dato voce al cosiddetto neutralismo con questo agile ma problematico volume, corredato da un’ampia documentazione iconografica, che si compone di una premessa riguardante lo scenario adriatico, e di tre capitoli principali, concernenti rispettivamente le storie di Trieste, Pola, Fiume e Zara (queste ultime riunite), occorse nell’ultimo scorcio della Seconda Guerra Mondiale e negli anni immediatamente successivi, fino all’infausto trattato di pace del 1947.
Si tratta di una silloge piuttosto stringata, appartenente a valutazioni che non intendono prescindere dal carattere essenziale dell’oggettività, ma che alla fine propendono con tutta evidenza per un’interpretazione della storia locale d’impronta antislava, ma nello stesso tempo lontana dal comprendere le posizioni storiche italiane, ivi comprese quelle del primo irredentismo democratico di cui all’omonimo movimento fondato nell’ormai lontano 1877, per opera precipua di patrioti come Giuseppe Avezzana, Agostino Bertani, Giovanni Bovio e Matteo Renato Imbriani.
Non manca qualche errore di troppo, fra cui quello – obiettivamente macro – di avere affermato che «il trattato di Rapallo del 12 novembre 1920 aveva stabilito l’annessione di Fiume» alla Madrepatria Italiana, mentre ne aveva accettato l’effimera realtà autonomista affidata al breve Governo di Riccardo Zanella, senza dire che l’annessione in parola sarebbe diventata un fatto reale soltanto agli inizi del 1924, a opera del nuovo Governo Mussolini. Del pari, non corrisponde al vero che soltanto dopo il trattato di pace del 10 febbraio 1947 avrebbe fatto seguito l’esodo forzato della cittadinanza fiumana, che al contrario – nella consapevolezza che il capoluogo del Quarnaro fosse ormai perduto – era stato già compiuto da un rilevante numero di cittadini sin dal biennio precedente, a conflitto appena chiuso.
Le pagine più diffuse sono quelle che riguardano Trieste, che l’Autore interpreta nella sua realtà di città cosmopolita, aperta a tante nazionalità, ricordando i 40 giorni della terribile dominazione titoista fra maggio e giugno del 1945, ma senza aggiungere che la stragrande maggioranza della popolazione era italiana, e che in quel confuso dopoguerra, dopo aver dovuto subire un alto numero di vittime infoibate o altrimenti massacrate, il capoluogo giuliano fu costretto alla lunga esperienza del Governo Militare Alleato, protrattasi fino agli anni Cinquanta con il funesto episodio del novembre 1953, quando la polizia inglese, col supporto dei cosiddetti «cerini» reclutati fra il popolo, avrebbe sparato ad alzo zero sulla folla inerme, uccidendo quelli che furono definiti gli «ultimi Martiri del Risorgimento»[1] ma la cui tragedia umana non ha trovato spazio nelle pagine del Professor Bernardi, che peraltro non manca di ricordare come nel 1944 gli auspici di unione alla Jugoslavia – di origine facilmente intuibile – non fossero mancati nemmeno a Motta di Livenza e Oderzo, ben oltre le stesse pretese surreali di Belgrado, finalizzate a spostare il confine sul Tagliamento.
Riferimenti importanti, e talvolta originali, riguardano invece il pericolo della «deculturazione» indotto da un generico quanto affrettato mondialismo, a danno delle 330 culture «regionali» della vecchia Europa, tra cui quelle giuliane, istriane e dalmate, a loro volta molteplici e diverse, ma proprio per questo, oggetto di un’importante vita storica, compromessa almeno in parte da un trauma come quello degli anni Quaranta, del grande Esodo e della negazione di valori essenziali. Considerazioni analoghe valgono per il Colloquio Internazionale tenutosi nell’Università di Pennsylvania durante il 1957, quando furono messi in chiaro i valori inalienabili delle civiltà occidentali: rispetto per la persona, caratteri essenziali di libertà, responsabilità morale e solidarietà, civiltà del dialogo fra tutte le culture non solo dell’Occidente, adattamento di questi valori alle diverse occasioni storiche.
Quanto a Zara, sono da citare il riferimento alla tragica storia del Prefetto Vincenzo Serrentino, condannato alla fucilazione, non già con la prassi sommaria – se non anche immediata – riservata alla gran parte dei Martiri, ma dopo uno spettacolare «processo» intentato nei suoi confronti durante il lungo dopoguerra; e quello, davvero surreale, riguardante la mancata consegna della MOVM al capoluogo dalmata, che il Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi aveva conferito al suo Gonfalone nel settembre 2001, e che rimase in lista d’attesa per una malintesa quanto opinabile condiscendenza alle proteste jugoslave.
Molto diffuso è il capitolo riguardante Pola «capitale dell’Istria» con le sue rievocazioni della strage di Vergarolla a danno pressoché esclusivo degli Italiani, quando si contarono almeno 110 vittime facendone uno dei massimi eccidi avvenuti in tempo di pace (agosto 1946); con la rievocazione di Nazario Sauro, il Martire assurto a simbolo dell’irredentismo, caduto nel 1916 sulla turpe forca dell’Austria perché colpevole d’italianità; con quella non meno straziante della morte di Romano Mignani, il «bambino soldato» quattordicenne, appartenente a famiglia istriana emigrata in cerca di salvezza nella Marca di Treviso, che nel giugno 1944 volle essere un milite della Repubblica Sociale Italiana andando incontro alla morte[2] sopravvenuta in tempo di pace o presunta tale (maggio 1945) al Ponte della Priula, sull’argine sinistro del Piave, dove una pattuglia di partigiani comunisti lo uccise a colpi di mitragliatrice assieme ad altri 120 camerati; infine, col dramma minerario avvenuto nelle gallerie istriane di Arsia alla fine degli anni Trenta, quando 186 operai, parecchi dei quali immigrati, in specie Sardi, scomparvero a causa di un’esplosione che diede luogo alla massima tragedia settoriale avvenuta in Italia[3].
In buona sostanza, quello di Ulderico Bernardi è un libro che si legge con forte partecipazione, anche per l’apporto di taluni episodi inediti, per l’afflato etico cui appare certamente ispirato, e per le frequenti citazioni di personaggi importanti, tra cui emergono con particolare rilevanza quelle di Niccolò Tommaseo, di Fulvio Tomizza e di Claudio Magris, anche se innegabilmente rivenienti dalle notevoli simpatie neutraliste di questi Autori, con particolare riguardo in chiave attuale alle ultime due. In definitiva, un libro che induce riflessioni non effimere, nell’ambito di un confronto che non implica adesioni totali, ma che rimane, a più forte ragione, arra di utile valutazione storiografica, umana e civile.
1 Tra gli altri, scomparvero i giovani Piero Addobbati e Leonardo Manzi, quest’ultimo di famiglia esule da Fiume, rispettivamente di 15 e 18 anni. In una celebre fotografia scattata sul sagrato di Sant’Antonio Nuovo, luogo dell’eccidio, si vede il compianto Pierino appena colpito a morte dalla polizia, sorretto pietosamente e drammaticamente da alcuni studenti. Giova rammentare che la Basilica fu prontamente riconsacrata all’indomani dell’eccidio stesso dal Vescovo di Trieste e Gorizia, Monsignor Antonio Santin, con grande concorso di folla commossa (novembre 1953), ed eco non meno rilevante in tutta Italia (non a caso, a Firenze ebbe vita un’Associazione studentesca dedicata proprio alla memoria di Piero Addobbati, che si sarebbe resa protagonista di varie iniziative patriottiche e di suffragio delle vittime).
2 Romano Mignani non fu certamente l’unico adolescente scomparso per mano nemica durante i 18 mesi di vita della Repubblica Sociale Italiana, anche se il Professor Bernardi ha ritenuto, proprio per la giovanissima età, di proporlo alla comune attenzione quale simbolo di quella stagione plumbea. Al contrario, furono tanti i minorenni, per non dire delle Ausiliarie anch’esse tali, che conobbero la medesima sorte, e che furono in numero tanto più alto, perché all’epoca il conseguimento della maggiore età aveva luogo col ventunesimo anno.
3 Le cause dell’esplosione non furono mai chiarite, pur essendone stata presunta un’origine naturale dovuta alla deflagrazione del gas. Sta di fatto che alla vigilia degli anni Quaranta l’occupazione nella miniera di Arsia aveva raggiunto un nuovo massimo storico, nell’ordine di parecchie migliaia di unità, e che la produzione aveva fatto registrare altrettanti massimi, indotti dalla politica autarchica imposta dal regime, e nello stesso tempo, dai venti di guerra, all’origine non certo ultima del potenziamento estrattivo programmato in sede governativa.